Lettera fermo posta ad uno scarabeo di Monterozzoli
Resilienze Lazio

Lettera fermo posta ad uno scarabeo di Monterozzoli

sabato 23 luglio, 2016

ROMA - Carissimo lettore scarabeo, sai che ho molta stima di te, per non tediarti con la mia “lenzuolata” perciò stavolta cercherò di cedere al fascino della ricostruzione polemica, che si deve a lettori incalliti come te e me; ma so di non poter garantire sugli esiti delle mie riflessioni, sono francamente felice che nelle nostre frequentazioni di questi luoghi “sociali”, noi due si abbia la voglia e la forza di sostenere tanto argomentate con diverse opinioni, che pur con le dovute differenze ideologiche, trasudano di limpida onestà intellettuale in entrambi i casi.

Mi auguro solo che ai tuoi 15 minuti di lettura, che dedicherai a questa mia, tu non debba far corrispondere 6 ore di studio del mio precedente pezzo, perché ti assicuro che non oso immaginare come si possa svolgere una nostra reale conversazione a scintille, per troppe ovvie considerevoli ragioni, che ci portano entrambi a pensarla diversamente ed a preferire contaminazioni d’intelligenza. Sono francamente onorata di annoverare tra i miei migliori amici persone diversissime da me e dalle mie idee, adoro i confronti e le sane intelligenti dispute, anche quelle fatte in punta di fioretto.


Forse è anche per questa imperscrutabile ragione che noi due non ci si imbatte mai, per strada, nei luoghi in cui viviamo. I Docenti non le scuole, caro Scarabeo, fanno quello che possono circa i Razzismi, certo abolire l’ora di religione sarebbe anche un obiettivo interessante da perseguire, che attuo come posso, “litigando” con ogni buon collega della infelice materia, poiché aborro anch’io che la materia sia studiata nelle scuole pubbliche, e finanziata con soldi pubblici. Ma Il concordato fu opera mussoliniana, ed anche Craxi lo ratificò con buona pace del popolo italiano.

Tralascio per opportunità di sintesi il commento dei tipi logici, Russell, e la prima proprietà dei gruppi, esimio dottore col culto della lettura, mio caro moderno Sisifo, non basta portare da degno scarabeo quale affermi di essere, le palle di sterco come fai tu, in cima ai monterozzoli, senza correre il rischio di venirne travolti, comprendi ben bene da cosa; senza che le esperienze della storia d’Italia, possano esser riaperte a beneficio di un refrigerio storico, che nella calura estiva serve a rinfrescare il nesso tra gli studi del mondo “antico” e le ideologie dominanti e non è detto che entrambi, con le nostre letture “apocrife” non ne restiamo vittime.

Al netto del fatto che che io socraticamente mi reputo altamente “ignorante” sia della storia che della filosofia, oltre che di ogni altro scibile, e dell’umano sentire, che pur tuttavia insegno (ahi noi!) - anche attraverso fulgidi “esempi” - mi concedo perciò la libertà di sollecitare alla riflessione dei pazienti lettori, non sempre per persuaderli del contrario della altrui opinione, e sono felice che tu sia tra questi.

Circa il tema della schiavitù a cui era sottoposta la popolazione abissina, come tu affermi essere l’infausta impresa, fu secondo il tuo convincimento “propaganda” italiana, tale da voler riconoscere a vanto dell’occupazione dell’Etiopia”. Scuserai allora, la sarcastica risata irriverente, ma è intrigante la demolizione di questa fantasiosa tesi.

Sai che per chi voglia studiare la civiltà europea, il fascismo, è un asse portante della cultura moderna, ed uno dei suoi tarli migliori, uno dei suoi più delicati punti di ambiguità.[MORE]

Il razzismo fascista non "fu all'acqua di rose”, le leggi razziali del fascismo furono una vergogna e una infamia imperdonabile.

