È morto a 94 anni Gianni Berengo Gardin, uno dei più grandi fotografi italiani del Novecento. Con oltre sessant’anni di carriera, ha lasciato un’eredità visiva straordinaria: ha raccontato l’Italia reale, quella dei lavoratori, delle periferie, delle lotte civili e dei paesaggi che cambiano, usando la fotografia come strumento di documentazione sociale, denuncia civile e memoria collettiva.
Chi era Gianni Berengo Gardin: una vita spesa per la fotografia civile
Nato a Santa Margherita Ligure nel 1930, Berengo Gardin ha cominciato da autodidatta, scegliendo fin da subito uno stile sobrio, rigoroso e lontano da ogni spettacolarizzazione. La fotografia in bianco e nero era per lui una scelta stilistica e politica: non un vezzo artistico, ma uno strumento di verità.
Nel corso della sua vita ha vissuto e lavorato tra Roma, Parigi, Venezia e Genova, scegliendo di raccontare la realtà con uno sguardo etico, discreto ma incisivo. Ogni scatto nasceva da un’osservazione rispettosa, sempre attenta al contesto e ai soggetti.
L’inizio con Olivetti e la narrazione dell’Italia industriale
Negli anni Sessanta fu fotografo ufficiale per Olivetti, raccontando l’evoluzione dell’industria italiana con immagini che sono oggi testimonianze preziose. Nei suoi scatti per l’azienda di Ivrea si percepisce la tensione tra progresso e radici, tra modernità e identità. Le sue fotografie non erano semplici reportage aziendali, ma veri e propri ritratti dell’Italia che cambia.
L’Italia del dopoguerra vista con l’obiettivo
Berengo Gardin ha immortalato operai, donne, contadini, bambini, intellettuali, sempre con grande umanità. Ha raccontato quartieri popolari, periferie urbane, centri storici e stazioni ferroviarie, trasformandoli in scenari di una narrazione sociale potente. In ogni fotografia c’era dignità, anche quando i soggetti erano i più emarginati.
Collaborazione con "Il Mondo" e la fotografia come strumento di denuncia
Determinante fu il suo rapporto con la rivista "Il Mondo" di Mario Pannunzio. Qui affinò la capacità di raccontare l’Italia sociale: le sue immagini non illustravano, ma parlavano da sole, dando un volto agli esclusi e agli invisibili. Il suo stile, vicino al giornalismo d’inchiesta, ha formato generazioni di lettori e fotografi.
“Morire di classe”: la fotografia come atto politico
Uno dei lavori più noti è il libro "Morire di classe" (1969), realizzato con Franco Basaglia. Il volume documenta le condizioni disumane degli ospedali psichiatrici italiani, contribuendo alla battaglia per la legge 180 e la chiusura dei manicomi. Quelle immagini, spesso censurate all’epoca, restano ancora oggi uno dei massimi esempi di fotografia di denuncia sociale.
Venezia, la laguna e la lotta contro le grandi navi
Berengo Gardin ha sempre avuto un forte legame con Venezia. Negli ultimi anni si è schierato apertamente contro il passaggio delle grandi navi nella laguna. Le sue fotografie hanno raccontato una città fragile, in bilico tra bellezza e distruzione ambientale. Con il suo libro-denuncia, la fotografia è diventata strumento di attivismo ecologico.
Le fabbriche, il lavoro e il volto dell’Italia produttiva
Con reportage a Porto Marghera e Italsider, Berengo Gardin ha mostrato la fatica, i volti, i gesti del lavoro operaio. La fabbrica non