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LA RESISTENZA DELLO SGUARDO - Infooggi intervista Daniele Vicari, regista di "Diaz" - PARTE 1

NAPOLI, 25 APRILE 2012 - In occasione della Festa di Liberazione, con cui si celebra uno dei momenti capitali della costituzione della democrazia italiana, Infooggi pubblica un'intervista speciale al regista del film "Diaz - Don't clean up this blood", Daniele Vicari. Il tema si presta a molte considerazioni sul pericolo di quei valori che faticosamente i partigiani hanno difeso durante la Resistenza, dacchè, spiega il regista, assai duro fu l'attentato che subì quel preziosissimo patrimonio durante il G8 di Genova nel 2001. L'intervista è stata effettuata in diretta telefonica durante il programma Infooggi su Radio Kolbe, a cura di Concetta Ruotolo, Antonio Maiorino e Rosy Merola. Intitoliamo questo special "La resistenza dello sguardo", in rapporto al bell'articolo pubblicato da Lidia Tagnesi proprio su Infooggi.


A. M: La lavorazione di Diaz non era stata esente da qualche ansia: ad un certo punto si è parlato anche di boicottaggio. Rispetto alle fatiche che ci sono state nella produzione di quest’opera, raccogliendo i frutti, quale idea ti sei fatto dell’accoglienza ricevuta presso il grande pubblico e presso la carta stampata?

DANIELE VICARI: Le difficoltà ci sono state all’inizio, poi sono state via via superate grazie al fatto che il produttore Domenico Procacci non si è fermato ed ha deciso di fare il film investendo molti soldi, mettendo in gioco la sua società di produzione (n.d.R: Fandango) – che è una società di produzione importante, è una major –, trovando un paio di partner dall’estero. Partiti produttivamente, nel momento in cui abbiamo cominciato le riprese sono arrivati segnali positivi. Voglio sottolineare il finanziamento che ci è stato dato dal Mibac: anche se simbolico ha significato non essere soli, un pezzo del nostro Paese il film lo voleva. La stessa cosa vale per la BLS, cioè la Film Commission di Bolzano, che ha dato un piccolo finanziamento, ma significativo anche sul piano simbolico. Questo ha fatto sì che il film potesse partire. Ora, dopo il successo a Berlino, si sono avvicinati tutta una serie di soggetti che prima non avevano voluto avere a che fare col film, per esempio le banche ed alcuni privati. Questo ci fa ben sperare.

C.R: Come hai appena detto, “un pezzo del nostro Paese il film lo voleva”, dunque. Sulla locandina del film si legge: “La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale”, sei riuscito a spiegarti come questo sia potuto accadere? Credi che questo episodio vergognoso possa fungere da deterrente per altri simili abusi di potere?

DANIELE VICARI: Io credo che se non prendiamo coscienza a livello nazionale ed europeo che la nostra non è una democrazia compiuta, certe cose si possono ripetere. Non ci sono stati atti concreti perché queste cose non si ripetano. Da parte delle istituzioni nessuno ha ancora chiesto scusa alle vittime per quei pestaggi selvaggi, e nemmeno a noi cittadini, che comunque siamo stati offesi dal punto di vista del diritto che è anche il nostro, della convivenza civile. Noi facciamo parte di una democrazia, se qualcuno abusa degli strumenti che gli diamo, porti una divisa o faccia parte di altri settori dello Stato, deve risponderne a tutti noi. Nessuno ha chiesto scusa a nessuno, nessuno ha preso atto della gravità dei fatti avvenuti lì dentro se non i tribunali. Questo credo sia un passaggio ineludibile perché arrivi il messaggio chiaro e forti a tutti che queste cose non devono accadere.[MORE]

A.M: Sentivo in sala qualcuno che diceva: “non mi sembra una ricostruzione esattamente attendibile”. Vogliamo informare il pubblico su quali siano state le fonti per la tua ricostruzione, sia pure da un’angolazione, e in che misura ha contribuito alle scelte estetiche del film la tua esperienza nel documentario?

DANIELE VICARI: Aveva ragione quello spettatore che diceva che la ricostruzione non è esattamente attendibile, perché le cose accadute nella Diaz e a Bolzaneto sono molto peggiori di quelle che racconto io, sono talmente gravi che sono irrappresentabili. Non volevo uccidere gli spettatori cinematografici, volevo raccontare una storia, ho tenuto sotto controllo le cose che ho raccontato. Ma ci sono cose irraccontabili, irrappresentabili, che non avrei saputo come realizzare: forse Tarantino in una scena splatter fa cose di questo genere, io non le faccio. Lo spettatore può informarsi su un sito che si chiama processig8.org, in cui si trovano gli atti dei processi, le trascrizioni ed anche le voci registrate dei testimoni ed imputati: si trova di tutto sulla Diaz, ci sono tutti procedimenti che sono nati dopo il G8 di Genova.
Sul documentario, io non ho mai fatto nella mia formazione culturale una distinzione tra il cinema di finzione e di verità. Le due cose si parlano, si mescolano, si confondono. Io sono appassionato dei racconti di genere, i ragazzi stanno andando a vedere questo film in massa, questo è anche un action movie, non solo un film di denuncia, quindi trovano elementi cinematografici, narrativi, che li soddisfano anche al di là del contenuto tematico. Questi elementi portano anche ad una riflessione, questo modo di costruire il racconto, un po’ complesso, con una serie di andirivieni temporali, tanti personaggi ma nessun protagonista, fanno si che il protagonista entri in sala con 2 o 3 dubbi e ne esca con 200 o 300, di dubbi. Non credo nel cinema che ti fa andare a casa col certificato di conversione: “adesso hai capito tutto, tranquillo, le cose sono andate così come ti ho detto io regista o sceneggiatore di questo film”.

PARTE SECONDA

PARTE TERZA

L'AUDIO DELL'INTERVISTA A RADIO KOLBE: PARTE PRIMA - PARTE SECONDA

(in foto: immagine promozionale del film Diaz)

 

A.M.