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Il cinema di Paul Verhoeven, Falsopiano Editore: intervista ad Antonio Pettierre e Fabio Zanello

Il cinema di Paul Verhoeven, per Falsopiano Editore: per rettificare un passo falso della critica. Nel libro a cura di Antonio Pettierre e Fabio Zanello, infatti, il regista olandese, noto soprattutto per film quali Robocop e Basic Instinct, è oggetto di quella che gli autori definiscono “un’operazione risarcitoria”. 

Serviva, innanzitutto, la prima monografia in Italia, paese dove le altalenanti fortune critiche di Verhoeven non avevano evidentemente sortito, finora, uno studio d’insieme così organico e completo. Bisognava, inoltre, smarcare il cineasta dalla visione riduttiva del provocatore o del regista pruriginoso, se non semi-pornografico: per spiegare, piuttosto, la coerenza autoriale della critica alla società borghese, così come lo studiato interesse per la sessualità e l’erotismo da un lato e per la morte dall’altro. Come a dire: oltre alle gambe (di Sharon Stone in Basic Instinct) c’è di più. Era opportuno, infine, che se ne studiasse compattamente l’opera, compreso lo stupefacente periodo olandese, dove alla serie tv Floris, pressoché misconosciuta in Italia ma rivoluzionaria in Olanda, nel paese d’origine Verhoeven firmò, tra gli altri, il film campione d’incassi per eccellenza, Fiore di carne (1973). Che lanciò, insieme alle successive collaborazioni, la carriera del compianto Rutger Hauer (famoso soprattutto per Ladyhawke e Blade Runner), di cui il libro pubblica un'intervista tenutasi al Lucca Film Festival.

Poi venne il cinema mainstream ma intelligente ad Hollywood, che oltre ai film già citati comprese opere del calibro di Atto di forza (1990) o Starship troopers (1997), così come il fallimento – anch’esso da rivalutare – di Showgirls (1995). Attraverso l’analisi dei film, compreso l’ultimo ventennio post-hollywoodiano in cui si distingue Elle (2016) con Isabelle Huppert, la squadra dei critici de Il cinema di Paul Verhoeven ricostruisce opere, visioni e temi di un regista che non smette di far discutere. Tanto per dire: pubblichiamo l’intervista ai curatori Antonio Pettierre e Fabio Zanello nel giorno in cui i cattolici oltranzisti protestano al New York Film Festival per l’ultimo controverso film di Verhoeven, Benedetta, presentato a Cannes 2021 e misteriosamente privo ancora oggi di distribuzione in Italia. Anche di questo abbiamo parlato coi curatori.


L'INTERVISTA: ANTONIO PETTIERRE E FABIO ZANELLO RACCONTANO IL CINEMA DI PAUL VERHOEVEN

ANTONIO MAIORINO: perché proprio in Italia si rende necessaria la rivalutazione critica e il pieno intendimento di una figura come quella di Paul Verhoeven?

ANTONIO PETTIERRE: Verhoeven è stato un regista essenzialmente poco conosciuto in Italia. Il suo primo film distribuito nei cinema era l’ultimo del periodo olandese, il noir Il quarto uomo, peraltro passato in sordina e poco recensito. Quando andò negli Stati Uniti per i suoi “blockbuster d’autore”, cominciò anche ad essere meglio distribuito. Il suo periodo olandese era pressoché sconosciuto. Anche quando tornò, se ne persero le tracce. Tra le poche riviste che lo recensirono ci fu Duel, che gli dedicò ampi spazi critici. Resta comunque significativo che il nostro, al 2021, sia il primo libro in assoluto in lingua italiana. All’estero ha avuto qualche pubblicazione in più, soprattutto grazie alla critica francese, ma le monografie si contano comunque sulle dita di una mano. Io e Fabio Zanello abbiamo dunque voluto parlare di un autore che tra alti e bassi ha saputo mantenere la propria coerenza ed è stato in parte sottovalutato poiché interpretato come regista di film un po’ sconci, basati sulla sessualità, oppure molto kitsch, violenti, appariscenti.