Il fatto stesso che tu voglia riproporre il fascismo come scoperta di una nuova cultura libertaria, con annessa guerra di liberazione in favore delle popolazioni africane, è perciò alquanto bizzarro, e non può che vedermi opportunamente lontana dalle tue convinzioni e posizioni, francamente discutibili, perché non rispondenti al vero storico, che certo non faranno ottemperare alla brevità, né alla sintesi di questa ardita riflessione, nonostante tutte le pur buone intenzioni nel fornirti un’opportuna risposta alle tue annotazioni a margine del pezzohttp://www.infooggi.it/articolo/quelle28099aria-tossica-e-pesante-che-fomenta-il-terrorismo-e-anche-razzismo/90217/.

Così mi appresto ad argomentare, presa dall’irrefrenabile delirio di un rapido ripasso della storia, a chi infelice scolaro, ha da recuperare qualche meschino debito con la verità.

I numerosi studi sul fascismo, di una modesta bibliografia, sono sostanzialmente concordi nel rilevare che il fascismo fu Regime che sebbene ebbe alcune continuità col periodo precedente, ne considerò anche delle decisive rotture, conservò la forma monarchica, col sovrano titolare del potere esecutivo, giudiziario, e nel complesso la condivisa e accettata legislazione del periodo liberale, integrata e plasmata in senso autoritario, che non fu per nulla cancellata dal fascismo. Il regime “conservò” infatti in servizio la burocrazia civile e militare precedente, la rottura col periodo liberale, fu altresì netta e si espresse con l’abolizione delle libertà fondamentali dei cittadini, nel riordino in senso autoritario e gerarchico, dell’ordinamento istituzionale, e con l’integrazione nello stato del PNF (partito nazionale fascista). Ti ricordo per dovere di completezza e non di erudizione, che la legislazione fascista eliminò la libertà di stampa, di associazione, di riunione, di manifestazione del pensiero, la libertà di circolazione.
Due cosine invece poco carine, vorrò rammendartele appresso, circa il razzismo che esercitò il fascismo, a proposito delle leggi razziali del 38, le troverai inserite nell’indirizzo repressivo delle libertà, che privò di fatto i cittadini uomini e donne (di religione ebraica) dei diritti fondamentali, escludendoli e limitandoli pesantemente.

Quando l’Italia aggredì e poi annesse il paese dell’Africa Orientale, si sviluppò l’idea di evitare il “rischio” di una popolazione di “meticci”, cioè di persone nate dall’unione tra italiani bianchi e africani neri. In questo modo il fascismo produsse le prime norme di stampo razzista, vietando il matrimonio tra bianchi e neri.

In pochi mesi il razzismo diventò anche antisemitismo (ostilità contro gli ebrei), cioè quella forma particolare di razzismo che era molto diffusa in Europa in quegli anni: nella Russia zarista di inizio secolo, nella Germania nazista, nella Polonia della dittatura militare e così via.

Nei primi mesi del 1938 anche in Italia ci fu una violenta campagna antisemita, che portò il regime fascista a promulgare, le infami “leggi razziali”, cioè delle leggi in cui si diceva che gli italiani erano “ariani” e che gli ebrei non erano mai stati italiani.

A partire da quel momento, gli ebrei italiani non poterono più lavorare nelle amministrazioni pubbliche, insegnare o studiare nelle scuole e università italiane, far parte dell’esercito, gestire alcune attività economiche e commerciali che il fascismo giudicava “strategiche” per la nazione.

Di anno in anno le misure contro gli ebrei diventarono sempre più dure, fino al 1943, quando l’occupazione tedesca dell’Italia del centro-nord diventò una tragedia anche per gli ebrei italiani, molti dei quali finirono nei campi di concentramento e di sterminio. In quegli anni gli italiani si comportarono in maniera molto diversificata nei confronti dei loro connazionali di origine ebraica, dissidenti, omosessuali etc. in molti casi li aiutarono a sopravvivere e, al momento del bisogno, li nascosero e portarono in salvo; in altri casi, soprattutto nelle città più piccole, ne approfittarono per ricavare dei vantaggi economici e li denunciarono alle autorità.

La politica esplicitamente "razzista" del fascismo italiano, fu espressa contro i bersagli più deboli, come sempre accade, ad esempio gli omosessuali, per i quali la repressione durò circa tre anni (dal 1936 al 1939) ma anche nella sua brevità si rivelò assai istruttiva, per capire la mentalità che fa ancor oggi degli omosessuali il gruppo di persone più odiato dai cittadini italiani e maggiormente colpito dall’intolleranza.

