Giornalismo come scelta civica e non come esercizio di stile. Intervista ad Amedeo Ricucci
Cronaca Emilia Romagna

Giornalismo come scelta civica e non come esercizio di stile. Intervista ad Amedeo Ricucci

giovedì 19 luglio, 2012

FORLI', 19 LUGLIO 2012 - Amedeo Ricucci è un giornalista professionista che lavora in RAI dal 1993; inviato di Professione Reporter, Mixer, TG1 e dal 2005 de La Storia siamo noi, ha seguito i più importanti conflitti che hanno segnato Paesi come l’Algeria, la Somalia, la Bosnia, il Ruanda, il Kosovo, ma anche come l’Afghanistan, il Libano, l’Iran, l’Iraq e la Palestina, la Tunisia, la Libia e la Siria.

Perché ha deciso di intraprendere la carriera giornalistica?

Perché scrivere mi era più naturale di altre possibili attività. E poi perché da ragazzo avevo subito il fascino della sahariana con cui Marcello Alessandri, famoso inviato della RAI, se ne andava in giro in mezzo alle bombe, nel Libano dilaniato dalla guerra civile. Scherzi a parte, la mia è una generazione che è cresciuta con ampi orizzonti, geografici oltre che mentali; il che mi ha portato a incanalare gli studi sulle relazioni internazionali. Dopo l’università sono finito perciò in Africa, dove ho lavorato per quattro anni per l’Onu, come addetto stampa. E da allora non ho più smesso di scrivere e di raccontare, quasi sempre dall’estero.[MORE]

Cosa significa fare oggi l'inviato in paesi segnati da vari conflitti?

Diciamo subito che, se dipendesse dagli inviati, probabilmente non ci sarebbero solo bad news, cattive notizie. Ma tant’è, il sistema dell’informazione è strutturato in modo tale da relegare ai margini le buone notizie. La guerra, poi, è la follia più gettonata, forse perché è lo specchio più fedele delle aberrazioni cui può giungere l’essere umano. Per questo è positivo che i media parlino delle guerre che si combattono in giro per il mondo. Perché prima, quando sui campi di battaglia non c’erano giornalisti, ci si scannava al riparo da occhi indiscreti e senza perciò che nessuno si indignasse di fronte a tale spettacolo. In fondo gli inviati servono a questo: a ricordarci che la guerra è una tragedia, che niente e nessuno potrà mai giustificare.

Quale ruolo ha oggi l'informazione, secondo lei?

Senza dover scomodare i grandi pensatori, penso che ognuno di noi si renda conto, nella vita di tutti i giorni, che il diritto/dovere all’informazione è un caposaldo della democrazia. Solo una informazione libera e corretta ci consente di esercitare le nostre prerogative di cittadini. Ed è un bene comune prezioso, che va difeso contro gli attacchi di chi invece preferirebbe di gran lunga il bavaglio o il guinzaglio all’informazione, con i più futili pretesti

Il suo blog si chiama "Ferri vecchi", cosa significa e perché ha deciso questo nome?

I “ferri vecchi” sono i ferri del mestiere: l’onestà, la passione, la competenza, la curiosità. Sarà pur vero che il giornalismo sta cambiando ad una velocità impressionante, soprattutto sotto la spinta delle nuove tecnologie; ma secondo me non cambiano gli ingredienti fondamentali che ieri come oggi fanno il buon giornalismo. È quello che ho voluto sottolineare quando ho deciso di aprire un blog: è vero, siamo nell’era del digitale, cambia il modo di cercare, confezionare e vendere le notizie; ma io continuo a portarmi sempre dietro la cassetta con i miei ferri del mestiere. Saranno magari un po’ pesanti, ma servono ancora.

Horacio Verbitsky affermava: "Giornalismo è diffondere quello che qualcuno non vuole che si sappia. Il resto è propaganda", cosa pensa a riguardo?

È una frase che riguarda soprattutto il giornalismo politico e sociale. E la condivido pienamente. Perché il giornalista è per definizione il cane da guardia del Potere, a cui è demandato il compito di controllare l’operato di chi ci governa o ha comunque un ruolo pubblico. Non dimentichiamoci d’altronde della lezione civile di Indro Montanelli, che non andava a cena con i politici perché altrimenti il giorno dopo si sarebbe sentito meno libero nello scrivere su di loro. In fondo è lo stesso principio. È il giornalismo inteso come scelta civica e non come esercizio di stile.

Molto spesso gran parte dei giornalisti rischiano la loro incolumità nel continuo sforzo di trovare la verità. Secondo lei, come dovrebbero essere tutelati?

Evitiamo la retorica, che purtroppo su questi argomenti è sempre dietro l’angolo. Io penso molto semplicemente che in questo mestiere l’onestà intellettuale sia d’obbligo. E questo vuol dire anche assumersi dei rischi, perché parlare di alcune realtà, oppure fare nomi e cognomi, finisce inevitabilmente per rendere un giornalista sgradito oppure scomodo. Attenzione però a creare dei falsi martiri. Come diceva Brecht: beato il paese che non ha bisogno di eroi. Quanto alla tutela, quella vera sta nella propria coscienza, umana prima ancora che professionale.

Giuseppe Fava affermava: "Io ho un concetto etico del giornalismo. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, impone ai politici un buon governo. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, le sofferenze, le sopraffazioni, la corruzione e le violenze che non è mai stato capace di combattere". È d'accordo?

Confesso che i paroloni mi mettono soggezione. Anche perché non sempre aiutano a capire. Io mi limito a raccontare quello che vedo, senza caricarlo di troppi significati. Lo faccio nel rispetto degli altri – o almeno ci provo – e con la convinzione che il mio lavoro deve rendere un servizio all’opinione pubblica, che ha il diritto di sapere. Tutto qui.

Giulia Farneti


Autore
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