Cronaca
Le parole non servono più, ora c'è bisogno dei fatti. Intervista al giornalista Paolo De Chiara
FORLI’, 24 LUGLIO 2012 - Paolo De Chiara, classe 1979, è un giornalista d’inchiesta. Profondamente convinto che il giornalismo sia una vera e propria missione e che abbia il dovere di informare i cittadini senza guardare in faccia a nessuno. La cultura della legalità deve essere diffusa per non lasciare solo chi fa onestamente il proprio dovere.
Cosa significa oggi fare il giornalista d'inchiesta?
Fare il proprio dovere. Informare i cittadini, i propri lettori senza guardare in faccia a nessuno. Questa dovrebbe essere la missione di ogni singolo giornalista. Riportare i fatti, senza ingannare nessuno. Un grande giornalista, Giuseppe D’Avanzo, amava dire: “Chi fa questo mestiere non può non aver nemici. Se non ne ha vuol dire che qualcosa non va …”. Concordo alla perfezione con queste parole. Il giornalista è una persona normale, ma deve avere la schiena dritta. Non ci si può occupare di questa professione solo per lo stipendio. Senza spina dorsale è più facile fare i passacarte o i trombettieri del potente di turno. Per il maestro del giornalismo italiano, Indro Montanelli: “il giornalista italiano ha sempre scritto per il signore, per il potere. Chi scrive per il lettore viene disprezzato”. Meglio essere disprezzati. [MORE]
Come può essere tutelata la figura del giornalista di cronaca in questo scenario mediatico così incerto?
Nella mia Regione, il Molise, molti iscritti all’Ordine da anni chiedono alla politica una legge per l’editoria. Sapete come hanno risposto? Con una legge dal titolo: ‘Misure urgenti a sostegno degli editori molisani operanti nel settore della carta stampa’. Sono stati stanziati 300mila euro per accontentare gli editori locali. Per cosa? Per riportare meglio il volere e il messaggio del ‘signorotto’. Nella norma, approvata da fidati uomini politici, non si parla di lavoro nero (le redazioni sono piene di ragazzi sfruttati senza un contratto). Ma c’è un comma in cui al presidente della Regione, al Governatore del Molise, viene offerto il diritto di veto. In stile monarchia assoluta. È lui che decide, dal suo scranno, chi può prendere i soldi pubblici e chi no. Chi può fare informazione e chi non può farla. Ma non si risolvono così i problemi. La figura del giornalista si tutela premiando e pagando il suo lavoro. Il lavoro nero nelle redazioni non è un problema solo molisano, è nazionale. L’Ordine e il sindacato dei giornalisti devono impegnarsi per tutelare, sotto ogni profilo, il lavoro di ogni singolo cronista. È mai possibile che le vertenze, sempre in Molise, si perdano per strada? Chi vuol fare questo mestiere deve crederci. E fare questo mestiere significa studiare, leggere le carte, informarsi per informare. Lo scenario è incerto, ma offre più possibilità. Grazie alla ‘rete’, ai blog, ai social network ci sono maggiori scelte e maggiori strade. Che si legano bene alla libertà che ogni cronista deve avere per fare al meglio il proprio lavoro. Che non è un lavoro come gli altri. Il giornalista non ha orari, non è un impiegato che svolge il lavoro in ufficio dalle 8 alle 14. E poi, magari, deve aggiungere qualche rientro pomeridiano. Questo non è nemmeno un mestiere, ma una missione. Con un unico padrone: il lettore.
Ogni giorno molti giornalisti rischiano la loro incolumità nel quotidiano sforzo di trovare e raccontare la verità, spesso scomoda, in che modo dovrebbero essere tutelati?