In Storia esistono silenzi e "spazi vuoti" che contrariamente a quel che si crede hanno grande importanza, perché danno le dimensioni del rimosso, di ciò che viene censurato dalla società. Il grande spazio bianco che in epoca fascista campeggia là dove dovrebbe esserci, una “politica" è in effetti più eloquente di mille discorsi.

Voglio riferirmi infatti all'inserimento degli omosessuali tra i gruppi di cittadini da colpire per la "tutela della razza" che avvenne palesemente per scimmiottare la Germania nazista, ma venne goffamente trapiantata su un terreno culturale del tutto incongruo.

La decisione, frutto di un entusiasmo astratto, interferì anzi con la tradizione razzista preesistente, disturbandola, e soprattutto cozzò contro una tradizione di repressione dell'omosessualità estremamente efficace e collaudata, rischiando di intralciarla e per di più di rivelarsi addirittura controproducente.

Il paradosso maggiore di tale decisione, fu quello di definire gli omosessuali "razza", al pari degli ebrei o dei negri, significava riconoscere loro uno status di gruppo sociale, per quanto deviante e criminale. Ciò contraddiceva in pieno la strategia seguita fin lì dal fascismo, che a sua volta si basava su almeno un secolo di tradizione giuridica e repressiva italiana, che puntava a cancellare del tutto l'omosessualità negandole qualsiasi spazio di visibilità, fosse pure quella deviante.
Questo con tutta evidenza spiega il risultato modesto di questa politica contro gli omosessuali: meno di 90 condanne al confino "politico" (alcune proprio a Ferramonti di Tarsia Cs, campo d’internamento) per "difesa della razza" inflitte ad ad una quantità notevole di popolazione. Tra il 1936 e il 1939 si diede corso ad una vera e propria “caccia” e di queste 42 operazioni andate a buon fine a danno di omosessuali, furono opera di un unico questore, quello di Catania, un tale Molina, che prese troppo sul serio una decisione che i suoi colleghi, per lo più, si limitarono a snobbare.

Questo "fallimento" non apparirà del tutto strano a chi nota che promulgando il codice Rocco nel 1931, il fascismo aveva appena avuto, cinque anni prima delle leggi razziali, l’occasione di introdurre anche leggi anti-omosessuali in Italia. Ma tale idea fu scartata proprio per non dare pubblicità al fenomeno.

Gli italiani erano e sono troppo virili, per essere considerati omosessuali: ecco quale fu la parola d'ordine del regime! Per settant'anni gli italiani avevano ripetuto che l'omosessualità era un tipico vizio da inglesi e tedeschi e far confessare l’inconfessabile proprio al fascismo, avrebbe significato affermare che l'omosessualità esisteva perfino in Italia.

Non stupisce insomma che le leggi razziali italiane non abbiano portato con sé - e solo per non concedere pubblicità - nessuna legge antiomosessuale, all'estensione della "politica di difesa della razza" agli omosessuali, che avvenne semmai per via di misure amministrative, e non per mezzo di leggi ad hoc, come accadde invece in Germania.

In pratica ciò che avvenne in quegli stessi anni fu classificare come "confinati politici" anziché come "confinati comuni" un'ottantina di omosessuali, o poco più. Tutto qui. Il confino stesso, "politico" o comune, era comminato agli omosessuali non sulla base di una legge apposita, bensì sulla base del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza promulgato con Regio decreto nel 1931 , che dava alla polizia il potere discrezionale di eliminare dalla convivenza sociale un individuo che avesse un atteggiamento “scandaloso”.

Forse per questo ragione si evitava di ricorrere a processi regolari (ne bastava uno sommario), non erano necessarie prove, in quanto le prove le doveva fornire la polizia, che proponeva il confino e la cui "parola d'onore" costituiva prova essa stessa. Bastava che la polizia affermasse che una certa persona "dava scandalo": tutto qui.

