Giochi estremi “sensation seeker". Erika: sono riuscita a evitare una tragedia
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Giochi estremi “sensation seeker". Erika: sono riuscita a evitare una tragedia

giovedì 17 gennaio, 2019

Salviamo i nostri figli dai giochi estremi

Ultimamente non è raro che le cronache raccontino di imprese adolescenziali ai limiti dell’assurdo, sfide in cui l’incolumità e la vita stessa dei ragazzi vengono seriamente messe a rischio, volontariamente. 

Questi giochi pericolosi vengono definiti sensation seeker: il loro scopo principale sembra essere quello di procurare sensazioni forti ed emozioni estreme, trasgredendo ad ogni regola imposta dalla società e dal comune buonsenso.

Ma si tratta semplicemente di follia, o la ricerca del rischio risponde a un’esigenza psicologica più profonda?

Le imprese impossibili sembrano rifarsi ai riti di iniziazione che nelle società primitive sancivano il passaggio dall’infanzia all’età adulta: ben descritti dagli antropologi del secolo scorso nei loro studi sulle culture extra-europee, questi riti erano spesso cruenti e impegnavano il ragazzo in vere e proprie prove di coraggio. Solo chi le superava poteva dirsi finalmente adulto.

Nella società moderna, il passaggio dall’infanzia all’età adulta è molto più sfumato: si è creato così una sorta di “limbo”, che coincide con il periodo dell’adolescenza. In questa età critica vengono a mancare quindi i punti di riferimento sociali che erano racchiusi nella tradizione tramandata dagli anziani con i riti di iniziazione: il ragazzo è lasciato solo col gravoso compito di definire la propria identità, e lo fa con modalità stabilite dallo stesso gruppo dei pari in aperto contrasto con le regole sociali imposte dagli adulti.

Le sfide pericolose non sono una novità degli anni Duemila. Memorabile, già nel lontano 1955, è la gara automobilistica descritta nel film con James Dean Gioventù Bruciata, in cui, dopo aver bloccato il pedale dell’acceleratore, i guidatori dovevano gettarsi dall’auto in corsa un istante prima di finire nel precipizio – e ovviamente vinceva chi si buttava per ultimo.

Ma ai giorni nostri l’accesso ad internet e ai social media amplifica la portata di queste imprese, che grazie agli smartphone possono essere documentate con foto e video, poi diffusi a livello planetario. In questo modo il riconoscimento sociale si traduce in quei like che per gli adolescenti sono il più importante ed evidente indice di accettazione e popolarità, così importante da essere perseguito anche a rischio della stessa vita.

Un dato allarmante indica inoltre che la diffusione di queste pratiche pericolose coinvolge ragazzi sempre più giovani, fino ad interessare anche i preadolescenti: recentemente, all’esterno di una scuola media in Brianza sono stati visti dei ragazzini sdraiarsi sul manto stradale in una sfida a chi resisteva di più prima di alzarsi all’arrivo delle automobili.

Il senso di onnipotenza che spesso caratterizza gli adolescenti li porta a sottovalutare pesantemente i rischi reali di simili sfide: così, non è raro leggere sui giornali di ragazzini volati da un cavalcavia o travolti da un treno solo per ricavarne visibilità sui social.

Ma quali sono i più diffusi tra i giochi distruttivi con cui gli adolescenti si misurano?

Ecco l’elenco dei più famosi:

Eyeballing: si versa dell’alcol all’interno dell’occhio per provare l’ebbrezza del dolore. La sfida è resistere il più possibile. Con questo stupido gioco si rischiano danni irreversibili alla vista, come abrasione della cornea, sanguinamenti, trombosi dei vasi, fino alla completa cecità.

Batmanning: ispirandosi a Batman, l’uomo-pipistrello, i ragazzi si fanno appendere per i piedi a testa in giù, col grave rischio di cadere sbattendo violentemente la testa.

Balconing: consiste nel saltare da un balcone all’altro o tuffarsi in una piscina da un balcone di un piano alto. In molti casi il volo finisce male, causando morte o disabilità permanente.

Binge Drinking: è l’assunzione di diverse bevande alcoliche in un breve intervallo di tempo. La gara consiste, ovviamente, nel berne il più possibile. Questa pratica ha gravi effetti su vari sistemi del corpo (neurologico, cardiaco, gastrointestinale…) e rappresenta un fattore di rischio per la salute mentale.

