Hotel Gagarin, il regista Simone Spada: "Il cinema? Sogni e compromessi. E così ricordo Caligari"
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Hotel Gagarin, il regista Simone Spada: "Il cinema? Sogni e compromessi. E così ricordo Caligari"

martedì 29 maggio, 2018

Nella settimana spaziale in cui atterra nelle sale Solo - A Star Wars Story, nel radar cinematografico si segnala anche Hotel Gagarin di Simone Spada, più per gli spazi dell'anima che per minacce galattiche. Commedia divertente e sognante, all'italiana negli umori e nel cast: Giuseppe Battiston, Luca Argentero, Claudio Amendola, Barbora Bobulova, Silvia D'Amico. Ma galeotta fu l'Armenia: qui cinque spiantati attori approdano con la promessa di partecipare ad un film, ma la speranza di dissolve come la neve dei boschi locali quando il sedicente produttore prende i soldi e scappa. Fine dei conti? No, perchè è ancora il cinema a salvare tutto. E c'è speranza, forse, per l'happy ending. Ne parliamo col regista Simone Spada.

ANTONIO MAIORINO: Ci sono mille modi di fare una commedia. In che modo Hotel Gagarin si ricollega alla tradizione della commedia all’italiana, se ci si ricollega, ed in che modo è un’opera dell’ingegno di Simone Spada – personalissima, irripetibile?

SIMONE SPADA: Tra le due soluzioni che mi prospetti sceglierei la prima: se pensassi di essere unico e irripetibile mi sentirei supponente e presuntuoso. Eppure, venendo dal cinema soprattutto come aiuto regista, porto in Hotel Gagarin molto di quello che ho fatto e visto fare. Prendo spunto dai maestri della commedia italiana, lontani ma anche vicini (mi riferisco agli anni ’90). Stiamo tentando un po’ tutti di rifarci a quei maestri: ci manca la malinconia e l’amarezza della commedia all’italiana, che ci fanno paura e che pensiamo quasi di dover mettere sotto il tappeto, ma che invece dobbiamo saper tirar fuori, per rinnovare il linguaggio del cinema ed avvicinare la gente al nostro mondo.

Perché l’Armenia, perché Gagarin?

L’Armenia nasce dal fatto che quando ho scritto il soggetto avevo bisogno di un paese di cui Gagarin fosse stato un simbolo, quindi dell’ex Unione Sovietica, ma che avesse una cultura un po’ diversa da quella dell’Unione Sovietica anche a livello antropologico e di immaginario: sai, i russi biondi, occhi azzurri… L’Armenia era un po’ il Sud, il Meridione, sia come storia politica, per la tormentata diaspora ed il genocidio, sia come tradizione culturale: vengono personaggi come Charles Aznavour dall’Armenia. In più il Caucaso è una zona molto importante per il pianeta intero: da sempre zona di conflitti, in mezzo alle montagne. Tutto questo mi ispirava, e quasi inconsapevolmente ho messo l’Armenia nel soggetto. In più mia madre tornava da lì in quel periodo e mi ha fatto vedere foto di monasteri che spuntavano dalla neve, sul Lago Salato, ed ho pensato: “Che meraviglia sarebbe girare lì, sarebbe un sogno!”. Poi ho incontrato un produttore più pazzo di me e l’abbiamo fatto. Gagarin è stato il simbolo dell’uomo nello spazio e quindi del sogno, di tutte le generazioni che hanno guardato alle stelle con ammirazione, col desiderio di fare qualcosa in più di quello che sembrava terreno.

Perfetto per un film che parla di sogni...

