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"Disposition Matrix": i giochi di guerra dell'amministrazione Obama 

WASHINGTON (STATI UNITI), 22 GENNAIO 2013 – Il rapporto tra industria militare – legata indissolubilmente a quella delle armi – e industria dei videogiochi è in qualche modo circolare. Se, infatti, i primi simulatori arrivano proprio dal mondo militare che ha poi fornito esperti allo sviluppo commerciale del settore, non è un mistero che oggi il flusso si sia invertito, con il mondo militare a beneficiare della diffusione dei giochi a carattere bellico nel mondo civile. L'idea è semplice: organizzare la violenza e l'eccesso di adrenalina che può venir fuori da giochi simili – è bene ricordare l'assenza di studi che confermino il legame tra videogiochi e violenza – tentando di mettere una divisa addosso ai videogiocatori più coinvolti, forti anche della recessione economica con la quale è diminuita una fuga di massa che nel biennio 2007-2008 è arrivata – come scrive il Telegraph nell'aprile 2011 – a toccare quota 15.000 soldati all'anno che decidevano di rientrare nel mercato del lavoro civile.  
Dal mondo civile a quello militare si passa attraverso l'addestramento dove, come scrivono Barry Meier ed Andrew Martin sul New York Times, massiccio sta diventando negli ultimi anni l'uso di giochi come Call of Duty o una versione riadattata alle esigenze di Doom della id Software – il gioco a cui giocavano Eric Harris e Dylan Klebold, artefici della strage alla Columbine High School – nel quale mostri e armi di fantasia vengono sostituiti con rappresentazioni di armi reali ed esseri umani. Reclutare ed addestrare attraverso un linguaggio che si pone esattamente al centro tra il mondo civile dei videogiocatori e quello militare dei corpi d'élite da questi impersonati attraverso i joystick.[MORE]

[qui un esempio di come il mondo della guerra virtuale si stia avvicinando a quello reale: video medal of honor warfighter ps3 e "collateral murder", Wikileaks]

La sintesi perfetta arriva da un posto a pochi chilometri da Clovin, New Mexico, dove si trova la Cannon Air Force Base, una delle sedi dell'aeronautica militare americana. È da qui che partono i famigerati droni, al secolo “aeromobile a pilotaggio remoto”. Per guidarli non serve nient'altro che un joystick, come quelli che si usavano fino a non troppi anni fa nelle sale giochi (come si vede in questo video).
Un modo di fare la guerra sicuramente meno pericoloso per i militari. Finito il turno al joystick, infatti, quelli del New Mexico si alzano, si mettono in auto, e tornano dalle loro famiglie. Con gli stessi dubbi etici di chi sta in prima linea.

Brandon Bryant a fare il soldato in questo modo ci è riuscito per cinque anni. C'era chi la mattina indossava giacca e cravatta per andare in un arieggiato ufficio e chi, come lui, indossava la mimetica ed andava a rinchiudersi in un container senza finestre e con l'aria condizionata. Al posto di penne e telefoni, 14 monitor e quattro tastiere con i quali fare la guerra a distanza. Brandon, infatti, per cinque anni ha fatto il pilota di droni.
La sua storia l'ha raccontata al settimanale tedesco Der Spiegel (qui l'articolo nella versione inglese; qui un breve riassunto in italiano da FrontiereNews). «Quei momenti sono come in slow motion», ha detto alla giornalista Nicola Abé. Tra l'immagine ripresa dalla telecamera di un drone e quella che arriva sui monitor passano tra i due ed i cinque secondi. 16 dal momento in cui il tasto rosso del joystick in New Mexico sgancia uno dei missili con cui questi sono equipaggiati (come gli Hellfire sui Predator) al suo impatto col terreno in Afghanistan.
Il compito di Brandon, in quell'occasione, era quello di segnare gli obiettivi con il laser. Tra questi, una casa di fango con un capannone vicino. Nessun pericoloso terrorista nelle vicinanze da sorvegliare segretamente o uccidere più o meno chirurgicamente. Solo un bambino che, trovandosi nel posto sbagliato al momento sbagliato, ha cambiato per sempre la vita di Brandon. Secondo chi controllava l'operato in quella cabina – un imprecisato “qualcuno” dall'altro lato di una chat – ad essere stato ucciso era stato un cane. È così che quell'episodio è entrato nei rapporti ufficiali, sommandosi ai troppi “effetti collaterali” di guerre diventate un «gigantesco videogioco» anche per molti soldati. La carriera militare di Brandon Bryant finisce così. «Ho visto uomini, donne e bambini morire in quel periodo. Non avevo mai pensato che avrei potuto uccidere tutta quella gente. In effetti, non avevo mai pensato che avrei potuto uccidere qualcuno», ha raccontato al settimanale tedesco.

Secondo il colonnello William Tart – anch'egli intervistato nell'articolo - il vero vantaggio dell'uso dei droni è quello di salvare vite umane. Di personale pesantemente armato e altamente addestrato, naturalmente, non certo di vittime civili nascoste nelle pieghe numeriche di qualche rapporto ufficiale di operazioni che, partite dal New Mexico, da Gibuti o dall'Africa Orientale – dove si trovano le basi da cui vengono lanciati i droni – colpiscono in Pakistan (in particolar modo al confine meridionale con l'Afghanistan, territorio controllato dal clan degli Haqqani), Somalia e Yemen.
A supervisionare tutto qualcuno in qualche ufficio a Langley, Virginia, Central Intelligence Agency.