FABIO ZANELLO: è vero, Verhoeven è un provocatore che ha sfidato la morale e i benpensanti. Nei suoi film troviamo temi forti, scabrosi ed estremi anche nelle produzioni hollywoodiane come Robocop e Basic Instinct. Questa propensione gli ha causato problemi con la critica: quando un film rompe tabù o presenta scene estreme, ci si domanda sempre quale sia la statura artistica del prodotto. Spesso, un film di questo tipo non è d’autore. Nel caso di Verhoeven, invece, le provocazioni sono funzionali al racconto. Ci sono temi come la sessualità e la morte, o eros e thanatos, legati alla poetica di Bataille (si pensi al famoso saggio sull’erotismo), così come licenze narrative nell’affrontare la storia che hanno provocato fraintendimenti nella critica. Il suo cinema è stato analizzato in superficie, ma Verhoeven non è un regista che possa essere liquidato come pornografico, oltraggioso, provocatorio. Sotto la patina dello scandalo ci sono molteplici tematiche e il nostro lavoro è stato risarcitorio nel senso di aver voluto chiarire l’equivoco critico.


A.M: a proposito delle sue provocazioni, nell'ultimo saggio del libro ti sei interrogato sul cinema del proibito a partire da Benedetta, l'ultimo film al momento di Paul Verhoeven. Eppure oggi sembra che sia sdoganato pressoché ogni contenuto. Ci sono film estremi, come quelli di Gaspar Noè, rispetto ai quali verrebbe da dire che certo erotismo di Verhoeven sia acqua fresca. In cosa consiste oggi il cinema del proibito e come vi contribuì il cineasta olandese?

F.Z: io penso che alcuni suoi film sul piano del proibito siano invecchiati molto bene. Io, Antonio e gli altri collaboratori ci siamo rivisti tutti i film ed io, personalmente, guardando soprattutto i film del periodo olandese, come Kitty Tippel o Fiore di carne, mi sono fatto l’idea che l’erotismo provochi dei cortocircuiti a livello narrativo. Fiore di carne, ad esempio, parte come commedia giovanilistica, con un anticonformismo che si oppone a tutte le convenzioni, poi sfocia nell’erotismo sfrenato. Ciò che è interessante è che il film sia apparentemente commerciale ma si contamini di situazioni del cinema pornografico, che è uno dei filoni più marginalizzati insieme all’horror nell’industria cinematografica. Fu addirittura campione d’incassi. In altre parole, ha sdoganato un genere quale quello erotico che era visto come underground o sotterraneo. Ha abbattuto gli steccati tra cinema d’autore ed erotismo triviale. Se pensiamo all’erotismo d’autore ci vengono in mente registi più raffinati, mentre Verhoeven tende a volgarizzare la materia, per il suo gusto della provocazione.



A.M: c'è anche un proibito della violenza, non solo dell'amore.

F.Z: quando si parla di immagini estreme o violente, abbiamo visto di tutto, ma la colpa è soprattutto della televisione, non del cinema d’exploitation o splatter. Nel mio saggio volevo capire, connettendomi al caso Benedetta, quale fosse il cinema del proibito oggi. E penso che oggi le immagini proibite siano quelle del nazismo o della Shoah. Rispetto a quegli archivi, il cinema di Verhoeven, certo, è acqua fresca, ma comunque Verhoeven continua a scandalizzare i benpensanti. Tanto è vero che ad oggi Benedetta non è distribuito in Italia, pur essendo stato girato a Montepulciano. In Francia l’erotismo è concepito come arte, mentre nel nostro paese tende spesso ad essere considerato come cattivo gusto. Eppure, Verhoeven ha lavorato sul corpo in maniera artistica, un body artist della cinepresa, come si coglie, ad esempio, in Showgirls.

A.P: tra l'altro anche Elle ebbe grande difficoltà distributiva. Se non avesse vinto ai Golden Globes, non avrebbe avuto una distribuzione adeguata. È un film contro, che parla di sessualità estrema, anti-religioso, con elementi tipici del cinema di Verhoeven e della sua critica contro la moralità borghese, ancora oggi molto presente.


A.M: nel vostro libro, come in queste prime risposte, state sottolineando la libertà espressiva di Verhoeven come costante autoriale. Come ha fatto a mantenerla nel passaggio dall’Olanda agli Stati Uniti, dove per i blockbuster immaginiamo in media lo stesso pubblico benpensante che in realtà fu l’oggetto dei suoi attacchi?