In questo modo fu facile punire quegli omosessuali che non vivevano in modo sufficientemente segreto la loro condizione. Altri metodi repressivi di cui ho trovato traccia negli archivi, sono il pestaggio (normale sotto il fascismo, ed in qualunque stato di polizia), l'uso delle classiche bottiglie d'olio di ricino, il licenziamento se si lavorava per un ente pubblico, e molto spesso anche l’ammonizione (una specie di arresto domiciliare mitigato) sotto la sorveglianza costante della polizia.

Queste sono tutte forme di repressione che non passano attraverso il codice penale, e perciò non lasciano traccia, non si prestano ad essere pubblicate sui giornali, sfuggono all'attenzione degli storici, non entrano a fare parte di statistiche, sono indolori per la società, ma non ovviamente per chi ne è colpito.
Al contrario la persecuzione "razziale" degli omosessuali, laddove fu applicata con coerenza, a Catania ad esempio, creò uno scandalo (sotterraneo) di tale dimensioni che persone anziane già interrogate nel 1987 ne ricordavano ancora gli effetti. Non c'è dunque da stupirsi se allo scoppio della guerra il fascismo si sbarazzò alla chetichella di questa nuova, e inadeguata, strategia di persecuzione. Ma non voglio divagare, sia pure gli spunti che mi offri sono tanti, e tutti succulenti. Procedo d’impeto.


Durante il fascismo paradossalmente, lo statuto albertino formalmente valido e garante delle libertà ottocentesche, rimaneva in vigore senza quelle libertà e diritti, di cui si era ravvisata la necessità di eliminazione. In uno stato a cesarismo autoritario, in cui cioè le libertà erano state abolite, la metamorfosi autoritaristica, cioè l’onnipervasività delle strutture istituzionali, la centralità di una ideologia espressione di leggi eterne della natura e della storia, di capillarità del terrore come strumento di dominio della società, l’abbandono della razionalità, il primato del partito unico e l’eliminazione del pluralismo sociale, comprendi bene caro Scarabeo, che rendono la politica “mediatrice”di Mussolini alquanto pressapochista, per i miei gusti decisamente spigolosi. Che vuoi sono debole di stomaco.

Non solo perché le intese raggiunte dall'Italia con Francia e Gran Bretagna per contenere i disegni annessionistici della Germania nazista, si pensò che avessero un tacito consenso, per mettere le mani sull'Impero etiopico di Hailé Selassié, presentato con artificio di prestidigitazione come il coniglio fatto comparire dal cilindro, con saccente piccineria italiota.

La campagna antietiopica fu poi - come ben sai - accompagnata da una massiccia propaganda fascista sulla necessità per l'Italia di avere"un posto al sole" e di trovare uno sfogo per la sua popolazione. In fin dei conti, secondo Mussolini, si trattava di un paese barbaro, che valeva la pena “civilizzare”, anche a costo di barbare brutalizzazioni, soprattutto a danno della popolazione femminile, potrai immaginarne sin anche le dinamiche; per le quali sarebbe stato assurdo far intervenire la Società delle Nazioni.

Il fascismo come è noto arrivò ben ultimo nella corsa alle conquiste coloniali, adottando motivazioni e metodi che appartenevano al passato, alla prima fase dell'espansionismo coloniale europeo. Questa specie di colonialismo nazional-proletario, in un'età in cui le forme di penetrazione e di sfruttamento nei territori sottosviluppati avevano carattere capitalistico-finanziario, era un anacronismo, tanto più che non sarebbe stato per nulla difficile raggiungere forme proficue di collaborazione italo-etiopica; salvo qualche rara eccezione ben documentata, che ti risparmio.

Aggiungo che, trattandosi di una guerra contro un membro della Società delle Nazioni, il conflitto con questa sarebbe stato inevitabile e, di conseguenza, ne sarebbero stati pregiudicati i buoni rapporti con la Gran Bretagna e con la Francia. Insomma, l'impresa etiopica avrebbe mandato in frantumi il concerto italo-franco-inglese, su cui fino a quel momento era fondata la stessa sicurezza europea.