Chocking Game o Space Monkey: si tratta di un “finto strangolamento” che, attraverso una pressione sulla carotide, blocca l’afflusso di ossigeno al cervello, causando una temporanea perdita di sensi e, al risveglio, una piacevole euforia. In questo tipo di gioco è difficile controllare l’entità della pressione, che può provocare lesioni al cervello o morte per soffocamento.

Bird Box Challenge: l’ultima sfida in ordine di tempo prende spunto da un mediocre film dell’orrore, Bird Box. Consiste nel compiere varie attività con gli occhi bendati, mentre si viene filmati da un amico: dal truccarsi, al mangiare, al vagare per le strade, fino ad azioni ben più pericolose come maneggiare un’ascia o guidare un’auto.

Come è stato detto, in questi giochi l’appoggio del gruppo dei pari è un fattore essenziale: il ragazzo cerca il loro apprezzamento e ottiene la loro complicità. Gli amici, infatti, lungi dallo scoraggiare l’impresa, si occupano normalmente di filmarla per poi postare il video sui social.

Come far capire agli adolescenti che i like non sono più importanti della vita?

Un’inchiesta seria impone che si vadano a raccogliere in prima persona testimonianze dirette di chi è coinvolto o informato dei fatti. Così ho parlato con un gruppetto di ragazzi dai 15 ai 17 anni. Ho chiesto loro cosa ne pensino di questi giochi autodistruttivi. Le loro risposte sono diverse, ma tutti concordano su un punto: chi fa cose del genere non ha voglia di vivere.

Parla Simone:

Per noi adolescenti le sfide sono allettanti, ma chi è sano di mente conosce il proprio limite e cerca di capire quando si deve fermare. Per me quelli che fanno queste stronzate hanno la testa che non gli funziona. Tipo quei due ragazzi di Milano che poco tempo fa sono morti per degli stupidi giochi: un quattordicenne si è incellofanato la testa per provare l’ebbrezza della mancanza di ossigeno ed è morto soffocato; un altro di quindici anni è salito sul tetto di un centro commerciale con alcuni amici per scattarsi dei selfie sul punto più alto dell’edificio, è precipitato ed è morto in ospedale per le ferite riportate. Ripeto, chi fa queste cose sicuramente non sta bene.

Parla Pierre:

Io non giudico, ma la mia esperienza mi porta a stare lontano da certe persone.

Prima frequentavo un gruppo di coetanei (sedicenni, N.d.A.) che di notte fanno gare con macchine rubate al momento. Al principio mi sentivo attratto da queste imprese: uscivo da casa di nascosto dopo che i miei genitori erano andati a letto, correndo il rischio di essere scoperto al rientro. L’adrenalina mi saliva alle stelle. Erano nottate in cui mi sentivo un eroe, con i miei amici eravamo un esempio di coraggio per la nostra classe, i senza paura.

Una notte una soffiata ha messo in allerta la polizia: uno di noi rimaneva sempre di guardia a un crocevia per avvisarci telefonicamente se qualcosa non andava, così ci ha avvertito dell’arrivo delle volanti. C’è stato un momento di panico, siamo corsi tutti ai motorini per scappare. Io sono salito sullo scooter di un amico che di solito mi veniva a prendere sotto casa. Per l’agitazione il mio amico non ha visto una buca che ci ha fatto sbandare e precipitare in una scarpata. Mi sono risvegliato in ospedale con una gamba e un braccio rotti e la milza spappolata; in due mesi ho subito sei interventi. Sono stato fortunato perché il corpo del mio amico, che è morto sul colpo, mi ha fatto da scudo. Un’esperienza allucinante, che non auguro a nessun ragazzo al mondo di dover vivere.

Parla Erika:

Io sono riuscita a evitare una tragedia per un pelo. Una sera con un’altra ragazza sono andata in una discoteca: ai miei non avevo raccontato che andavo a dormire da una mia amica.

Abbiamo conosciuto due ragazzi carini che hanno cominciato a corteggiarci, e hanno insistito molto per farci bere qualcosa. I miei genitori, con cui ho un dialogo aperto, mi hanno sempre consigliato di tenermi alla larga da alcolici e pasticche.

Avevo paura di bere quello che mi avevano offerto e ho cercato il modo per disfarmene. Vicino a noi su un muretto c’erano dei bicchieri vuoti: senza farmi vedere, ho appoggiato il mio e ne ho preso uno vuoto. La mia amica invece ha bevuto tutto, convinta che fosse gassosa. Appena finito di bere ha cominciato a sentirsi male: i due ragazzi se la sono squagliata; io ho chiamato subito l’ambulanza. Nel frattempo un medico che si trovava nel locale le ha dato il primo soccorso.

