"Cavalli", Marchioni ed Alhaique fratelli poco coltelli
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NAPOLI, 21 NOVEMBRE 2011 - Approda oggi nelle sale italiane l'opera prima di Michele Rho, il lungometraggio "Cavalli" tratto dall'omonimo romanzo a firma di Pietro Grossi ed in concorso alla 68esima Mostra d'arte cinematografica di Venezia nella sezione "Controcampo italiano".
Ambientata alla fine dell'Ottocento, la storia racconta di due fratelli, Alessandro e Pietro, che trascorrono l'infanzia negli Appennini, con un legame tanto stretto quanto è problematico, invece, quello col padre reticente, soprattutto dopo la prematura scomparsa della madre amorevole.[MORE] In quell'occasione, il padre regala ai due figli altrettanti splendidi puledri da addomesticare: l'inizio di una passione per i cavalli che, secondo strade diverse, segnerà le vicende dei due, fino a farne reincrociare le traiettorie da adulti, quando le loro vite parevano essersi allontanate per sempre.
Cominciamo col dire che il cinema italiano, in questo momento, oltre al "divo" Paolo Sorrentino e ad un pugno di promettenti registi - ma ancora poco per parlare di una new wave - registra la presenza di validi interpreti. Due di questi - e peraltro reduci da esperienze alla regia - sono gli attori protagonisti di "Cavalli", ossia Vinicio Marchioni e Michele Alhaique. I due fratelli sono caratteri diversi che non prendono fuoco, ma tendono a spegnere il dialogo, allo stesso tempo divaricando i rispettivi percorsi eppure riformulando l'intimità di un'intesa che non ha bisogno di parole: quasi un legame familiare che la vita dei fattori tra le montagne colora di una cupa religione del sangue.
Le montagne stesse, così come tutto il paesaggio magnificamente ritratto in una fotografia attentissima a luci ed atmosfere (Andrea Locatelli), sono più di un habitat cinematografico, diventando ora la placenta tettonica rassicurante di chi, "tra le montagne", si appresta a costruire il proprio nido di affetti; ora l'impossibile barriera, che occlude la strada alla promessa di un'avventura diversa, di un'esistenza con altri stimoli. Si tratta delle scelte contrapposte dei fratelli, ambizioni che fino agli estremi sviluppi dell'intreccio vivono nel ritmo lento della narrazione una sorta di attesa perennemente procrastinata di un rito d'iniziazione.
Ma non è tutto oro quel che luccica tra gli Appennini. Rho ha una certa maturità espressiva, una buona capacità di veduta ed una certa concisione narrativa. Cionondimeno - e la commozione non deve esentare dalla lucidità del giudizio - la storia è poca cosa, per quanto ci si possa appellare alla profondità dei silenzi ed all'evocatività dei campi lunghi. La sensazione è che nello sfrondare l'innecessario, si sia rimasti un po' all'osso. Qualche scambio di battute, più che ripiegato in una rude essenzialità sembra soffrire di raucedine espressiva; certi sviluppi del racconto hanno più frettolosità che incisività. L'affresco complessivo è gradevole, ma di respiro un po' corto. Quella che dovrebbe essere una tragedia universale sul rapporto padre-figlio, sul perdono, sulla rabbia, sulla vendetta, trova occasionali coloriture fordiane nel paesaggio drammatico, ma a livello diegetico resta nel limbo - delle sue stesse montagne - di una vicenda consumatasi troppo in fretta perchè possa bruciare sulla pelle.
Trattandosi di un'opera prima, va più che bene. Ottimo, d'altronde, anche il resto del cast, dal solido Pippo Delbono alla bellissima ed affidabile Giulia Michelini, fino alle comparsate di Asia Argento (la madre) ed Andrea Occhipinti.
Antonio Maiorino