Mussolini però "tirò diritto", accettò cioè di pagare un prezzo tanto alto per la conquista dell'Etiopia. Come era prevedibile, la Società delle Nazioni condannò la guerra intrapresa dall'Italia contro l’Etiopia, il 3 ottobre 1935, nonostante i lunghi sforzi inglesi per tentare di risolvere con un compromesso il conflitto italo-etiopico, alla condanna fecero seguito le sanzioni economiche (18 novembre 1935), che consistettero nel divieto per gli Stati facenti parte della Società delle Nazioni, di mandare armi e munizioni in Italia, di concedere prestiti al governo di Roma, di importare merci italiane e di esportare in Italia merci che potessero essere utili all'industria di guerra.

Mussolini rispose alle sanzioni, rivelatesi blande e inefficaci, con clamorose manifestazioni antisanzionistiche, come la raccolta dell'oro: milioni di Italiani versarono gli anelli nuziali alla patria. Fu una specie di plebiscito, in cui la commozione popolare per i "torti" che la Società delle Nazioni faceva all'Italia raggiunse vertici altissimi. Si ebbero significative manifestazioni di solidarietà anche da parte di antifascisti come Vittorio Emanuele Orlando e Arturo Labriola. Il fascismo fino ad allora non aveva mai ottenuto consensi così vasti. Soprattutto da parte del mondo cattolico non mancarono le adesioni.

Nel tempo in cui in cui prese avvio anche la politica dell'autarchia economica: il governo mussoliniano decise così di organizzare la produzione, in maniera da ridurre al minimo le importazioni dall'estero. Fu così introdotta una severa disciplina dei consumi e furono accentuati i controlli sulla produzione industriale.

Il colonialismo italiano nel periodo fascista è - lo sai bene - un fenomeno decisamente complesso. Accanto ai grandiosi progetti di creazione di infrastrutture (ne furono realizzate di veramente notevoli sia nell’Africa Orientale Italiana, che in Libia), dai tentativi di modernizzazione economica, ai miglioramenti dell’urbanistica delle città, si alternarono fenomeni fastidiosi come l’italianizzazione forzata, figlia della retorica imperiale fascista, le leggi razziali appunto e gli espropri di terra in favore dei coloni italiani.

Proseguendo un sogno che era stato proprio dell’Italia liberale, il fascismo tentò anch’esso in Africa il cosiddetto colonialismo demografico, ovvero incentivò il trasferimento dei contadini italiani nei nuovi possedimenti coloniali. Ciò comportava in molti casi l’esproprio delle terre migliori agli indigeni; ma anche quando ciò non avveniva bastava la semplice decisione di fissare per iscritto la proprietà delle terra, per stimolare malumori o rivolte, specie nei territori rurali dell’Etiopia, dove vigevano ancora forme di proprietà collettiva e dove la sovranità effettiva del governo coloniale italiano lasciva ancora molto a desiderare.

Nonostante i grandi sforzi, il tentativo di insediare in Africa la manodopera in eccesso si rivelò del tutto impraticabile. Non disponiamo di cifre del tutto sicure, ma si ritiene che negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, quindi nel momento più alto del colonialismo italiano, (esclusa l’Eritrea che in quanto colonia primigenia vantava una comunità italiana pari a quasi il 10% della sua popolazione), la percentuale degli italiani nelle altre colonie rimanesse del tutto marginale; prendendo le stime più alte: 120 mila in Libia, 60-100 mila in Etiopia, 45-70 mila in Eritrea, poco più di 10 mila in Somalia. E tenendo conto che solo una piccola parte di questi risiedevano nelle campagne dedicandosi all’agricoltura, si comprende evidentemente come gli italiani preferivano emigrare in America piuttosto che fare i contadini in Africa.

Il colonialismo italiano inoltre fu poco redditizio perché si investì molto in termini di infrastrutture, tentativi di modernizzare e costi militari veri e propri, senza tuttavia riuscire ad innescare un vera e propria economia coloniale, con scambio di prodotti agricoli e materie prime in cambio di prodotti lavorati dalla madrepatria. L’Africa Orientale Italiana e la Libia erano povere di risorse minerarie e non si immaginava che sotto quello “scatolone di sabbia” potessero esserci grandi giacimenti di petrolio.