Conclusione: è venuto fuori che quello che ci avevano offerto era un Purple Drank, una sbobba a base di sciroppo per la tosse e gassosa.

Parla Mirko:

Io sono un fifone ma in questo caso sono felice di esserlo. Non cerco lo sballo sdraiandomi sui binari del treno, guidando la macchina bendato, correndo col motorino di notte in senso contrario sul raccordo o attraversando la strada a occhi chiusi rischiando di essere investito mentre qualche amico mi riprende. Mi sballo quando prendo 10 in una verifica o vinco qualche medaglia sportiva.

Parla Letizia:

Per fortuna solo una minima parte di adolescenti si butta in queste azioni di ribellione suicida. Per me questi ragazzi hanno bisogno di aiuto.

Per i genitori

Tra i tanti che si occupano del fenomeno c’è Ivano Zoppi, presidente di Pepita Onlus, che spiega:

«I nostri ragazzi cercano la botta di adrenalina e noi non possiamo stigmatizzare il gesto, considerandolo fuori dagli schemi. Leggiamo il disagio tra le righe, senza avere il timore di parlare di argomenti forti con i ragazzi. Apriamo con loro il dialogo e rispettiamo i loro spazi, ma soprattutto, basta dire "non so, non sapevo, non conosco". Dobbiamo essere presenti nei momenti della loro vita in cui l'asticella viene spostata troppo avanti».

Qualche consiglio:

Parlare apertamente della questione. Non si può fingere che questi fenomeni non esistano e limitarsi a sperare che non coinvolgano mai i nostri figli o, peggio, trincerarsi dietro ad un “Mio figlio certe cose non le farebbe mai”. Spesso i genitori non si rendono conto che il tenero bambino che gli raccontava tutto è diventato un ragazzino sfuggente, sempre più condizionato dai suoi coetanei. Per questo è essenziale mantenere un dialogo aperto con i nostri figli, commentare con loro i fatti di cronaca che potrebbero riguardarli più da vicino, dare un’interpretazione che non sia semplicemente un giudizio negativo, stimolarli a ragionare sulle possibili conseguenze del seguire certe “mode” provocatorie ed estreme.

Vigilare sull’utilizzo dei social media e di internet. È controproducente impedire agli adolescenti di aprire profili sui social, che sono per loro anche un mezzo di comunicazione con i loro coetanei. La proibizione non impedisce che usino i cellulari degli amici per esplorare realtà pericolose o per postare le loro imprese. È più importante, anche qui, spiegare chiaramente i rischi legati a internet e stabilire regole chiare e condivise per il suo utilizzo. I genitori inoltre devono sempre conoscere il PIN dello smartphone (che, ricordiamolo, è una loro concessione) e le password dei profili social dei minori (il diritto alla privacy per un minorenne non vale nei confronti dei suoi tutori!), in modo da potervi accedere se lo desiderano. Eventualmente, se hanno a loro volta un profilo social, possono chiedere la connessione, oltre che al figlio stesso, anche ai suoi amici. Se si spiega ai ragazzi che non lo si fa per controllarli ma per garantire la loro sicurezza, saranno più disposti ad accettare un minimo di ingerenza.

Prestare attenzione continua ai propri figli. Osservare i loro atteggiamenti, fare caso a cambiamenti di umore e segni di sofferenza, e sollecitarli a parlare di ciò che non va, anche a costo di sembrare degli invadenti rompiscatole. Disponendosi all’ascolto, senza giudicare i comportamenti ma dimostrandosi desiderosi di comprendere anche dal loro punto di vista, i genitori possono conquistare la fiducia dei ragazzi e intervenire per tempo con azioni correttive.

In definitiva, come suggerisce lo psichiatra Vittorino Andreoli, l’arma migliore per combattere i fenomeni devianti del periodo adolescenziale, così come per risolvere molte altre problematiche, è sempre il dialogo: aperto, costruttivo, volto a spiegare ma anche a comprendere, profondamente, le ragioni che inducono certi comportamenti. Per quanto assurde ci sembrino tali motivazioni e le provocazioni che generano, è essenziale non avere mai un atteggiamento giudicante e di condanna tout court, ma cercare di capire, di ragionare insieme al ragazzo per fargli vedere, al di là degli effetti di gratificazione immediata che queste sfide sembrano comportare, quali e quanto gravi possano essere le conseguenze quando, come dice Silvia Vegetti Finzi, “il virtuale prevarica il reale”.

Antonia Caprella


Autore
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