Land grabbing. Come il nord del mondo sta ricreando il debito del Sud/1

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ADDIS ABEBA (ETIOPIA), 12 DICEMBRE 2011 - Undici anni fa, in occasione del Giubileo, una campagna d'opinione chiese ai paesi del Nord del mondo di cancellare il debito che verso di loro avevano contratto i paesi del Sud. Ad oggi, però, non solo quel debito non è stato cancellato, ma oggi si assiste ad una sempre maggiore opera di ri-colonizzazione, in particolare attraverso l'acquisizione delle terre o l'uso dei titoli "tossici". Un procedimento che, oggi, viene usato anche nella "cara e vecchia" Europa. [MORE]

«Io adesso mi rivolgo all'onorevole D'Alema/approfitto del microfono per parlarle di un problema/Chissà quanti già le avranno sottoposto la questione/ma io vorrei usare il microfono e la televisione/per chiederle da qui di dare un segno profondo/alla questione del debito estero/di molti paesi del Sud del mondo(...)» 

Queste erano le parole – qualcuno ricorderà – con cui Jovanotti si presentò, ormai undici anni fa, al Festival di Sanremo e con le quali chiedeva, a nome dei tanti che in quel “movimento di opinione” si riconoscevano, di cancellare il debito che i paesi del Sud del mondo avevano contratto nei confronti del ricco Nord. A distanza di una decade e qualche briciola, però, quell'”appello” a D'Alema – allora presidente del consiglio italiano – è evidentemente rimasto inascoltato (forse perché l'epistola aveva completamente sbagliato il destinatario, ma questo è un altro discorso...) ed oggi quel debito è vivo più che mai. Non solo, peraltro, i paesi del cosiddetto Primo mondo non lo hanno cancellato, ma stanno sempre più tentando di metterci le mani sopra. Perché senza il Sud del mondo, inteso nella sua accezione economica e geopolitica che in quella geografica, non esisterebbe alcun Nord.

Negli anni Settanta-Ottanta, il Nord si assicurava questa posizione anche – e soprattutto – attraverso l'uso della forza militare. La storia di paesi come Argentina, Cile, Brasile e molti altri paesi dell'America Latina è lì a testimoniarlo. Lo chiamarono “Plan Condor”. Servì agli Stati Uniti per combattere il comunismo – e l'opposizione in genere – nel “cortile di casa” dell'America Latina.
Oggi che i regimi amici si instaurano attraverso le rivolte pacifiche (o “colorate”, fate voi), l'immagine dei cattivi è affidata ad agenzie pubblicitarie (leggasi alla voce Rendon Group o Bell Pottinger Public Relations) e dove gli equilibri geopolitici stanno dando origine ad un mondo tendenzialmente multipolare – non ultima la creazione della Celac in America Latina – bisognava trovare uno strumento che modernizzasse il plan Condor. E cosa c'è di meglio – lo vediamo tutti i giorni anche nella cara vecchia Europa – della “moda” dei fondi speculativi (in inglese “vulture funds”, “fondi avvoltoio”, guarda caso...)?
Fondi speculativi e land grabbing. Sono questi gli strumenti del colonialismo del ventunesimo secolo.

Un cane che si morde la coda. 227 milioni di ettari. A tanto ammonta, stando al rapporto di settembre dell'organizzazione Oxfam, la quantità di terra che attraverso contratti di vendita o locazione ha subito un vero e proprio passaggio di proprietà negli ultimi dieci anni. Il continente maggiormente interessato a questo procedimento e l'Africa, in particolare nella zona sub-sahariana, dove ad aprire le danze qualche anno fa fu l'Etiopia, le cui terre furono acquistate da Re Abdullah per sfamare una popolazione – quella dell'Arabia Saudita – destinata ad un vero e proprio boom demografico nei prossimi anni (così come tutta l'area del Golfo, che tra il 2000 ed il 2030 passerà, secondo le stime, da trenta a sessanta milioni di persone). L'Arabia ha aperto la strada, Cina ed India seguono a ruota, anche per quanto riguarda gli aspetti demografici.

