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"Sestre" di Katarina Rešek, il giardino delle vergini giurate. Intervista alla vincitrice di Clermont-Ferrand e del Best of Festival

Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, Sestre di Katarina Rešek: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.

Raw. Non è solo il titolo del film che ha lanciato Julie Ducornau, la regista francese che ha vinto l’ultima Palma d’Oro a Cannes con Titane. È anche l’aggettivo che la cineasta slovena Katarina Rešek – conosciuta in campo musicale come Kukla – usa più volte per parlare di Sestre (Sisters), corto vincitore del noto Festival di Clermont-Ferrand a febbraio 2021 e più di recente della 20esima edizione del Best of Festival di La Ciotat. Nel festival diretto da Turi Finocchiaro, che ha luogo annualmente nella città legata alla memoria dei Fratelli Lumières, all’atto della proclamazione, vibrava in sala la stessa energia che questo corto potente, crudo, grezzo – raw, insomma – ha saputo trasmettere a giurati e spettatori. Così incontenibile, che nemmeno bastano i 23 minuti di durata: è già in cantiere il lungometraggio Fantasy, che svilupperà la storia delle tre protagoniste di Sestre.


LA TRAMA DI SESTRE

Tre sorelle, tre amiche: le sestre del titolo sono Sina (Mina Milovanović), Mihrije (Sara Al Saleh) e Jasna (Mia Skrbinac). Il contrario delle tre Grazie: tute larghe, capelli legati, maglioni in cui rifugiare petti fasciati e muscoli nervosi, le tre si allenano nelle arti marziali e si prendono cura l’una dell’altra. Nel quartiere, non è insolito che finiscano in qualche rissa. Contro ragazzi, beninteso. Loro che sono maschiacci convinti in una società patriarcale dalle regole definite. La reazione: darsi regole – dieci, come i comandamenti – ancor più ferree. Tra cui, a scanso di equivoci sulla loro natura fondamentalmente bonaria, benché aggressiva, il divieto di darsi all’alcol, roba da sballati e perdenti. Nei conflitti con i ragazzi della zona, a volte sfogati con una sana partita a basket, c’è una nuova variabile, una presenza inattesa: una ragazza transessuale. Un incontro casuale tra gli scontri.


PERCHÉ INNAMORARSI DI SESTRE

A rendere attraente l’unicità di Sestre non è né l’implicita riflessione sulla condizione della donna nella società patriarcale, né il fondo sociale per cui si è trascinati, in forza di una elegante concretezza visiva, nelle periferie della città slovena, tra i giovani, nello sballo della disco o nella noia del cemento. Sestre è un film che impatta sia per il realismo della sua energia vibrante, rissaiola, musicale, sia per la sua verve da videoclip, di luce e suono che scivolano sulla pelle giovane di Sina, Mihrije e Jasna. Col lungo che ne deriverà, si rischia una piacevole overdose di stile.


L'INTERVISTA: KATARINA REŠEK (KUKLA) RACCONTA SESTRE

ANTONIO MAIORINO: ci sono film che cominciano in situazione. Sestre fa anche di più. Il prologo, subitaneo e spiazzante, è un impetuoso flusso di pensieri tra luce rossa e voce off di una delle ragazze che recita: “Tutto inizia nella tua testa. Un milione di domande!”. Ho immaginato che anche nella tua testa ci fosse un vortice di domande nell'affrontare la lavorazione di questo film. Spesso s’intraprende un progetto artistico partendo da certezze, ma ho idea che giovi di più alla creatività porsi un dubbio da chiarire.

KATARINA REŠEK: sicuro. Per me essere certi è essere ignoranti in questo mestiere. Tutto inizia sempre con una domanda, è un’esplorazione continua. Se inizi con delle certezze, ti senti come un dio, mentre il dubbio è degli umani. Nella fattispecie, questo incipit di Sestre è frutto di un’improvvisazione organizzata sul set, quando ho chiesto a Mina d’interpretare Sina, una delle tre protagoniste. Sapevo che si sentiva alle prese con alcune questioni, proprio come il suo stesso personaggio, così le ho chiesto di provare a descrivere la sua rabbia e di spiegare la sensazione dell’aggressività. L’ho guidata verso questo tipo di risposta, perché m’interessava sapere cosa si provasse a percepire costantemente la violenza intorno.


A.M: questo è l’inizio della storia raccontata da Sestre. Quanto alla storia del film intesa come il suo concepimento e la sua vicenda produttiva nella vita reale, da dove è iniziata?