A.P: secondo me perché è un grande regista che quando possiede i mezzi – e gli Studios glieli hanno dati – riesce a fare grande spettacolo. I suoi film americani sono spettacolari, ma innervati da una profonda ironia. È stato un grandissimo osservatore della società americana dell’epoca e ha preso in giro gli Americani calandosi nelle strutture degli Studios. Fu invitato negli Stati Uniti dopo che avevano visto Soldato d’Orange, un film di guerra molto spettacolare approdato anche sulla tv olandese. Quando arrivò negli USA, mostrò le prime immagini de L’amore e il sangue. Chi lo vide, rimase scioccato per la violenza. Gli Americani, in sintesi, ne apprezzarono la spettacolarità.



A.M: posso permettermi di considerare tra “i mezzi” di Hollywood, anche la possibilità di lavorare con grandi attori?

A.P: Verhoeven ha avuto indubbiamente la capacità di dirigere grandi attori. Seppe stabilire un rapporto con lo star system valorizzando la figura attoriale e mettendo il personaggio al centro della narrazione, che sia intimista o spettacolare. Basti pensare all’articolata storia di Atto di forza, che fu praticamente promosso da Arnold Schwarzenegger, all’epoca divo affermato, che volle Verhoeven alla regia.

F.Z: va aggiunto che a Hollywood Verhoeven ha tratto nuova linfa per la sua creatività. Alcuni registi quando sono andati in America si sono rovinati. È un cinema in cui c’è uno strapotere dei produttori, quindi non è poco affermarsi: è un grande segno d’intelligenza.


A.M: così come è segno d’intelligenza essere un “trasgressore dei generi”, come proprio Fabio scrive nel libro. Eppure, nel genere fantascientifico Verhoeven sembra aver trovato un dispositivo in cui muoversi con agevolezza, con ben quattro film di fantascienza nel periodo americano. Perché? Lo chiedo ad Antonio Pettierre, che su due dei più riusciti – Robocop e Atto di forza – ha incentrato i propri saggi.

A.P: in realtà Verhoeven non è un amante del genere fantascientifico. Alla prima lettura, cestinò la sceneggiatura di Robocop. Fu la moglie a recuperarla segnalandogli come ci fossero elementi in grado di essere messi in risalto nel suo cinema. Basic Instinct, per intenderci, è piu’ verhoeveniano per il suo senso del noir. Il fantascientifico, invece, è un contenitore, che il regista usa con i codici del genere, siano essi più avventurosi o più psicologici, come nel caso de L’uomo senza ombra.


A.M: e in Robocop, come ha maneggiato questi codici?

A.P: in Robocop c’è un discorso religioso. Verhoeven è ateo, ma si riunisce periodicamente con un gruppo che discute la figura di Gesù, figura su cui ha scritto anche un romanzo. Robocop, per certi versi, è una figura cristologica, come si evince dalla sua resurrezione meccanica o nella sequenza in cui cammina sulle acque. Ma il film è anche una critica alla società reaganiana dell’epoca, che Verhoeven da europeo ha colto nelle proprie storture e abiezioni di società capitalistica e liberistica estrema. In Robocop l’intuizione del regista è quella delle breaking news, notizie inventate che in modo molto ironico criticano le guerre stellari, considerano la questione della medicina privata, stigmatizzano la violenza diffusa. Dietro il sipario del genere c’è quindi una forte critica alla società americana.

A.M: e come dicevi, critica gli Americani senza che i diretti interessati lo colgano appieno.

A.P: esatto. Lo si può dire sia per Atto di forza, sia per Starship troopers, quest’ultimo scambiato all’epoca per un film nazista, mentre era l’esatto contrario: un j’accuse antifascista contro la società americana. Eppure, fu proprio l’ironia di quella critica a far apprezzare il film: ulteriore conferma della sua capacità estrema di usare a vantaggio delle proprie tematiche gli strumenti produttivi messi a disposizione.


A.M: Antonio Pettierre parlava di un certo senso del noir in Basic Instinct. Al neonoir e alla figura femminile nel cinema di Verhoeven Fabio Zanello ha dedicato un apposito saggio. Anche questo aspetto si può definire oggetto di un fraintendimento critico?