Gran parte dei terreni acquistati (una quota intorno all'ottanta per cento) viene poi lasciata inutilizzata, così da raggiungere due obiettivi con una sola mossa: da un lato il mantenimento di un livello alto dei prezzi dei prodotti agricoli sui mercati, la cui instabilità porta, nel medio periodo, a modificare le abitudini alimentari delle popolazioni colpite da questo fenomeno (e stiamo parlando di qualcosa come tre miliardi di persone); dall'altro lato la non-sovranità produttiva – dato che se ho un contratto che mi impone prodotti e quantità devo, in qualche modo, onorarlo – permette di strozzare l'economia dei paesi “in vendita”, mantenendo così una delle principali voci di instabilità politica che permettono al ricco Nord di continuare a sfruttare il Sud. Il passo successivo alla crisi agricola è quella alimentare, e quindi la richiesta di aiuto alle istituzioni – nazionali e non – del Nord del mondo. A quel punto il “piano di austerità” - allora chiamati Structural Adjustment Programs (SAPs)- del Fondo Monetario Internazionale è dietro l'angolo.

Qualche nome? Il già citato governo saudita, che ha deciso di ridurre del dodici per cento la produzione interna di cereali al fine di utilizzare meno acqua, stanziando 5 miliardi di dollari per concedere prestiti a tasso agevolato a quelle imprese che vorranno investire in “potenziale agricolo” (soldi alle popolazioni che quella terra la coltiveranno saranno, con ogni probabilità, ben pochi...). Il Madagascar, come scriveva nel marzo del 2010 Alessandro Ingaria su PeaceReporter «stava negoziando con la compagnia sudcoreana Daewoo un contratto per la vendita di 1,2 milioni di ettari, quasi la metà della terra arabile del Paese». Contratto che non ha però visto la luce per i problemi politici interni all'isola.
Ancora: la Bho Agro Plc, che si è assicurata 27 mila ettari di terreno dell'area di Gambella – una terra nella parte occidentale dell'Etiopia situata tra il fiume Baro e l'Akobo – in cui coltiverà piante per biocarburante, o ancora la Ruchi Group, che sempre nella stessa zona ha acquistato altri 25 mila ettari.
Una delle ultime compravendite ci porta invece in Tagikistan, che ha concesso in locazione duemila ettari di terre coltivabili (in un paese prevalentemente montuoso) alla Cina, che invierà sul posto 1.500 contadini cinesi – per far fronte all'emorragia dei contadini tagiki emigrati in Russia, dice il governo – e che ha fatto gridare allo scandalo la popolazione locale.

Quel senso di “patria”. Già, le popolazioni locali. I grandi assenti al tavolo dove si firmano i contratti di compravendita. A loro è riservata solo la lotta di resistenza. «Questa è la terra dei miei nonni, che l'hanno avuta dai loro nonni, quindi questa terra è mia» è il principio che li spinge a lottare e, in qualche caso, ad essere uccisi, come successo qualche settimana fa a Nísio Gomes, 59enne leader religioso della popolazione Guaraní della regione brasiliana del Mato Grosso do Sul, da dove furono cacciati circa trent'anni fa dagli allevatori di bestiame. Per loro si parla di una vera e propria “emergenza”: «Il governo ha annunciato una maggiore distribuzione di aiuti umanitari, ma continua a ignorare la radice del problema: alla tribù è stata praticamente tolta tutta la sua terra», spiega Francesca Casella di Survival in un articolo firmato da Stella Spinelli per PeaceReporter. «Negli ultimi settanta anni, migliaia di Guaraní sono stati sfrattati dai loro territori dai coltivatori di soia e dagli allevatori di bestiame e solo l'un per cento delle foreste appartenenti al loro territorio ancestrale è sopravvissuto al disboscamento. Oggi, i Guaraní vivono ammassati in minuscole riserve in cui, come conseguenza, dilagano suicidi, alcolismo e violenza».

Quando non si riesce – o non si può, ad esempio per mancanza di terre acquistabili – colonizzare attraverso lo spostamento della proprietà delle terre entrano in campo altri tipi di “avvoltoi”, ancor meno visibili di quanto possa essere un contratto di compravendita firmato “lontano da occhi indiscreti”. Gli avvoltoi della speculazione finanziaria. Saranno proprio loro ad essere al centro della seconda - ed ultima - parte di questo articolo.

(1 - Continua)

Andrea Intonti

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Scritto da Andrea Intonti

Giornalista di InfoOggi

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