Ciò ha spesso fatto pensare ad un colonialismo poco sfruttatore, nel senso che al di la delle ingiustizie e dei soprusi (durante il ventennio fascista), ha dato più in termini di infrastrutture ed investimenti produttivi, pressappoco ciò che poi ha preso.

Del resto per uno storico è difficile non tener conto di queste cose, e molto probabilmente impossibile, comunque in ogni caso non serve ad attenuare il giudizio morale di un azione di deliberata conquista verso regioni, come la Libia e l’Etiopia, che erano già organizzate autonomamente in stati e che stavano da sole evolvendosi economicamente e socialmente, anche senza il “contributo” italiano, in ogni caso duramente pagato col sangue.

Vorrei infine dirti due paroline su quel tale cosiddetto "macellaio" d’Etiopia, quel criminale alto in grado, Rodolfo Graziani, a cui pochi anni or sono l’apologia malata della memoria ideologica italiota, voleva erigere finanche un monumento; e si capisce siamo il paese della memoria corta, avviene sovente di trasformare i diavoli in santi e viceversa.

Tu mi insegni che con la memoria ideologica dei nostalgici a buon mercato, che magari incautamente si trovano ad amministrare, riporre l’aureola serve per tentare di alleggerirne la sostanza, de è più facile che appallottolare letame.

Graziani dopo una carriera militare costruita quasi interamente nelle guerre coloniali d’Italia, si macchiò di gravissimi crimini, al punto di guadagnarsi il titolo “onorifico” finì la sua “carriera” come ministro della Difesa della Repubblica sociale italiana, rendendosi responsabile della condanna a morte di renitenti alla leva e partigiani, crimini per i quali venne condannato nel 1948 a 19 anni di carcere, 17 dei quali gli furono poi condonati.

pochi anni fa lo sdegno delle testate del The New York Times, El Paìs e BBC, condannarono un’operazione dal sapore revisionista con l’intento di riabilitare la memoria di uno dei personaggi più sanguinari del trascorso regime fascista e del colonialismo italiano. Ebbene non fu neanche quello il momento per comprendere che lo sperpero di fondi pubblici in tempi di crisi economica per un manufatto che sarebbe costato 160 mila euro, avrebbe dovuto invitare piuttosto ad interrogarsi seriamente sull’ineludibile portata politico-culturale di simili iniziative.

Ma un certo ottundimento della società italiana che sembra fare da contraltare al clamore suscitato sulla scena internazionale conferma quel rapporto controverso con il nostro passato coloniale con il quale non possiamo ancora essere in pace.

Se infatti Graziani venne condannato per i crimini perpetrati contro i partigiani italiani, fu nelle colonie che commise una sequela infinita di atrocità contro patrioti libici ed etiopici, in particolare in Libia.
Graziani portò a termine la “pacificazione” della colonia nel 1931 al prezzo di massacri, torture, fucilazioni e l’impiego di armi chimiche, oltre alla deportazione di 100 mila civili dalla Cirenaica ai campi di concentramento costruiti nella regione desertica della Sirte da dove molti non fecero mai ritorno.

Al tempo si parlò di sterminio, poi ci fu chi utilizzò il termine genocidio. Trasferitosi nel Corno d’Africa ai tempi della seconda guerra italo-etiopica che culminò con proclamazione dell’Impero fascista e la costituzione dell’Africa orientale italiana nel 1936, Graziani pianificò l’utilizzo estensivo di armi chimiche proibite, come le bombe all’iprite, sganciate dal cielo contro i patrioti etiopici e, una volta divenuto secondo viceré d’Etiopia, lasciò che, a seguito del fallito attentato contro la sua persona il 19 febbraio 1937, i fascisti per tre giorni si lasciassero andare a una violenza collettiva senza freni: furono colpiti mortalmente i giovani patrioti dei Leoni neri, l’elite istruita della società etiopica e il suo clero nel vano tentativo di azzerare la resistenza al dominio italiano.