Sono tanti i giornalisti che fanno bene il loro lavoro. E rischiano tantissimo per aver fatto il proprio dovere. Gli esempi sono tanti e questa cosa fa ben sperare. Purtroppo ‘chi fa il proprio dovere’ ha bisogno, in molti casi, della tutela. La collega Rosaria Capacchione è un esempio per tutti. Una donna coraggiosa, una brava giornalista costretta a vivere sotto scorta solo per aver raccontato fatti di camorra. Come Roberto Saviano. Molti sono anche morti. Uccisi per aver fatto il proprio dovere. Come Giancarlo Siani, il giornalista precario de Il Mattino ucciso a 26 anni dalla camorra. Siani faceva il suo mestiere e per questa ragione è stato ammazzato. Non è possibile che in questo Paese ‘chi fa il proprio dovere’ viene lasciato solo. È necessario tenere accesi i riflettori sulle persone, che in ogni settore, fanno bene il proprio lavoro. Raccontare la verità è un dovere per tutti coloro che amano questa professione. Non saranno le minacce, le intimidazioni a far perdere la dignità e la passione. Ma è doveroso affrontare questi temi con una cultura diversa. Nella famosa ‘Lettera a una professoressa’ don Milani scriveva: “ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. Dobbiamo imparare ad essere tutti impegnati a risolvere i problemi degli altri. Che poi sono i problemi che toccano tutti noi. Solo in questo modo, con la solidarietà, è possibile cambiare una certa cultura. In un Paese normale e civile chi fa il proprio dovere non deve temere nulla.
Giuseppe Fava affermava: "Io ho un concetto etico del giornalismo. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, impone ai politici un buon governo. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, le sofferenze, le sopraffazioni, la corruzione e le violenze che non è mai stato capace di combattere", cosa ne pensi a riguardo?
Sono completamente d’accordo. Giuseppe Fava è uno degli esempi di giornalismo che il ragazzo alle prime armi deve seguire. Per capire che significa la ricerca della verità. Per capire che significa fare questo mestiere con dignità. Il giornalista è il cane da guardia del potere, non il cane da compagnia o da riporto. Fatto nel migliore dei modi ‘impedisce corruzioni, frena la violenza e la criminalità, impone ai politici un buon governo. Giuseppe Fava, ucciso dalla mafia siciliana perché raccontava i fatti, con queste poche, ma fondamentali, parole ha espresso un concetto fondamentale. Ha diviso in due la categoria: da una parte ha messo il vero giornalista (il giornalista-giornalista) e dall’altra ha descritto chi nella vita deve occuparsi di altro. Basta guardare alcuni telegiornali nazionali e leggere i quotidiani italiani. La descrizione fatta dal giornalista Fava è ben visibile. È riconoscibile da tutti. Senza nemmeno uno sforzo mentale, basta solo quello visivo. Nessuno impone di fare questo mestiere. Chi lo fa deve narrare, senza ingannare.
Sempre Fava affermava: "A cosa serve essere vivi se non si ha il coraggio di lottare?", condividi?
Certo che condivido. Non ha senso vivere senza il coraggio di lottare. La mancanza di coraggio porta alla schiavitù. Prendiamo due esempi che non si legano al mondo del giornalismo. Due preti: don Peppe Diana e don Pino Puglisi. Entrambi uccisi a colpi di pistola. Il primo dalla camorra e il secondo da cosa nostra. Il loro coraggio, il loro esempio sono ancora vivi in molti di noi. Grazie alla loro opera quotidiana (soprattutto con i giovani e nelle scuole) molto è cambiato. Nella vita non ci si può rassegnare al potente, mafioso o politico che sia, alla convivenza con le organizzazioni malavitose. Loro lo temono il coraggio. Uccidono e fanno uccidere chi si ribella perché temono e hanno paura di questi comportamenti, che si possono diffondere nella società. Hanno una fottuta paura di perdere il consenso. E noi tutti dobbiamo diffondere il coraggio di lottare. Per fare in modo che il prezzo pagato da Fava, da Siani e da tantissime altre persone non resti solo un fatto di cronaca. Ma un esempio preciso da seguire.
Cos'è oggi la criminalità organizzata e perché, secondo te, è estesa ormai in tutto il Paese?
Quando parliamo di questi argomenti si immagina spesso il boss con la lupara e il fucile a canne mozze. Oggi non è più così. Le organizzazioni criminali provengono da quella cultura, ma hanno lasciato il fucile. Si sono mimetizzate. I mafiosi sono diventati imprenditori, professionisti. Sono ovunque, in tutte le realtà regionali italiane. I loro affari si sono spostati in tutto il mondo. Hanno un controllo totale del territorio e di molte Istituzioni. Sono nella politica e in tutti i luoghi dove possono gestire e fare business. Investono e fanno investire il denaro sporco. Sono le uniche, oggi, ad avere una grossa liquidità. Possono comprare tutto quello che vogliono. Si sono mescolati bene negli apparati pubblici e privati. E sono coperti dagli insospettabili, ma non solo. Per troppi anni, per tanti anni, hanno ricevuto la protezione anche dallo Stato. La famosa ‘trattativa’ ne è l’esempio.
