Sole cuore amore, intervista a Daniele Vicari: "cinema vissuto per guardarsi dentro e intorno"
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Sole cuore amore, intervista a Daniele Vicari: "cinema vissuto per guardarsi dentro e intorno"

giovedì 4 maggio, 2017

Sole cuore amore: Daniele Vicari ha scelto un titolo semplice per una storia in cui rispecchiarsi. O, semplicemente, da scoprire in "una città bella e dura", Roma, col suo interland dove smarrirsi. Si trovano, invece, le due protagoniste, Eli (Isabella Ragonese) e Vale (Eva Grieco), in una storia di amicizia e solidarietà. La prima ha quattro figli e un marito disoccupato, la seconda è una danzatrice che si mantiene grazie alle discoteche: la vita è dura per entrambe. Così il regista di Diaz, intervistato da Antonio Maiorino, racconta il suo ultimo lavoro.

A.M: Sole cuore amore: hai parlato di un film semplice nelle premesse, di esistenze semplici e di quotidianità apparentemente insignificante. Allora, cosa ti ha affascinato della potenzialità di raccontare questa storia?

D.V: perché è la nostra vita. Mi ha affascinato il fatto di raccontare la nostra vita. Ci siamo troppo abituati a non vedere fino a che punto ci ha spinto la situazione storica nella quale siamo immersi. Raccontare la vita quotidiana di persone che non hanno i mezzi per arrivare alla fine del mese ci aiuta a prendere coscienza della nostra condizione. Questo, però, a patto che il racconto, i personaggi ed il mondo che si va a raccontare siano effettivamente interessanti, che ci riguardino davvero. Mi ha affascinato l’idea di un film che ci riguardi, che mi riguardi davvero.

Tutta questione di sguardi, dunque… come sempre, nel cinema. Vien da chiederti se ci sia qualcosa del tuo sguardo da documentarista che emerge in Sole cuore amore.

Io ho una necessità sempre più profonda e radicale di esplorare ciò che ci sta succedendo sul piano sociale e politico, ma anche individuale: come agisce su di noi il nostro stile di vita. La storia di Eli e di Vale, le due protagoniste, si ispira a persone che conosco e situazioni che ho visto e conosciuto, perciò riesce ad avere una presa sulla realtà, certo dovuta anche alla mia esperienza nel cinema documentario. Il film è comunque una narrazione di fantasia, capace di tenere ben presenti e con precisione i meccanismi in cui siamo imprigionati. [MORE]

A proposito di luoghi, che diventano – a volte – prigioni. Ambienti e città del cinema costituiscono spesso un personaggio aggiunto, perché anch’essi sembrano avere un’anima, un respiro. In che modo i luoghi di Sole cuore amore partecipano al film?

In maniera determinante. Nelle grandi periferie urbane dell’Occidente, non solo dell’Italia, in queste immense periferie, in quelle cose che chiamiamo interland, quasi inconoscibili e gigantesche intorno alla nostra metropoli, le persone vivono una difficoltà quotidiana. Il loro scontento spesso si volge contro loro stessi in maniera autolesionista, altre volta porta ad esplosioni di rabbia incontrollata, perché non abbiamo più idee generali o ideologie entro cui veicolare questo scontento. Il cinema non può voltarsi dall’altra parte, deve saperlo raccontare, saper guardare a luoghi anonimi, di qualunque hinterland del mondo, e mostrare tutto ciò che accade: vita e morte tra enormi difficoltà, ma anche nell’esigenza incomprimibile di godersi l’esistenza. Ecco perché i miei personaggi non sono tristi, e nemmeno gli ambienti: semplicemente, sono ambienti in cui si fa fatica a vivere.

Leggendo tra le note di regia il tuo racconto del lavoro con il cast, l’aspetto interessante che emerge è che non si è trattato solo di un lavoro progettato, bensì di un accadimento, nel senso che la collaborazione tra gli attori è stata una forma d’incontro. Ci racconteresti questa sintonia emotiva?

Questa sintonia che per forza di cosa traspare nel film, anzi, lo struttura, è frutto di un lavoro precedente alle riprese. La prima cosa che ci siamo detti con tutti gli attori è che non stavamo rappresentando dei personaggi, ma dovevamo fare lo sforzo di rappresentare delle persone. Anche qualora le scene scritte non fossero state sufficienti, avremmo dovuto costruire il racconto facendo in modo che la storia precedente delle persone pesasse nel loro presente. Abbiamo allora fatto un lungo lavoro d’improvvisazione in cui abbiamo ricostruito tutta la loro vicenda emotiva. Ci siamo messi a giocare con la recitazione: abbiamo ricostruito la prima volta in cui si sono incontrati, la volta in cui nasce il primo figlio di Eli e Mario, la prima volta in cui i due si vedono con Vale in discoteca… Anche con i bambini, che notoriamente sono attori straordinari, abbiamo guardato una televisione che non esisteva, abbiamo immaginato di vedere i cartoni animati, inventato episodi che non possono esserci nel film, ma che in qualche modo sono entrati come ricordo emotivo nelle riprese ed hanno fatto sì che gli attori avessero effettivamente un’esperienza comune. Così, quando parlano e dialogano, diventano assolutamente credibili: è la loro storia. L’improvvisazione ci è servita per dare questo aspetto di vita vissuta che permea il film.