Non a caso fu il governo etiopico, dopo la liberazione nel 1941, a inserire il nome di Graziani nella lista dei dieci criminali di guerra italiani indirizzata alla War Crimes Commssion delle Nazioni Unite, senza però ottenerne mai l’estradizione e l’incriminazione. La nuova Italia repubblicana, invece processava così Graziani per i crimini contro la resistenza italiana, ma Non per quelli coloniali . Ed è risaputo che si può evitare di fare i conti con i crimini commessi nelle colonie non tanto o non solo dal fascismo e dai suoi gerarchi, ma dell’Italia colonialista nel suo complesso.

Caro Scarabeo, Tradire la memoria equivale al tradimento della storia, soprattutto quando quella storia è manipolata sia pure con fini agiografici. Resta la grande amarezza per decenni di ricerca storica sul fascismo, e nella fattispecie sul colonialismo italiano, che tanto hanno prodotto, per tentare di "scalfire" il mito degli “italiani brava gente” luogo comune e casa di false verità.


Intorno alla pagina africana della nostra storia nazionale permangono come cristallizzate memorie rimosse, latenti e ancora oggi diversificate a vari strati che conservano una inspiegabile resistenza alla verità. In effetti in questi argomenti, c’è sempre la levata d’ingegno di qualche volenteroso che è sempre pronto a svolgere un’operazione di revisionismo storico, senza avere in mente la guerra partigiana, piuttosto che le guerre coloniali.

A una mancata decolonizzazione delle memorie hanno contribuito rimozioni istituzionali e silenzi autorevoli se si considera che fino a tutti gli anni Settanta continuarono ad insegnare nelle Accademie italiane, docenti di storia coloniale formatisi sotto il dominio fascista o i loro allievi.

Eppure ancora oggi che le ricerche storiche hanno ormai indagato senza compiacimenti e compromissioni quel sistema di sfruttamento, razzismo e violenza che fu il colonialismo italiano, proprio i risultati di quelle ricerche non si sono riverberati nella società italiana.

Naturalmente s’inscrivono ad esso anche la partecipazione dell’Italia all’intervento militare internazionale contro il regime di Muammar Gheddafi nel 2011, proprio in quel Paese dove l’Italia e Graziani commisero alcuni dei loro crimini peggiori e per di più nel centenario della prima guerra di Libia quella che, dopo aver impegnato il Regno d’Italia contro l’allora Impero ottomano tra il 1911 e il 1912, continuò contro la resistenza libica fino al 1931, divenendo la più lunga guerra della nostra storia unitaria.

Se siamo tornati senza complessi a bombardare l’ex colonia, ridotta per “ragioni umanitarie” a un Iraq qualunque, non ci si può stupire se nella società italiana vi sia la mancanza del senso della storia, piuttosto che di quello della memoria, anche in una dimensione postcoloniale della nostra storia recente oltre che passata, nella quale non si "ritaglia" tanto il periodo temporale successivo alla fine del dominio diretto in Africa, ma piuttosto la capacità di (Ri)Elaborare il presente alla luce di quel passato.


Forse non sai caro Scarabeo che adoro le cartoline, e le tue sono sempre gradite, anche quando provengono dalla cima di quei moterozzoli di vivide convinzioni ideologiche, francamente indifendibili. Gradisco perciò saperti onestamente incline ad abbracciare le fonti storiche per i tuoi giudizi critici sulla storia, ivi compresi quelle dei crimini contro la popolazione africana, saprai certamente che le forze aeree italiane impiegarono contro gli abissini i gas iprite e fosgene.

Si tratta di due aggressivi chimici molto diversi fra loro. L’iprite - che deve il suo nome alla località del suo primo impiego, Ypres, in Belglio, nel 1917 - è un vescicante: a contatto con la pelle e le mucose provoca - dopo alcune ore dall’esposizione - eruzioni cutanee, veschiche e piaghe estremamente dolorose, a contatto con gli occhi può invece provocare accecamento. In dosi alte penetra nei polmoni, irritando l’apparato respiratorio, provocando asma e morte. L’iprite che è persistente, ossia rimane nell’ambiente colpito, per giorni, anche a causa della sua scarsa solubilità in acqua. Mentre il terreno e gli oggetti contaminati restano ipritici per lungo tempo, anche se nel clima tipico dell’Etiopia la durata media di una contaminazione fu di due giorni, nella terra porosa poteva permanere assai a lungo, con effetti facilmente immaginabili non solo alle più fulgide fantasie superoministe.