Cosa vuol dire oggi resistere e combattere la mafia?
Non girare la testa dall’altra parte. Non delegare tutto alle forze dell’ordine e alla magistratura. Fare il proprio dovere non solo nel proprio lavoro, ma nella vita di tutti i giorni. Rispettare le regole. Solo in questo modo è possibile resistere, combattere e sperare in un futuro senza la presenza asfissiante delle organizzazioni criminali.
Riusciremo mai a sconfiggere la criminalità organizzata? Hai fiducia nell'Italia?
Giovanni Falcone, il magistrato ucciso il 23 maggio del 1992 dalla furia assassina di Cosa Nostra (ma anche da pezzi dello Stato) amava ripetere: “La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”. Dallo Stato questo fenomeno non è stato mai preso sul serio. Anzi, molti appartenenti allo Stato hanno preferito “convivere con la mafia”, prendere i voti. Utilizzare le mafie per scopi elettorali. Per sconfiggere le mafie bisogna sapere cosa è successo negli anni passati. Dopo trent’anni, ad esempio, ancora non si conoscono i mandanti degli omicidi Dalla Chiesa e Pio La Torre. Ancora sappiamo poco della prima strage di mafia, quella di Portella della Ginestra. Dopo vent’anni non sappiamo chi ha voluto la morte dei giudici Falcone e Borsellino. Sulla morte del magistrato ucciso il 19 luglio del 1992 in via d’Amelio si è registrato il più grande depistaggio della storia del Paese. Chi c’è dietro questo mistero? Chi ha rubato l’agenda rossa? Chi ha fatto uccidere Paolo Borsellino? Dopo venti anni ci siamo accorti che il processo Borsellino era una farsa. Chi ha mantenuto questi fili? Siamo un Paese con la memoria corta. Non abbiamo il coraggio della verità, che la gente pretende. Come pretende di sapere dagli uomini delle Istituzioni la verità. Oggi esiste una forte polemica intorno alle intercettazioni tra l’ex ministro Mancino (che non ricorda dell’incontro con Borsellino) e il presidente della Repubblica, Napolitano. Per rompere con il passato è necessario pubblicare quelle conversazioni, invece di attaccare i magistrati di Palermo. Invece di fare inutili proclami per la lotta alle mafie. Le parole non servono più, ora c’è bisogno di fatti concreti. Riporto ancora una frase di Giovanni Falcone:“gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Le mafie si possono e si debbono sconfiggere. Dipende da tutti noi.
Il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso in occasione dell'iniziativa "Repubblica delle idee", organizzata dal quotidiano Repubblica a Bologna qualche settimana fa ha affermato che la lotta alla mafia non è un'utopia; con tenacia e determinazione si può sconfiggere, cosa ne pensi?
Non è affatto un’utopia. Grasso ha ragione, “con tenacia e determinazione si può sconfiggere”. Ma bisogna fare pulizia. Non si possono tollerare più certi atteggiamenti, certe parole. Non dimentichiamo che personaggi come Cosentino, Dell’Utri, Romano (e tanti altri) hanno rappresentato le Istituzioni. Ex ministri hanno invitato i cittadini a convivere con la mafia. Abbiamo un senatore a vita, Giulio Andreotti, che ha fatto la sua fortuna politica grazie alla mafia. E ci continua a rappresentare politicamente. Anzi, in molti programmi e su diversi giornali, si continua a scrivere che è stato assolto da quell’accusa infamante. Basta leggere la sentenza della Cassazione per capire di che stoffa è fatto Andreotti. Bisogna rompere tutti i rapporti dubbi, cacciare a pedate dalla politica tutti questi personaggi collusi (sbatterli in galera non sarebbe male). Bisogna puntare sulla cultura della legalità, partire dalle scuole per formare una nuova generazione. Perché con questi criminali non è possibile convivere, perché “la mafia (le mafie), come diceva Peppino Impastato, è (sono) una montagna di merda”.
Giulia Farneti