K.R: nel 2015 ho realizzato un video musicale per una band locale con tre ragazze che si atteggiavano come maschiacci (l’espressione usata dalla regista è “tomboy girls”, n.d.R.), andavano in giro con lo scooter, praticavano kickboxing. Mi piace quando c’è un inizio irrazionale, attraverso simboli, e mi sono venute in mente ragazze conosciute durante la mia infanzia che erano prigioniere della tradizione e della famiglia. Si vestivano come sorelle, uscivano tenendo per mano la madre. La loro posizione all’interno della società era già definita, non potevano distaccarsene. Persino ora, nel 2021, che le madri sono così “occidentalizzate”, questo fenomeno è molto presente nei Balcani. Mi riferisco alle cosiddette vergini giurate. Ce ne sono in Montenegro, Albania, parte della Macedonia e della Serbia. In zone dove spesso c’erano vendette di sangue tra uomini e non restavano molti maschi sul territorio, o non ne nascevano abbastanza in famiglia, si sceglieva una ragazza e la si faceva crescere come un maschio. Il più grande valore in queste famiglie patriarcali era quello di vivere come degli uomini. Ricevevano persino nomi maschili, si vestivano da uomini e ne risultavano influenzate fisicamente, finendo spesso per smettere di avere il ciclo. Alla fine, ho incrociato il ricordo di quelle ragazze-maschiaccio della mia infanzia col fenomeno delle vergini giurate e trasposto tutto in un ambiente contemporaneo.


A.M: ed è una trasposizione credibile? Ci sono, oggi, ragazze come le protagoniste di Sestre?

K.R: quello che è curioso è proprio questo. Ho scritto la sceneggiatura facendo in modo che le tre ragazze nascondessero le proprie forme nei maglioni, negassero la propria femminilità e si sottoponessero delle regole ben precise; poi, camminando per Lubiana, ho incontrato gruppi di ragazze pressoché identiche. Il confine tra finzione e realtà è piuttosto incerto. Per esplorare un fenomeno, però, hai bisogno di forzarlo, ossia di considerarlo in una situazione estrema, con regole estreme. È a questo che ho lavorato, e a cui tuttora sto lavorando per il lungometraggio che – posso dire – sarà la continuazione di Sestre.



A.M: il motore drammatico del film è nel contrasto tra le tre protagoniste e il loro ambiente. Ti sentiresti di definirle ribelli? Se sì, a cosa si ribellano in particolare?

K.R: essere ribelli significa sempre essere in qualche modo prigionieri. Quando sei estremo in qualcosa, ci sei intrappolato. Mentre cerchi di scappare da un sistema finisci intrappolato in un altro. Succede spesso. In questo caso è chiaro che le protagoniste di Sestre si ribellano in particolare alla famiglia patriarcale. Oggi la Slovenia è molto occidentalizzata e il nostro popolo è mischiato con gente dell’ex Jugoslavia, ma la nostra famiglia resta più tradizionale della loro. Le tre ragazze di Sestre cercano di scappare dalle norme di genere. Che ci sono: inutile negarlo, se hai una vagina in mezzo alle gambe la tua vita è diversa. Così facendo, però, diventano prigioniere delle loro stesse regole, che sono diverse dalle norme imposte dal loro ambiente, ma a loro volta non sono poi così sostenibili.


A.M: hai detto che le tre ragazze negano la loro femminilità. Ma si danno pur sempre delle sorelle, non si definiscono fratelli. In altre parole, ti chiedo se questa negazione del loro lato femminile non sia, in fin dei conti, una forma di autodifesa della femminilità stessa.

K.R: sicuramente. È una cosa che ho cercato di dire nel lungometraggio che sto girando. Se dovessi riassumerlo brevemente, col logline del film, la metterei così: tre ragazze-maschiaccio incontrano una transessuale che sta andando incontro a un processo di transizione per diventare donna e insegna loro, per l’appunto, come divenire donne. Questo non significa che Fantasy, la transessuale, insegni loro come truccarsi; piuttosto, fa capire loro il fatto che una donna può essere chiunque voglia essere. Per me, scappare dalla femminilità in un ambiente normativo è anche una forma di autoconservazione. Le regole stesse sono una protezione. Visivamente, nel film un corrispettivo di questa idea è nella ragazza che porta gli auricolari per un problema dell’udito: è come se stesse scappando, ma anche proteggendosi dal mondo esterno, che può essere molto invadente.