Penso allora all’unica difesa possibile contro l’iprite, che come sai è l’uso di abiti speciali a tenuta ermetica, detti antiipritici
immagino come i permalosi africani, affamati di libertà, fossero desiderosi di indossarne un abbigliamento di tale foggia, che gli eserciti italiani prontamente avranno fornito come collezione primavera-estate, salvo poi trovarne scomodo l’uso, che doveva durare poche ore.
Per il fosgene invece che era un gas soffocante derivato dal cloro, come per l’iprite, rivelò gli effetti per lo più ritardati, che colpirono essenzialmente l’apparato respiratorio e gli occhi. Ebbene quegli italiani che possedevano nel proprio arsenale in Etiopia, bombe aeree da 250 kg (contenenti cioè 212 kg di iprite) insieme a bombe più leggere da 21 kg ad iprite e 31 e 40 kg al fosgene, certamente furono assaliti da un’emozione indescrivibile, pensando alla liberazione dalla schiavitù dei poveri negretti, dal momento che anche l’artiglieria aveva a disposizione granate chimiche, che oltre all’iprite e al fosgene, che erano armate con gas lacrimogeni più incapacitanti che letali, come cloropicrina e cloroacetofenone; che certamente li avrebbe resi consenzienti e ossequiosi dell’italico sforzo umanitario.


Eccepirai allora che l’effetto di fosgene e della iprite, specialmente nelle concentrazioni viste nella guerra d’Etiopia, fu quasi sempre ritardato, e invece per quanto riguarda l’uso eventuale di armi batteriologiche, l’Italia all’epoca fascista, non disponeva di simili ordigni, congegnate solo come proposte ipotetiche, avanzate magari per colpire il bestiame nemico o i pozzi d’acqua.

A me è dato di sapere solo che nel nostro paese - è vero - sovente manca un processo di profonda analisi che ci faccia fare i conti con i complessi processi storici a secondo dei casi scomodi o comodi; magari semplicemente per motivi ideologici o comunque per opportunità, per “obblighi” nei confronti della Memoria.

Ma credo di aver sin qui rappresentato e descritto in maniera fedele i fatti storici, e mi perdonerai se sono stata sarcastica e benevolmente ironica, circa la presunta soppressione della schiavitù nel Tigrè da parte del governo Fascista, considerato primo atto ufficiale compiuto da Emilio De Bono, nominato comandante delle truppe italiane in Etiopia, che fu appunto la liberazione degli schiavi, ti rispondo asserendo “Quousque tandem abutere patientia nostra?”

Poiché storicamente Non trovo giustificazione né all’intervento armato in quelle aree, né accetto che si propini la santa aura che fu invece barbara e crudele del Fascismo, che con ogni probabilità oggi avremmo chiamato terrorismo, con la sua "impronta razzista” come quella di un punto a favore, per chi vorrebbe strumentalmente propinare la portata civilizzatrice, di un regime altresì autoritario e feroce che fu avulso, da messaggi innovatori e distensivi, sin pur riprodotte dalla parole della canzone simbolo del Ventennio, “Faccetta Nera”, che lanciava un messaggio di una presunta falsa fratellanza verso le genti abissine, invitate a godere della radiosa luce del “Fascismo redentor”.

Quindi libera da stereotipi e pregiudizi storici, ti invito perciò a continuare a scalare i tuoi piccoli monterozzoli di conoscenza, perché forse l’unica cosa sensata, come dici tu è “lasciare il sasso e vederlo allontanare, prima lentamente con un grosso rotolare rumoroso, poi in fretta, fin quando non scompare a fondo valle, con tutti gli altri sassi che hanno scelto di essere sassi anziché spingitori.

Angela Maria Spina


Autore
https://www.infooggi.it - Il Diritto Di Sapere

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