Pensa che quando Gagarin è tornato, per un sacco di tempo non hanno voluto che facesse altre missioni, lo portavano in giro per fare cocktail, presentazioni, e poi è morto proprio volando, con un piccolo aeroplanino, schiantandosi a 35 anni. Alle missioni successive non l’hanno più mandato, perché era il simbolo del sogno e della speranza. C’è stato un momento tra il ’60 ed il ’61 in cui si è pensato che la Russia fosse in vantaggio sugli Stati Uniti nella corsa allo spazio, fino al sorpasso con lo sbarco di Armstrong sulla Luna. Tutto questo naturalmente non c’è nel film, ma ho scelto il nome di Gagarin per raccontare il sogno, l’ambizione, l’aspirazione a immaginare. [MORE]

Sei di quelli che per far decollare un film usano una "sceneggiatura-canovaccio", aperta alle modifiche ed alla serendipity, oppure che programmi tutto al millesimo?

Venendo dall’aiuto regia, penso che il cinema abbia delle regole abbastanza ferree. A livello produttivo, tra l’altro, soprattutto con le opere prime, non hai molto tempo e devi arrivare molto preparato. Tendenzialmente lo sono, non al millesimo, perché poi comunque gli attori ti danno quelle situazioni impreviste a cui alludevi. Bisogna comunque essere rapidi e presenti a sé stessi, partendo da una regola di sceneggiatura che sia molto seguita; l’attore o la situazione, appunto, possono creare degli imprevisti che ti fanno migliorare quello che avevi in testa, ma solo se avevi in testa qualcosa di preciso. Il regista non può arrivare sul set senza sapere quello che farà: non succede niente, lo so per esperienza da aiuto-regista. Altri registi e grandi autori potranno avere un’opinione diversa, ma io non me lo posso permettere in questo momento, e comunque è anche un mio modo di vedere il lavoro.

Una buona sceneggiatura nasce da una zona di pericolo. Meglio: da una situazione di crisi. Quali crisi attanagliavano i tuoi personaggi?

Nel film Philippe Leroy dice che la crisi ha un doppio significato e può voler dire anche "opportunità". L’idea era partire dal fatto che le crisi inneschino depressioni da cui non si esce o una voglia di rivincita e di rinascita. I miei personaggi partono da una crisi interiore, ma anche pratica della vita di tutti i giorni, non solo a livello professionale, e non solo per loro. L’Italia non è un paese in cui siano tutti in crisi, ma comunque non ce la passiamo così bene. Allo stesso tempo incontrano altri fallimenti e scoppia una guerra, che io non racconto nel dettaglio ma che è una di quelle guerre dimenticate nel mondo che fanno parte quasi dell’immaginario collettivo. Qui c’è la vera crisi: sono costretti a non poter lasciare l’albergo, a tornare in Italia, a fare quello per cui sono andati pagati, scoprono che c’è una truffa – il produttore è scappato con i soldi – e sono letteralmente al capolinea.

Giuseppe Battiston, Claudio Amendola, Barbora Bobulova, Luca Argentero, Silvia D'Amico... Nella coralità di questo film, spicca qualche personaggio che sappia rappresentare più pienamente lo spirito di Hotel Gagarin?

Se c’è un protagonista da individuare è il motore idealista di tutta la banda, Giuseppe Battiston, che interpreta il Professor Nicola Speranza e cita Tolstoj per caricare tutti gli altri: “Se vuoi essere felice, comincia”. È quello che rappresenta di più me, che parte per una nobile passione laddove gli altri puntano ad una svoltina nella loro esistenza. Lui sa coinvolgerli, è il più candido, ingenuo, incantato, è il personaggio che risalta maggiormente rispetto agli altri.

Ed è un candore che quasi trova incarnazione nello stesso popolo armeno, voglioso di sognare.

Hotel Gagarin andrebbe fatto vedere a certi politici. Racconta di incontri coi popoli, è un monito per dire “apriamole, queste porte! Non teniamole sempre chiuse!”, perché la curiosità su noi stessi è anche un modo per essere curiosi sugli altri. C’è bontà, c’è speranza, non siamo tutti arrabbiati, si può fare qualcosa insieme agli altri. Intendiamoci, è una favola, non vuole dare chissà quale messaggio, ma c’è tanto di questa roba che ti sto raccontando.