Questa urgenza di sincerità espressiva si coniuga ad un tratto caratteristico della tua opera: una cura tecnica elevata ad un alto livello di raffinamento. Tale aspetto investe anche la colonna sonora: dal potenziale conflitto tra la musica jazz di Stefano Di Battista e quella elettronica di Valerio Faggioni, si è giunti piuttosto ad un amalgama perfetto. In che modo ed apportando cosa agli umori del film?

Di Battista ha composto la colonna sonora del film perché avevamo collaborato insieme in un lavoro basato sull’improvvisazione che ho fatto alla Scuola Volontè con gli allievi attori. Avendo lavorato su questo aspetto in varie forme, ad un certo punto ho chiesto a Stefano di darci una mano, perché il jazz è basato notoriamente su di un meccanismo affine: l’improvvisazione, benché strutturata grazie a canoni che consentono elaborazioni personali, ogni volta diverse sul palco, grazie alle diverse sensazioni dell’artista. Mi è venuto automatico chiedergli di fare la musica di questo film e Stefano è entrato perfettamente in sintonia col metodo di lavoro. Quando poi ha chiamato Enrico Rava a suonare la tromba, questi è entrato nel meccanismo con una fluidità straordinaria perché era il suo modo di lavorare, da grande jazzista. La stessa cosa vale per la musica di Faggioni. Ci sto riflettendo anche io, perché è una cosa che mi è piaciuta. Questa musica è nata dall’improvvisazione delle scene di danza: Eva Grieco ha cominciato a provare le coreografie presenti nel film con delle musiche scelte da lei. Il lavoro del personaggio di Vale si svolge nelle discoteche, quindi non poteva essere jazz. A quel punto ho avuto l’esigenza di chiedere ad un musicista di musica elettronica di interpretare queste performance ed è venuta fuori questa parte, integrativa del lavoro di Stefano, ma allo stesso tempo in continuità con quell’opera. Valerio è stato una bella scoperta, è la prima volta che abbiamo collaborato; alle proprie origini ha il jazz, ha saputo entrare bene nell’atmosfera e ci ha regalato quei due o tre momenti che costituiscono il senso del film, soprattutto del finale.

Qualche anno fa, quando ti intervistai su Diaz, mi raccontasti di un pubblico elogio di Ettore Scola al festival di Bari: disse che avevi saputo unire realtà e metafora, collocandoti in continuità con la tradizione che lui stesso rappresentava nel cinema italiano. Eppure, paradossalmente, Sole cuore amore esce in un periodo che sembra piuttosto rivalutare il film di genere, con le sue esasperazioni piacevoli, ma in cui non c’è più evasione che identificazione: penso a Smetto quando voglio di Sydney Sibilia o Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, peraltro entrambe ammirevoli. La tua opera dove si colloca rispetto alla scena contemporanea ed alla tradizione?

Quello che ha detto Ettore continua a essere impronunciabile: non lo posso dire io stesso, non sarebbe giusto, ma ho preso queste parole e le ho messe sul mio stato su Facebook perché per me valgono più di un Oscar. è un riconoscimento inaspettato ed anche probabilmente immeritato, ma mi emoziona, tanto più detto da Ettore, uno dei grandi maestri del nostro cinema. Rispetto al rapporto con la nostra cinematografia, credo possano coesistere tranquillamente film come quelli che hai citato, belli, che il pubblico ama, con film che guardano all’altro versante della storia della nostra cinematografia, ossia al Neorealismo, che ha portato l’epicità del quotidiano all’attenzione del mondo. Siamo nanetti sulle spalle di giganti da questo punto di vista, io sono un nanetto, ma una parte importante della tradizione del nostro cinema è quella, lasciarla cadere nel dimenticatoio sarebbe un grave errore. è vero che almeno in questo film ho guardato a quel cinema, a De Sica, ad Umberto D. Quest’ultimo, per esempio, è la storia di un uomo che non ce la fa a campare; è inadatto a quel mondo…

…ma ha grande dignità.

Esatto, esatto. Questa grandissima cinematografia ci dice ancora oggi che siamo così in difficoltà: “guardati dentro, guardati intorno e cerca di capire”. Un cinema che dica questo allo spettatore, ma anche allo stesso regista, è un cinema da fare, da praticare.

Infatti, sarebbe lamentevole il contrario: un’offerta cinematografica monca, disattenta a certi generi e certi filoni..

Non c’è dubbio. Quella cinematografia che muove dal Neorealismo oggi influenza tutto il mondo: basti pensare al cinema iraniano. E' un po’ paradossale il fatto che noi lo disconosciamo, questo dico; non dico che non bisogna fare altri tipi di film…

Ecco, il problema è quando non vengono fatti.

Sì, il problema è quello dei film che non vengono fatti. Questa è la questione.

USCITA: 04 maggio 2017, Italia
GENERE: Drammatico
REGIA: Daniele Vicari
CAST: Isabella Ragonese, Eva Grieco, Francesco Montanari, Francesco Acquaroli, Giulia Anchisi, Chiara Scalise, Paola Tiziana Cruciani, Noemi Abbrescia, Giordano De Plano
SCENEGGIATURA: Daniele Vicari
FOTOGRAFIA: Gherardo Gossi
MONTAGGIO: Benni Atria, Alberto Masi
PRODUZIONE: Fandango, Rai Cinema
DISTRIBUZIONE: Koch Media
DURATA: 112'

(nella foto principale: dettaglio immagine del film Sole cuore amore; all'interno: Daniele Vicari sul set, foto di Emanuela Scarpa)

 

Antonio Maiorino


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