A.M: alla 20esima edizione del Best Of Festival di La Ciotat, dove il tuo corto ha trionfato, ho conversato con addetti ai lavori sulle fortune più o meno recenti della questione della parità delle donne e del female empowerment nel cinema. Alcuni mi facevano notare che talora queste tematiche sono scelte non per sincera convinzione, quanto per cavalcarne l’attuale notorietà. Come si distingue un film genuino sul tema da uno furbetto?

K.R: una volta ho parlato con un produttore su un film e stavamo discutendo di come alle volte nell’affrontare un tema delicato si abbia il timore di mancare di rispetto a qualcuno. Lui mi ha detto una cosa tanto semplice quanto risolutiva: se non lo vuoi fare, non lo fai. Quando affronti un soggetto con onestà, non può essere percepito come una strategia di marketing. Sono lieto che la questione delle donne stia riscuotendo attenzione crescente, ma dal canto mio è stata un'ispirazione sin da quando ho cominciato a fare arte. Per me la cosa più importante di Sestre era di riuscire a farne un film. Qualche tempo fa dei ragazzi a una proiezione mi hanno chiesto se fossi soddisfatta di Sestre. Naturalmente, come in tutte le cose che faccio, vorrei potermi permettere un’esplorazione più approfondita. Ma ciò non toglie che quando ho iniziato questo film, l’abbia fatto con onestà. Volevo un’opera significativa, progressista, anche un po’ cruda. E Sestre è tutto questo. La violenza che c’è è anche la violenza della mia infanzia, quindi è anche un film molto personale. E quando sei onesto, si vede.


A.M: sempre a La Ciotat, ho avuto il privilegio di assistere al momento della proclamazione della vittoria di Sestre e alla lettura delle motivazioni ufficiali. L’episodio curioso è che la giurata deputata all’annuncio, la regista Milena Bochet, non ha detto subito il titolo del film vincente, ma l’ha descritto. E ha chiesto poi agli spettatori se avessero capito di qualche opera si stesse parlando. Tutti in coro hanno risposto: Sestre! La parola chiave dell’elogio al corto è stata energia. Il film ha una sua vibrazione fisica ed emotiva molto palpabile. Qual è il segreto di questa carica energetica?

K.R: è interessante, perché non ho mai pensato a questa parola mentre giravo il corto, ma sto ricevendo tantissimi feedback con la parola energia. Ho realizzato video musicali che hanno avuto un milione di visualizzazioni, ma non ho mai fatto qualcosa come Sestre. Mentre lo fai, non sei oggettiva. Al cinema alla première, piangevo e tremavo. Quando ho visto Sestre in mezzo alla folla, ho sentito questa energia nel corpo e mi sono convinta di una cosa che penso da tempo: quando questa energia esiste in sé, tu, come artista, sei solo un medium attraverso cui si possa esprimere. Ed è stato così.


A.M: la regista lavora in squadra: c’è dunque bisogno di trasmettere questa energia anche agli altri. Diversamente, si ottengono esecuzioni meccaniche e si dissolve l’incanto del progetto iniziale.

K.R: ho messo tutta me stessa dentro questo progetto e ho avuto la fortuna di trovare persone molto simili ai personaggi che avevo pensato. È stato incredibile, come se venissero da un Truman Show. È come quando scrivi la backstory del personaggio e poi trovi nella realtà qualcuno che abbia esattamente gli stessi dettagli. È una semplice coincidenza, ma succede così tante volte che ti viene da dire: wow, ma che roba è?! Ho trascorso così tanto tempo con le attrici – che non erano professioniste, tranne una – che quando abbiamo praticato le battute per la prima volta è stato tutto naturale. Avevano un senso della sorellanza che creava tra di loro una connessione molto forte. Persino ora sono connesse. Energia è pertanto anche quella che ogni persona impiega nel progetto. Mentre lo fai non ne sei consapevole, ma poi alla fine lo vedi e lo trovi meraviglioso.


A.M: in che modo ha contribuito la musica a questo impatto dell’energia? Intendo dire, al di là delle canzoni presenti nel film. Serate annoiate, slanci di rabbia, esplosioni fisiche, riposi complici: sembra che il film sia di per sé musicale, nel senso di avere un ritmo, un movimento proprio.

K.R: sono anche una musicista, quindi è come se la musica fosse sempre con me. Parlando dello stile visivo del film, volevo che la macchina da presa fosse la quarta sorella. Similmente per il suono, non volevo che servisse solo a creare un’atmosfera o che fosse un suono diegetico (cioè incluso nella narrazione, es: come quando un personaggio ascolta una canzone; n.d.R). Volevo che il suono narrasse, che fosse un personaggio. Abbiamo scelto un post-turbo-folk dei Balcani perché ci sembrava che potesse commentare e definire dettagli dell’ambiente. Pensa che nel lungo che sto girando a partire da Sestre, questa funzione della musica sarà così enfatizzata che il risultato finale sarà un misto tra un musical e un film di finzione. E già in Sestre, d’altro canto, questo aspetto è visibile.