Il cinema è la fabbrica dei sogni, dice un personaggio del tuo film. Ma se pensiamo all'industria, ai travagli di certi autori, che vorrebbero raccontare storie ma restano invischiati in ogni sorta di difficoltà con produzione e distribuzione, vien da dire che il cinema sa anche fabbricare incubi...

È vero, tutto vero. “Fabbrica degli incubi” non saprei. Proprio perché è una fabbrica dei sogni, ci lavorano le passione che hanno una grande passione: senza passione, non si fa cinema, di qualsiasi genere. È un lavoro talmente complicato, in Italia talvolta tortuoso dal punto di vista produttivo; e non si fa da soli, ma con 50, 60, 70 persone, c’è una filiera, un lavoro di gruppo. Nascono compromessi umani, d’incontro, litigi, si è consapevoli della possibilità di dover modificare una storia per farla accettare al mercato. È difficile, ma è mosso da un lavoro totalizzante per il proprio lavoro, e quando si riesce a fare qualcosa di buono, si fabbrica qualcosa che è l’immaginazione, ed in nome di questo passi sopra a tutto. Io preferisco trovare i modi per fare le cose piuttosto che arrabbiarmi se non me le fanno fare.

Nella tua esperienza di aiuto regista, hai collaborato tra l’altro con Claudio Caligari (Non essere cattivo) e Gabriele Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot). Se dovessi fare un’istantanea del cinema italiano a partire da questi due nomi, come li useresti per fotografare lo stato dell'arte?

Hanno dato tanto al cinema italiano. I due film nella loro diversità hanno lasciato il segno. Erano due film inaspettati per la loro forza, per la loro anima. Questo ti fa sperare che certo cinema più coraggioso e diverso, se riesce a trovare il suo spazio, poi alla fine esce fuori, rimane. Due film completamente diversi, due essere umani completamente diversi. Gabriele più giovane, con un linguaggio più moderno, ci ha messo tantissimi anni a produrlo: un film quasi militante. Con Claudio, è stata un’esperienza estrema e totalizzante a livello umano. Stava male in quel periodo ed è scomparso appena finito il montaggio. Quei sei mesi tra la preparazione e le riprese sono stati duri. È bello sapere per noi che quel film abbia avuto una forza.

E che l’abbia avuta anche rispetto al pubblico giovane.

Sì, perché è una storia d’amicizia. Poi è chiaro, l’attenzione è anche su come la droga abbia cambiato certi modi di essere a livello antropologico. Negli anni ’80 ha parlato di eroina, nei ’90 di pasticche e della maniera di consumare droga delle classi meno abbienti. Ma Claudio aveva una profondità, una conoscenza del cinema che ho visto raramente. Lui, sì, era così militante che diventava difficile entrare in un mercato del cinema spesso chiuso, a volte autoreferenziale ed impaurito. Ed invece andrebbero fatti più film così. Ciò non vuol dire che bisogna diventare tutti così. Poi c’è la moda, no? Ora che Caligari e Mainetti hanno raccontato la periferia romana, sembra che tutti debbano raccontare la periferia romana.

Mainetti, tra l'altro, è alle prese con un progetto molto audace, il film Freaks Out.

Sì, l'ho sentito: un grosso film.

Ma questa è un'altra storia...


USCITA: 24 maggio 2018
GENERE: Commedia
REGIA: Simone Spada
CAST: Claudio Amendola, Luca Argentero, Giuseppe Battiston, Barbora Bobulova, Silvia D'amico, Philippe Leroy, Caterina Shulha, Tommaso Ragno, Simone Colombari, Marco Todisco, Hovhannes Azoyan, Paolo De Vita, Marjan Avetisyan
PAESE: Italia
DURATA: 93'
DISTRIBUZIONE: Altre Storie

(In foto: dettagli di immagini da Hotel Gagarin; in particolare, all'interno, Giuseppe Battiston)

Antonio Maiorino


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