F.Z: sì. Il saggio nasce appunto dalla necessità di chiarire l’ennesimo equivoco su Verhoeven, il fatto che fosse considerato un regista misogino. Si è scritto per anni che mettesse in scena delle femmes fatales assassine e psicopatiche. Le donne verhoeveniane, invece, sono personaggi femminili carismatici. Io ho scritto di bacio della donna mantide, parafrasando il titolo del film di Hector Babenko, Il bacio della donna ragno. Il comportamento è quello della vedova nera: cannibalizza il maschio dopo averci fatto l’amore. È vero che le donne del cinema di Verhoeven si comportano così, ma sono personaggi molto più sfaccettati. In Basic Instinct, ad esempio, nel personaggio di Sharon Stone c’è una componente gender molto sottovalutata. Si parla sempre della sua passione per il personaggio di Michael Douglas, ma non della relazione saffica all’interno del film. Un personaggio femminile bisex all’epoca era un atto di audacia. Considerazioni simili si possono fare con la Renée Soutendijk de Il quarto uomo e alla Isabelle Huppert di Elle.



A.M: e sugli uomini, invece, cosa si può dire? Qual è, di contro, la virilità raccontata da Verhoeven?

F.Z: Verhoeven mette in scena la crisi del maschio occidentale, anche se non è il primo. Per esempio, Marco Ferreri l’aveva fatto con film come L’ultima donna o La carne, ma il regista olandese è decisamente più estremo. È come se avesse previsto le pari opportunità di oggi e i mutamenti dell’universo femminile. Nonostante le accuse di misoginia, penso che sia un regista che, come François Truffaut, ama le donne. Sono disponibile a dibatterne con chiunque.

A.M: il saggio di cui stiamo parlando, in cui analizzi la figura femminile di Verhoeven, è indicativo del fatto che nel vostro libro non ci siano solo analisi filmiche, ma anche percorsi tematici. Come mai questa scelta?

F.Z: sono partito dalle immagini. Un’immagine ricorrente nelle scenografie di Verhoeven è quella dello specchio. La sua filmografia è un gioco di specchi. Potrei citare sei o sette film in cui ce ne sono. Lo specchio riflette un’immagine che trascende sul piano tematico. Mi spiego. Sappiamo che nel cinema di Verhoeven ci sono tematiche che si ripetono. Alludendo spesso agli specchi, è come se il regista volesse trasmettere l’idea allo spettatore che se si farà accompagnare da lui nella sua filmografia, troverà delle tematiche ricorrenti. È quello che ho sempre cercato di mostrare nei miei libri di cinema: che un autore può essere definito tale solo se c’è una continuità tra le sue opere. Nello specchio, tra l’altro, c’è spesso il maschio di Verhoeven che si riflette, possibile allusione al mito di Narciso che precorre il grande narcisismo poi divampato con i social.


A.M: tornando ai corpi femminili, in particolare quelli di Showgirls, osservo che si tratta di un altro dei saggi del vostro libro in cui non si sceglie la classica e sempre affidabile analisi filmica, bensì un’originale ricostruzione delle sfortune critiche del film. Si tratta di una scelta legata peculiarmente a quest'opera, che fu letteralmente demolita dalla critica all’uscita?

A.P: in effetti il film fu stroncato da tutti e considerato il peggiore del regista, e continua a essere malvisto, pur essendo stato rivalutato. Quella di Michele Raga è stata un’intuizione dello stesso autore che ci è sembrata originale. Ti svelo qualche retroscena. Io e Fabio abbiamo cominciato a discutere del progetto Verhoeven nel 2018 a pranzo, in una pausa del Ravenna Nightmare Festival. Nel nostro concepimento dell’opera, c’è stata sin da subito la volontà di evitare di strutturare il lavoro come analisi dei singoli film. Il saggio su Showgirls può sembrare avulso rispetto al taglio degli altri capitoli, ma in realtà va esattamente in questa direzione di linea interpretativa originale. Altri due esempi veloci. Il primo è il saggio su Starship Troopers di Giorgio Placereani è caratterizzato da un’analisi comparativa tra fonte letteraria e produzione cinematografica, non presente negli altri saggi. Si considerano le differenze tra il romanzo di Robert Heinlein e la sceneggiatura.  Il secondo è proprio il mio saggio su Atto di forza, in cui ho considerato elementi scenografici, oggetti, corpi attoriali, fotografia. Come pure, in quello su Robocop, più che considerare il soggetto religioso già trattato da altri saggi, è stato interessante evidenziare la critica sociale e l’importanza del passaggio tra l’umano e il macchinico, ossia di un uomo che muore e resuscita come macchina. Tutto questo mostra come abbiamo lasciato libertà ai saggisti per dare un’interpretazione critica personale agli argomenti che affrontavano.