La faccia giusta. In uno di quegli uffici, da qualche giorno, siede John Owen Brennan (nella foto, insieme al presidente Obama), 57 anni, nato a North Bergen, New Jersey, da genitori irlandesi. Faccia da duro perfetta per il ruolo del “poliziotto cattivo”, entrato nella CIA nel 1980 rispondendo ad un annuncio sul giornale. Esperto di terrorismo islamico, entra per la prima volta alla Casa Bianca con l'amministrazione Clinton (1993-2001). George Walker Bush (2001-2009) lo vuole a capo del National Counterterrorism Center, da dove Obama lo ha prelevato per metterlo nell'ufficio più importante di Langley – dove avrebbe già voluto mandarlo nel 2008. È Brennan a parlare per la prima volta pubblicamente dei droni, di cui ha sostenuto la legalità, l'efficacia e soprattutto la conformità «agli sforzi degli Stati Uniti di risparmiare la vita di civili innocenti».  A questi, va aggiunto il suo non proprio celato assenso all'uso delle tecniche di extraordinary rendition e “interrogatorio potenziato” (tranne al waterboarding) adottate dopo l'11 settembre e definite inutili e controproducenti da un rapporto approvato dalla Commissione Intelligence del Senato. Una rettifica ufficiale – che non significa un cambio di idea – ha chiuso le polemiche, spalancandogli le porte di Langley. Al momento delle presentazioni ufficiali, Obama ha ceduto a lui – e non al nuovo Segretario di Stato John Forbes Kerry – il podio. Una decisione altamente simbolica sul reale peso dei poteri all'interno dell'amministrazione.

C'è lui dietro “l'operazione del secolo”, l'omicidio di Osama Bin Laden, del quale aveva venduto alla stampa una ricostruzione rivelatasi fasulla, nella quale asseriva che lo sceicco viveva nel lusso, armato e durante il blitz si sia fatto scudo delle mogli. È stato Brennan inoltre a mettere in mano a Kathryn Ann Bigelow – premio oscar per "The Hurt Locker" - i file segreti dell'agenzia dai quali è nato “Zero dark thirty”. Documenti in cambio di un'apologia sulla necessità della tortura per sconfiggere al-Qaeda sembra essere stato il patto tra i due.
A Brennan l'amministrazione Obama ha affidato la realizzazione di un altro genere di film. Una rivisitazione del titolo più celebre dei fratelli Wachowski dal titolo “Disposition Matrix”.

L'eredità di Obama. La “Disposizione” - sviluppata dal National Counterterrorism Center sotto la guida di Michael Leiter - non contiene solo la famigerata “kill list”, cioè la lista degli obiettivi da uccidere che hanno portato molti commentatori a definire Obama come un “Bush con gli steroidi” (dato il modo in cui operano i droni sarebbe forse più giusto paragonarlo a Zeus ed i suoi fulmini) ma anche un'analisi delle dinamiche economiche e militari più adatte per completare la missione nella quale vengono considerate possibilità di estradizione, personale e mezzi militari più vicini ed operazioni di cattura più o meno clandestine.  

Il database – è questo, sostanzialmente, la “Disposition Matrix” - serve per avere la lista completa degli scenari da poter utilizzare quando uno degli uomini presenti nella lista di morte entra nel mirino di un drone. «Se è in Arabia Saudita fatelo avvicinare dai sauditi. Se navighiamo oltre oceano per al-Shabaab (in Somalia) possiamo avvicinarlo con la nave. Se in Yemen, ucciderlo o lasciarlo alle autorità yemenite», ha raccontato un funzionario – la cui identità è rimasta anonima – al Washington Post. Attraverso il database, l'amministrazione Obama vuole lasciare la sua eredità alle amministrazioni future, definendo un percorso di controterrorismo che, come ha evidenziato l'ex vicedirettore della CIA Paul R. Pillar «fa oltrepassare una soglia dalla quale è poi difficile tornare indietro». La promozione di Brennan – al quale viene data l'ultima parola sull'invio dei droni - serve esattamente a questo e a riportare a Langley la rete di spionaggio resa celebre da una quantità infinita di film e messa in disparte da Petraeus, che aveva invece virato verso una forte impronta paramilitare.

Nonostante un'ampia accettazione di queste dinamiche, non mancano le criticità. L'amministrazione ha infatti passato l'ultimo anno del primo mandato a cercare cittadinanza legale a queste pratiche che vadano oltre l'autorizzazione del Congresso all'uso della forza militare garantito in risposta agli attacchi dell'11 settembre o ad un poco consono diritto nazionale all'autodifesa, a meno di non voler iniziare ad esportare anche questo con la democrazia.
L'”opzione B” sembra però la più praticabile: se il nucleo più importante di Al-Qaeda è stato infatti sconfitto – come sottolineava a novembre il Segretario alla Difesa Leon Panetta – con «la sconfitta di quattro dei cinque leader più importanti di Al Qaeda negli ultimi due anni e mezzo», basta allargare la «caccia al terrore» (come definita anche dall'ultimo Medal of Honor) così da giustificare i costi dell'”industria del terrore” nata con Bush ed ampiamente sviluppatasi sotto Obama che, se da un lato fa la voce grossa con la National Rifle Association, non può permettersi di perdere l'appoggio di un altro – e forse ancor più forte – gruppo di potere: quello militare.

[2 - Fine]
[parte 1: L'amministrazione Obama tra armi e videogiochi. In mezzo la National Rifle Association]

(foto: whec.com)
Andrea Intonti [http://senorbabylon.blogspot.it/]