Perchè non credo a Creed: un k.o. in cinque round
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Perchè non credo a Creed: un k.o. in cinque round

giovedì 28 gennaio, 2016

CREED DI RYAN COOGLER, LA RECENSIONE. Per quanto fortunato al box office e presso una vasta platea di critici, il film che rianima il franchise di Rocky è più burroso che drammatico e mena di nostalgia e patetismo più che di boxe.

Creed
è un cognome che pesa: quello del più famoso avversario di Rocky Balboa, interpretato da Carl Weathers fino a Rocky 4, allorchè il personaggio di Apollo, nel frattempo divenuto amico del pugile di origini italiane, cade sul ring per il cazzotto di troppo di Ivan Drago. C’è qualcuno che non conosca questa storia? Può darsi – e forse l’uscita del film di Ryan Coogler è l’occasione per tanti outing, così come lo è stata per i non pochi che non avevano mai visto alcun film della saga di Star Wars. Ma il punto è un altro: per godere davvero del film e della storia di come il cognome pesasse sulle nerborute spalle del figlio di Apollo, Adonis (Michael B. Jordan), è meglio essere stati conoscitori, se non ammiratori, della saga di Rocky.

CREEDICI - Perché Creed, in inglese, è anche la parola che indica ciò in cui si crede – una fede, una dottrina, o solo una convinzione. Ecco, per chi è disposto a crederci per affetto, ignorando tutte le banalità e le scelte irrisolte di Creed, si tratterà di un gran film, con cui salutare in pompa magna uno Stallone più redivivo di Di Caprio e la rinascita del franchise di Rocky. Più probabile, per chi scrive, che ad un riesame il film risulti piuttosto un compitino ben eseguito per rianimare la serie, senza troppo sudore né troppo genio: la formula è nota – trovare l’allenatore, farsi allenare, tenere il ring – e viene appena rinvigorita con un restyling moderno (la colonna sonora hip hop, qualche movimento di camera spericolato durante i match) ed un pugno di concessioni al patetico burroso come Philadelphia (il riscatto filiale, le parentesi ospedaliere, l’effetto nostalgia). Il risultato ricorda un pugile volenteroso che barcolla e resta in piedi: non perde la faccia, ma nemmeno vince. [MORE]

UN GIORNO ALL'IMPROVVISO - Per l’occhio allenato, la strategia di Ryan Coogler ricorderà il suo film d’esordio, Fruitvale Station, sull’uccisione del 22enne Oscar Grant da parte della polizia californiana: un andamento attendista, chiacchierato, che cerca di far entrare lo spettatore nella psicologia dei personaggi, prima di sconvolgere la loro vita con gli avvenimenti chiave. Ammirevole, entro un film a sfondo pugilistico, non aver ceduto frettolosamente alla tentazione dell’adrenalina. Anzi, la lunga, non-atletica premessa, che vede il giovanotto adottato dall’ex moglie di Apollo (Phylicia Rashad), si prende i suoi tempi, incurante della campana dell’impazienza, pronta a risuonare per lo spettatore più irrequieto. Così, vediamo Adonis mollare il lavoro affidabile per seguire la via della boxe – ma già che c’eravamo, si poteva approfondire il tormento della scelta, anziché presentarla repentinamente all’inizio; lo seguiamo mentre fa conoscenza con la vicina Bianca, fiera artista R&B che vocalizza al piano di sotto - e scommettiamo, vincendo la scommessa, che l’amerà, la conquisterà, litigheranno e si riappacificheranno.

GLI SFRACELLI DI STALLONE - Il vero corteggiamento, però, è quello che Adonis fa a Rocky per convincerlo a fargli da mentore. Quando Sylvester Stallone entra in scena, è un altro round di dialoghi – beninteso, con battute ben assestate. A tanti è piaciuta la mimica monocorde dell’attore, le pillole di vita dispensate a voce bassa – diciamola tutta: il profilo basso dell’interpretazione. C’è un po’ d’ipocrisia in questo tributo: sembra una iper-reazione entusiasta al fatto che, magari, non ci si aspettava questo calibro drammatico. Altri ancora confondono una situazione commovente con una performance da campione, un lineamento sfracellato con la stanchezza sofferta dell’attore che fa sfracelli. È apprezzabile mestiere: ma non è esagerato dispensare Golden Globe e promettere Oscar?

IL MISMATCH - Arriva, poi, l’atletismo promesso: quasi come se fosse un corpo estraneo (in un film “sportivo”!), qualcosa di cui doversi scusare, perché troppi muscoli implicherebbero la macchia del film di genere. Dopo un adrenalinico allenamento (con ottimo montaggio, anche del sonoro), il primo match di Adonis s’inventa allora unico movimento circolare della macchina da presa, così efficace che ti chiedi: perché non è stato inventato prima per le trasposizioni cinematografiche d’incontri di boxe? E ti rispondi: perché non c’era stato Birdman a vincere l’Oscar l’anno precedente con l’unica ripresa senza stacchi. L’idea – o concessione al gusto – resta ottima negli effetti, ma vedere il secondo match girato con altra tecnica non può non far pensare ad un pizzico d’indecisione stilistica. La coppia di scene, in parallelo, è male assortita: un mismatch.

ZIO ROCKY - Prima però – e scusate il flashback – c’è il climax emotivo che ha fatto innamorare tanta parte di critica (ma curiosamente, più americana che inglese). Qui è piacevole la miscela di lacrime e sudore, la graduale elaborazione dell’eredità di Apollo da parte di Adonis che s’intreccia con la presa di coscienza della solitudine, dell’anzianità e della malattia da parte di Rocky. Vi si lavora complessivamente bene, ma manca ancora il colpo del k.o: la scelta di drammatizzare la preparazione all’incontro della vita con gli allenamenti in ospedale si rivela… drammatica. Far tossire Stallone come un’eroina vittoriana ci sembra – per prenderla positivamente – un po’ naïf. Specie considerando che, per quanto onestamente interpretato, il ruolo di Sly come “zio” adottivo (sic, nelle parole di Adonis\Jordan) finisce per ricordare piuttosto “una vaga figura che fa la propria apparizione in periodo di vacanze”, come ha scritto argutamente Amy Nicholson su Village Voice.

In due interminabili ore e dieci minuti, dunque, la rianimazione del franchise si completa abbastanza gustosamente, sia per i palati più inclini alle botte, che per quelli avvezzi alle botte emotive: Creed non si fa mancare niente, ma non è il top né sull’uno né sull’altro versante, né come dramma né come epica pugilistica. Si tiene in piedi, questo sì.
Per chi suona la campana (lo spettatore), l’importante è crederci.

Antonio Maiorino


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