A.M: come in tutti i libri di cinema dedicati a un autore vivente, restano, idealmente, dei capitoli ancora da scrivere. Nel caso di Verhoeven, il capitolo in questione potrebbe essere la televisione. È proprio da lì che aveva iniziato, con l’originale serie Floris in Olanda; è lì che le sue forze sembrano al momento concentrate, visto il progetto di serie sull’opera di Guy de Maupassant, Bel Ami, a cui accennate – non senza un’ombra di diffidenza – nella prefazione. È dunque questo che ci dobbiamo aspettare dal regista olandese? Un reinventarsi nelle serie tv, da cui aveva iniziato?

F.z: perché no? I grandi registi quando fanno televisione non finiscono di sorprendersi. Basti pensare a David Cronenberg che ha partecipato a Star Trek Discovery, e abbiamo scoperto che fosse patito di Star Trek. Quindi non ha fatto un cameo, ma ha interpretato un ruolo complesso. Tra l’altro vedrei bene Verhoeven come attore, è molto fotogenico. Devo invece riconoscere che farebbe fatica a mettere in tv il suo binomio eros e thanatos, ma potrebbe comunque fare una serie, ad esempio, fantascientifica. Quanti produttori gli daranno carta bianca? Abbiamo comunque visto molte serie forti di recente, come Peaky Blinders. E allora, davvero: tutto può essere.

A.M: tra l'altro, dovrei correggermi. Ho parlato di televisione, ma ormai il discorso è esteso a piattaforme come Netflix, Prime, MUBI.

A.P. con Verhoeven non sai mai se il suo progetto decolli o meno, perché c’è l’aspetto produttivo da considerare. Il suo prossimo lavoro potrebbe essere Bel Ami o qualcosa di diverso che nessuno sa, che tiene nel cassetto. La prima serie televisiva era quasi per ragazzi e fu trasmessa sulla tv olandese dove non c’era niente, a differenze della vicina tv belga. La sua serie Floris fece la storia della tv olandese. Le piattaforme stanno finanziando grandi registi e autori, a cui danno libertà produttiva e fondi notevoli: Jane Campion, Sorrentino, Fincher, Cuarón. Ci sono tante possibilità. Chissà che qualche piattaforma non possa dare grande libertà a Verhoeven. I generi vanno forte nelle piattaforma. Chi lo sa che non ci sia la possibilità di qualche serie di fantascienza o di noir.

A.M: la tv, o le piattaforme, potrebbero dunque essere la sua seconda America.

F.Z: o la sua seconda Francia, vien da dire, visto che è il Paese che più gli ha dimostrato simpatia di recente. L’hanno praticamente adottato.

A.P: esattamente. I quattro film che ha fatto negli ultimi vent’anni sono tutti francesi.

A.M: nel cinema globale, con una diversa geografia cinematografica, ci sono possibilità diverse di affermarsi, di là dell’approdo negli Stati Uniti.

A.P: questo è verissimo. Tieni conto, tuttavia, che Hollywood detiene solo l’1% della produzione, quindi il cinema è sì globalizzato, ma quello stesso 1% produce il 60% dei ricavi. È sempre in mano a Hollywood e agli Studios. C’è tanto cinema indiano, sudcoreano, giapponese, africano e così via, ma Hollywood, come sempre ha fatto, sa accogliere registi da altre nazioni. Verhoeven è l’esempio.


SCHEDA LIBRO



EDITORE Falsopiano
AUTORI AA.VV.
CURATORI Antonio Pettierre, Fabio Zanello
PAGINE 220
PREZZO 20 euro
COLLANA Falsopiano/Cinema
USCITA luglio 2021
ISBN 9788893042147

Lista completa degli autori del libro: Aurora Auteri, Ilaria Dall'Ara, Giuseppe Gangi, Roberto Lasagna, Davide Magnisi, Mario Molinari, Giorgio Placereani, Antonio Pettierre, Francesco Saverio Marzaduri, Michele Raga, Mario A. Rumor, Elisa Torsiello, Fabio Zanello.


(immagini: immagine principale, Paul Verhoeven sul set di Robocop, credit: Orion Pictures; all'interno, fotogrammi da film di Paul Verhoeven, in particolare nell'ordine: Fiore di carne, L'amore e il sangue, Basic Instinct, Showgirls. Si ringrazia Falsopiano Editore)


Antonio Maiorino