Veleno, intervista al regista Diego Olivares: "Se la terra muore, ci sono solo  vittime"
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Veleno, intervista al regista Diego Olivares: "Se la terra muore, ci sono solo vittime"

domenica 24 settembre, 2017

Il film sulla Terra dei Fuochi: così si legge di Veleno curiosando tra sinossi ufficiali e commenti post-Venezia, dove il film è stato presentato alla Settimana Internazionale della Critica. Ma Veleno è di più, è diverso. Certo, intanto, film di "terre campane", terre di recitazione: Luisa Ranieri e Massimiliano Gallo, a interpretare una coppia di contadini, innamoratissima - anche del proprio terreno; Salvatore Esposito, con quel déjà vu di Gomorra subito fugato dall'insolito aspetto di avvocato perbene - in realtà, un gentiluomo del malaffare; Nando Paone, lo zio di famiglia, un amministratore viscido ed un parente serpente. Sullo sfondo, la terra non è un fondale, ma una culla violata, su cui incombe la mano degli speculatori, non meno della carezza di chi ancora l'ama.

Ci porta in questi territori cinematografici il regista Diego Olivares, in un'intervista approfondita su Veleno ed i suoi antidoti: partendo, per l'appunto, da cosa il film non è.

ANTONIO MAIORINO: Immagina uno spettatore scettico e un po’ distratto: legge la trama, vede il trailer e crede di trovarsi di fronte all’ennesimo film sulla camorra. Sarebbe un identikit inappropriato per Veleno: cosa diresti a questo spettatore per prospettare diversamente la tua opera?

DIEGO OLIVARES: Una bella domanda. Il problema è che è più una questione di marketing che di altro. il modo in cui proverei a farmi apprezzare dallo spettatore sarebbe quello di metterlo in sala a vedere il film, ma come portarcelo è un altro tipo di problema: la comunicazione ama procedere secondo una serie di dettami difficili da bypassare. Da regista propongo di vedere il film per capire ciò che non è. Le logiche della distribuzione mediatica fanno il loro corso, ma non mi competono direttamente.

Vedendo il film, il nostro spettatore capirebbe, come dicevi, cosa “non è” Veleno; per capire “cos’è”, si può partire da quegli accenti che differenziano il film da un ordinario “romanzo criminale”. Probabilmente il titolo è una buona base…

In effetti, l’accento che ho voluto porre su tutta la vicenda umana è quello della contaminazione. Il veleno contamina, ma non tutto nello stesso modo e nella stessa forma: contamina le piante, i corpi che fa ammalare, persino gli animi – come nel caso di Ezio (Gennaro di Colandrea, n.d.R.), che si ritrova con dei soldi in tasca ma senza un’identità che ha perso; contamina l’avvocato Caradonna nel portargli alla memoria delle sofferenze subite che aveva rimosso e che rendono anche la sua una strada apparentemente senza via d’uscita, specie allorquando tutto diventa commerciabile, compresa la terra d’origine. La stessa protagonista da fervente religiosa si contraddice affidandosi ad una santona nella speranza di ristabilire un contatto col suo uomo. È questa l’essenza del film, un’umanità contaminata da un veleno che è quello della terra, ma che forse è anche altro. [MORE]

E per raccontare tutto ciò, hai scelto soluzioni cinematografiche che lasciano affiorare “contaminazioni” di vario tipo. Anche in questo si è al di là del film di genere.


C’è il western nella struttura, c’è la sceneggiata nella sperimentazione dei sentimenti, c’è il melodramma nella storia del grande amore dei protagonisti. Ci sono tanti elementi cinematografici insieme, forse perché erano troppi anni che non facevo un film ed ho voluto mettere un po’ tutto dentro. Insieme creano l’incastro che rappresenta l’essenza del film.

Uno degli elementi chiave del western è proprio la natura. In una vicenda come quella di Veleno, tanto più si tratta di un elemento fondamentale. Come hai fatto a trasformare la natura da scenario a personaggio occulto?

C’è, perché per “natura” non intendo solo alberi, piante, laghi, che pure vediamo nel film, ma anche l’elemento umano, innestato e fuso in quel contesto. Ho cercato di stabilire un rapporto di alterità tra il personaggio e la sua terra, sia che la relazione fosse il lavorare la terra e viverne, sia che fosse il contaminarla. Da questa trama di rapporti e comportamenti scaturiscono conseguenze come la malattia, la morte, la perdita d’identità. Il panorama che emerge non divide vittime e carnefici, ma fa tutte vittime: in una storia del genere non ci sono, non ci possono essere vincitori. Si parla del violare noi stessi, del violare le radici: su questo si basa l’architettura del racconto. Quando alludevo alla struttura del western, intendevo questo: i cowboy cosa facevano? Conquistavano una terra aspra, contaminata dalla violenza. In fondo qui avviene la stessa cosa.

C’è di fatto una sorta di “contaminazione morale”: cosa avvelena l’animo dei personaggi, in potenza somiglianti a certi protagonisti di vicende di cui abbiamo letto o sentito?