A.M: si pensa spesso all’impatto emozionale della musica sullo spettatore di un film, ma in realtà, immagino, per chi abbia una concezione come la tua, questo influsso sia avvertito anche dalle stesse attrici in fase di lavorazione.

K.R: il fatto è che vediamo per immagini, ma il suono è in grado di agire a un livello più subcosciente delle nostre menti. Ti mette in uno stato emozionale, e io amo lavorare con le emozioni. Da musicista conosco il potere del suono, ed è su quel piano che ho voluto lavorare. Le canzoni che si sentono nel film sono molto iconiche nei Balcani e raccontano tanto della comunità, specie sulla posizione delle donne e sui valori nel loro ambiente. Il suono entra nel corpo e lo cambia. Molte persone venute ad assistere alla prima, quando hanno visto fisicamente le interpreti, ne hanno percepito la trasformazione. Per ottenerla, abbiamo lavorato anche in questo modo: ascoltando canzoni tutto il tempo e lavorando sul corpo per fare in modo che incarnassero i rispettivi personaggi.


A.M: non posso fare a meno di pensare ai corpi di Sestre senza quel tipo di ripresa con la camera a spalla. Ne discutevo tempo fa con Belén Funes, vincitrice come migliore regista esordiente ai Premi Goya in Spagna col film La hija de un ladrón: è una scelta che non deriva solo da ristrettezze di budget, ma spesso da precisi orientamenti di stile, come la ricerca di realismo e immersione. È stato così anche per Sestre?

K.R: è vero che Sestre è anche un film low budget e che, di conseguenza, non potessimo permetterci steadycam o dispositivi più complessi, ma a prescindere da tutto questo, l’uso della camera a spalla è una scelta di base. È ciò che serve quando giri un film con scene così realistiche, dallo stile quasi documentario, con attrici che non sempre hanno lo script, ma sono introdotte alla storia gradualmente, senza sapere esattamente cosa sarebbe successo dopo. La storia si rivela sotto i loro occhi. Come ti dicevo, la macchina da presa è la quarta sorella e doveva essere dinamica, muoversi tra i personaggi. È una storia cruda raccontata in un ambiente crudo, quindi non vi poteva corrispondere una forma polita e artificiale. La forma deve essere non schiava della storia, ma di supporto ad essa, senza diventarne una traduzione formulistica. È così che la storia doveva essere vista, con questo stile visivo.



A.M: parlando ancora di stile visivo, il lavoro con le luci rivela una doppia natura di Sestre. Da un lato, le luci naturali degli esterni, l’attenzione al cielo e ai palazzi grigi; dall’altro, le forti luci artificiali degli interni, come nella scena in discoteca. Come ci hai lavorato?

K.R: nel lavoro che faccio, mi piace esplorare il confine tra realtà e magia. Quando fai un film, hai un’influenza sul mondo. In Sestre, il contrasto di cui parli è tra cosa le ragazze vedano quando vanno fuori e quando invece restano all’interno. All’esterno, soprattutto cielo e natura, ma anche posti creati artificialmente dall’uomo; all’interno, troviamo due scene con luce blu, non solo nel club dove ballano e vedono Fantasy, ma anche nella camera di Sina. È come se creassero il loro spazio artificiale che differisce dal mondo naturale. L’interno è la fantasia, ma con l’inevitabile confronto col mondo fuori ad aspettarlo. Per esprimere tutto questo, nell’editing mi sono ispirato al prologo di Belly (1998) di Hype Williams, ma anche a Fish Tank (2009) di Andrea Arnold, col suo linguaggio così naturalistico. Amo quando riesco a connettere cose che apparentemente sono diverse, mondi da far collidere per creare qualcosa di nuovo.


A.M: tendiamo a vedere le tre protagoniste di Sestre come componenti di un mondo compatto, autoconcluso, autonomo. In fase di scrittura, hai cercato di mostrare anche le differenze, oltre che le connessioni, tra i tre personaggi? E muovendo da queste sfumature, ti sentiresti di affermare che ti identifichi con una di loro in particolare?

