Se Karzai (e gli U.S.A.) riabilitano i taleban
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Se Karzai (e gli U.S.A.) riabilitano i taleban

lunedì 29 ottobre, 2012

KABUL (AFGHANISTAN), 29 OTTOBRE 2012 – La notizia era nell'aria già da molto tempo, con i primi rumors registrati già tra il 2009 ed il 2010. Adesso però è arrivata la conferma direttamente dal presidente afghano Hamid Karzai, che lo scorso 25 settembre ha chiesto alle Nazioni Unite di cancellare i nomi dei leader taleban dalla “blacklist” antiterrorismo, al fine di poter avviare gli accordi di pace che pongano fine alla guerra afghana.
«La nostra mano per la riconciliazione rimane tesa non solo per i talebani ma anche per i membri di tutti i gruppi armati che desiderano tornare ad una vita degna, pacifica ed indipendente nella loro terra» ha detto il presidente, il quale ha chiesto «semplicemente ai nostri interlocutori di mettere fine alla violenza, rompere con le reti terroristiche, conservare le conquiste dell'ultimo decennio e rispettare la Costituzione».

Che la si chiami “trattativa di pace”, “resa”, “sconfitta” o in qualunque altro modo una cosa è certa: senza gli studenti delle scuole coraniche nessun Afghanistan è possibile se non quello caotico che ha rappresentato la storia recente del Paese trasformando la campagna americana – denominata “Enduring Freedom” - in un pantano simile, e per certi versi peggiore, di quel che fu il Vietnam tra il 1960 ed il 1975.
Al di là delle dichiarazioni rimane da capire se il ruolo a cui i taleban sono destinati nel nuovo Afghanistan sarà solo nel o, in un ritorno al passato, di potere. Ammettendo che negli anni del conflitto lo abbiano effettivamente perso, quel potere.
Perché se una cosa è certa, nell'attuale instabilità afghana, è che il governo non sarebbe assolutamente in grado di reggere il paese in autonomia, anche a causa del crollo di credibilità dovuto alla frode elettorale delle elezioni presidenziali e parlamentari del 2009 e 2010 il cui trend continua ad essere negativo.[MORE]

L'accordo di Doha. Sarebbe ingenuo pensare che le dichiarazioni di Karzai arrivino dal nulla o da una estemporanea consapevolezza personale. L'annuncio dell'apertura dei negoziati di pace – o della sconfitta per le forze della coalizione, a voler leggere il rovescio della medaglia – arriva a negoziati già avviati.
Scenario delle trattative è il Qatar, ormai proiettato ad un ruolo di primo piano nelle relazioni finanziarie, economiche e geopolitiche mondiali (tanto che il sessantenne emiro Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, noto anche come “l'Henry Kissinger arabo” può permettersi di ”acquistare” le banlieue, dando vita ad un precedente di delocalizzazione politico-economica tanto interessante quanto inquietante).

Uno dei punti fondamentali sui quali si basa “l'accordo di Doha” è la scarcerazione di cinque leader taleban detenuti “di alto livello” a Guantánamo Bay dal 2002 (la lista completa dei detenuti è stata scandagliata dal giornalista investigativo britannico Andy Worthington, che ne ha fatto poi un libro dal titolo The Guantánamo Files”) che hanno accettato il trasferimento in Quatar in condizioni meno restrittive e con la possibilità di poter vedere i propri familiari. In più, agli afghani passerà il controllo del carcere di Parwan (nella base di Bagram) quando le forze statunitensi si ritireranno nel 2014, anno in cui dovrebbero terminare i lavori per il gasdotto TAPI.
Alla base del rilascio – passaggio obbligato in qualunque trattativa di pace degna di tal nome – ci sarebbe la necessità di far passare il messaggio che ormai i taleban ed Al Quaeda hanno preso strade diverse, unica exit strategy utilizzabile dagli Stati Uniti per non dover ammettere che dall'Afghanistan le forze della coalizione andranno via con la coda tra le gambe, avvalorando la tesi di chi in questi anni ha visto nell'Afghanistan un nuovo e forse peggiore Vietnam.
Per questo gli americani avrebbero proposto una spartizione del territorio afghano: a nord rimarrebbe alta la bandiera a stelle e strisce – presumibilmente con un governo-fantoccio come quello attuale – mentre a sud verrebbe nuovamente imposta la legge degli “studenti”, i quali però hanno opinione molto diversa su eventuali spaccature e protettorati americani.

La linea sottile tra amico e nemico. A sud – seppur in territorio pakistano – c'è il Waziristan, dal quale arriva una delle problematiche principali alla soluzione pacifica: il clan pashtun degli Haqqani, inserito nelle scorse settimane proprio in quella famosa lista nera con accuse di estorsione, rapimento e traffico di droga tanto da essersi aggiudicati l'appellativo di “mafia” nonché di una serie di spettacolari attacchi a Kabul contro le forze statunitensi, di cui è noto il passato finanziato dagli americani in funzione anti-sovietica insieme all'altro warlord senza il quale nessuna trattativa di pace può essere intavolata: Gulbuddin Hekmatiar, titolare del brand terroristico dell'Hizb-e-Islami. Proprio dalla famiglia Haqqani potrebbe provenire uno dei volti nuovi del novo Afghanistan talebano, quel Sirajuddin – figlio del capofamiglia Jalaluddin e tra i leader della Shura di Quetta, erede del vecchio governo talebano – che sta attualmente svolgendo un ruolo di intermediazione del quale dovrà e vorrà essere ampiamente ricompensato.
La decisione americana di inserire gli Haqqani nella lista non è però stata affatto gradita dalle alte gerarchie pakistane le quali – in un modo o nell'altro – avranno un ruolo importante nel facilitare o meno il processo di riconciliazione afghana.

Bye bye Karzai. Chi un ruolo importante nel nuovo Afghanistan non lo avrà è invece l'attuale presidente Hamid Karzai, mai amato dai taleban e scaricato ufficiosamente dagli americani per bocca del Segretario della Difesa Leon Panetta, che ha recentemente dichiarato come l'attuale presidente afghano debba ringraziare gli Stati Uniti piuttosto che criticare la scarsa determinazione statunitense nel combattere il terrorismo sul versante pakistano e l'inadeguato flusso di armi inviatogli per combattere gli insorti e per le quali Karzai starebbe rivolgendosi a Cina e Russia.

Malumori nel Consiglio di Sicurezza. È proprio quest'ultima, in questo clima di “riappacificazione”, a cantare fuori dal coro, non vedendo di buon occhio la cancellazione dei nomi dalla blacklist sia perché alcuni di quei nomi hanno fatto parte della resistenza dei mujaheddin ai tempi della tentata invasione sovietica del 1979 sia per il supporto dato dagli afghani alla resistenza cecena.

[1 - Continua]
(foto: journalism.co.uk)
Andrea Intonti [http://senorbabylon.blogspot.it/


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