Assolutamente somiglianti, tanto da essere ispirati ad un fatto di cronaca, una storia vera. Il veleno in senso morale lo vedo nella perdita d’identità del fratello e nel fatto che violando il proprio territorio si compia una atto incestuoso, come violare la propria madre. Senza svelare troppi dettagli, in certi aspetti religiosi del film c’è come la volontà di richiedere un perdono collettivo per questa violazione. Qui risiede il senso morale dei protagonisti della vicenda, ma non l’ho messo in forma di giudizio. Preferisco sempre che gli spettatori escano dalla sala senza risposte – che d’altronde non ho – ma con una domanda in più. Far scaturire una riflessione è il massimo per me.

In tema di personaggi: il ruolo dei bambini non sembra di contorno sul piano simbolico del film, pare piuttosto che ci sia stata da parte tua una sottolineatura deliberata su alcuni giovani protagonisti.

Quella dei bambini è una bellezza che ancora resiste, che dà speranza. Vanno alla ricerca di fenicotteri che però non si vedono mai, attraversano paesaggi che sono di una natura ancora lussureggiante e ci raccontano che quei paesaggi sono bellissimi, non ci sono solo le discariche ma una natura viva in cui gli aironi si fermano ad abbeverarsi. In questa chiave, nel film i bambini rappresentano un contrappunto al dolore ed un monito a quello che gli adulti ed i genitori stanno facendo.

Passando dal cast dei più giovani a quello dei “veterani”, Luisa Ranieri e Massimiliano Gallo appaiono a proprio agio nei rispettivi ruoli, che per veracità ed intensità emotiva appaiono ritagliati sulle loro caratteristiche. Nando Paone e Salvatore Esposito sembrano invece essere usciti dalla loro comfort zone: ruoli insoliti per le precedenti esperienze. Cosa hai chiesto loro?

Ho avuto la fortuna di lavorare con dei grandi professionisti, e coi grandi professionisti non si fa mai fatica. Nando ha una storia straordinaria alle spalle, sia pure nei confini della commedia e del film comico brillante. In questo caso è stata un po’ una sfida vederlo in un ruolo che non è solo da cattivo, ma che sa ispirare distanza, odio. Ha saputo immergersi in quella storia ed in quel contesto risultando credibile. Salvatore è molto più giovane, viene dall’esperienza di Gomorra ed ha tutte le carte in regola per dimostrare di essere un attore completo. Ha la capacità di spogliarsi di un ruolo che gli ha dato tanto successo per indossare i panni di un avvocato di periferia un po’ succube della famiglia, un po’ convinto di sé, un po’ guascone, un po’ depresso. È un personaggio sicuramente negativo, ma dalle mezze tinte. Non è dunque il boss senza sé e senza ma alla Gomorra, è una figura più ambigua e più contrastata.

Forse proprio perché, come dicevi, è sia vittima che carnefice…

Assolutamente per questo. In tale consapevolezza, secondo me, trova la sua fine. Se lui fosse un delinquente alla Gomorra, non compirebbe certi atti. Il suo livello di coscienza è quello che determina il suo destino.

Il tuo film è stato alla Settimana della Critica a Venezia, in una kermesse che quest’anno non ha lesinato opere di autori napoletani. Secondo te è possibile parlare di una "New Wave napoletana" prescindendo da un lato dalla generazione dei più noti – Martone, Sorrentino – e dall’altro dalla “sindrome di Gomorra” e dei suoi epigoni?


Non saprei. Ricordo che negli anni ’90 già si parlava di "New Wave napoletana", ma io credo semplicemente che ci siano stagioni più o meno fertili di una realtà produttiva come la nostra, fertile di suo, sia pure con momenti migliori ed altri più anonimi. Non parlerei di scuole o di battaglioni che si muovono compatti. Tanti film napoletani a Venezia significa semplicemente che quest’anno se ne sono fatti tanti, ma è troppo presto per storicizzare questo dato. Rientra nella fertilità culturale normalmente meravigliosa di Napoli e di questi territori in generale.

PAESE: ITALIA, 2016
GENERE: drammatico, 103'
USCITA: 14 settembre 2017
REGIA: Diego Olivares
CAST: Luisa Ranieri, Massimiliano Gallo, Salvatore Esposito, Gennaro Di Colandrea, Miriam Candurro, Nando Paone, Marianna Robustelli
SCENEGGIATURA: Diego Olivares
FOTOGRAFIA: Andrea Locatelli
MONTAGGIO: Davide Franco
SCENOGRAFIA: Antonio Farina
PRODUTTORI: Gaetano Di Vaio, Gianluca Curti, Nando Mormone
PRODUZIONE: Bronx Film, Minerva Pictures, Tunnel, Sky Italia, Rai Cinema, con il contributo del MiBACT, con la collaborazione di Film Commission Regione Campania
DISTRIBUZIONE: Altre Storie [Italia]

(Nell'immagine principale: Massimiliano Gallo, dettaglio di foto di LAURA GALLO; all'interno, Salvatore Esposito in un dettaglio di fotogramma del film)

Antonio Maiorino
 


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