K.R: naturalmente! Ognuna di loro ha una piccola parte di me. Le differenze nascono anche dal fatto che ogni gruppo ha le proprie dinamiche – non sempre sane, tra l’altro. Sina è la leader della banda, per cui mi serviva un’attrice dall’anergia selvaggia, incline alla rissa. Durante il casting, Mina Milovanović è stata perfetta da questo punto di vista: ho dovuto addirittura fermarla, altrimenti davvero finiva per picchiare qualcuno! Il personaggio di Mihrije sapevo dovesse essere più naïf ma nel senso buono, come lo sono le ragazze della sua età: pulita, aperta, gentile. In tanti mi hanno indicato Sarah Al Saleh come profilo. Dapprima, è apparsa come un maschiaccio, ma quando alle audizioni l’ho vista ballare, ho subito capito che fosse l’attrice giusta per me. Ho avuto la sensazione che avesse un lato profondamente gentile, e di fatto interpreterà lo stesso personaggio anche nel lungo. Per quanto riguarda Jasna, è l’unica professionista, Mia Skrbinac, e ho saputo che doveva essere lei perché aveva una storia drammatica e potente alle spalle. Dovevo darle questa opportunità perché aveva questo personaggio dentro di lei. Doveva anche essere un po’ più grande e responsabile, avere responsabilità che le amiche non hanno ancora. Le tre ragazze sono dunque simili, ma all’interno di complesse dinamiche di gruppo e con sfumature differenti. Tutto questo sarà meglio esplorato nel lungometraggio.



A.M: parlavi prima della backstory delle tre protagoniste, ossia la storia da cui viene ogni personaggio, anche se non è raccontata nel film. Ogni personaggio nasce dunque con un passato, ma non si parla mai del loro futuro, che finisce laddove s’interrompe la narrazione filmica. Io però vorrei chiederti se ti sei interrogata in merito. Le tre ragazze sono poco più che adolescenti, al più giovani adulte: è un’età che implica le proprie dinamiche psicologiche. Ti sei chiesta come potrebbero evolvere tutte e tre, oltre i condizionamenti – anche di sceneggiatura – dell’adolescenza? Vale la pena domandarlo, tanto più per il fatto che stai lavorando a Fantasy, il lungo che svilupperà la storia di Sestre.

K.R: saranno innanzitutto un po’ più grandi perché anche le attrici lo saranno, con tre anni in più. Vedi, ci sono molti film sul coming of age di ragazze disorientate; e finiscono là, tralasciando però come continui la loro storia. Crescono, d’accordo, ma sono ancora molto giovani. Negli occhi dei genitori sono ancora ragazze. E allora, che fare? Come dicevi, età diverse richiedono cose diverse. Nel lungometraggio esploreremo la loro vita all’età di 21 o 22 anni. Quando sei diciottenne, puoi fare delle cose; quando diventi più grande, ti domandi cosa farai poi. Essere un adulto non significa sempre essere liberi, ed anche se lo si fosse, non sempre si saprebbe cosa farne della libertà. Tuttavia, per me la storia di Sestre e del lungo non è strettamente legata all’età, nello stesso modo in cui, benché Fantasy sia un personaggio transgender, il film non è strettamente centrato sulla questione del genere e della sessualità. L’aspetto centrale, piuttosto, è quello dell’identità. Fantasy entrerà pienamente nel suo ruolo e introdurrà le ragazze in un mondo diverso. Quando incontri qualcuno di nuovo, è come se fosse uno specchio ambulante: spesso ci specchiamo gli uni negli altri. Allora il tuo mondo cade a pezzi, ma hai la possibilità di far nascere da quell’incontro e da quel crash qualche cosa di nuovo e diverso: qualcosa che chiamiamo futuro.


SCHEDA DEL FILM

TITOLO ORIGINALE: Sestre
TITOLO INTERNAZIONALE: Sisters
DURATA: 23’
PAESE: Slovenia
ANNO: 2020
GENERE: fiction
REGIA: Katarina Rešek
SCENEGGIATURA: Katarina Rešek (Kukla)
FOTOGRAFIA: Peter Perunović
MONTAGGIO: Lukas Miheljak
SUONO: Boštjan Kačičnik
COSTUMI: Damir Raković
TRUCCO: Špela Ema Veble
CAST: Mina Milovanović, Mia Skrbinac, Sarah Al Saleh, Tin Troha, Mihajlo Džambazovski
PRODUTTRICE: Barbara Daljavec
PRODUZIONE: A Atalanta
CO-PRODUZIONE: Nuframe, Zvokarna e Supermarket


(immagini: fotogrammi tratti da Sestre. Si ringraziano Katja Lenarčič, Barbara Daljavec e lo staff del Best of Festival di La Ciotat, in particolare Turi Finocchiaro)


Antonio Maiorino