Il Giorno del Ricordo: l'orrore delle foibe e il dramma dell'esodo istriano
Cronaca Toscana

Il Giorno del Ricordo: l'orrore delle foibe e il dramma dell'esodo istriano

venerdì 10 febbraio, 2012

FIRENZE, 10 FEBBRAIO 2012- “Nel 1945 io e Kardelj fummo mandati da Tito in Istria. Era nostro compito indurre tutti gli italiani ad andar via con pressioni di ogni tipo. E così fu fatto.” Queste parole furono pronunciate da Milova Gilas, stretto collaboratore del Maresciallo Josip Broz Tito, durante un’intervista concessa a “Panorama” nel 1991. Sugli eccidi compiuti dai partigiani comunisti jugoslavi ai danni della popolazione italiana della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia non è mai facile parlare.

Il Giorno del Ricordo è stato istituito con la legge n. 92 del 30 marzo 2004. Nel testo si legge: “La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale "Giorno del ricordo" al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. La presa di posizione da parte delle istituzioni italiane ha rimediato al colpevole silenzio su una triste pagina di storia durato cinquant’anni ma ha innescato un turbine di polemiche, oltre che in Slovenia e Croazia, anche in Italia. Le convinzioni politiche, le guerre di cifre e i tanti anni trascorsi hanno contribuito a rendere le foibe un argomento tabù prima, e un accanito motivo di dibattito poi, tra istanze revisioniste e tesi negazioniste o riduzioniste.

Il confine orientale era stato dopo la Grande Guerra al centro del mito della “vittoria mutilata”dannunziana con l’occupazione dei legionari della città di Fiume e l’instaurazione della cosiddetta “Reggenza del Carnaro”, interrotta dalle cannonate de Regio Esercito italiano nel “Natale di sangue” del 1920. Dopo i Trattati di Rapallo(1920) e di Roma (1924), il fascismo “di confine” mostrò negli anni 20’ e 30’ tutta la sua durezza. Oltre ai bersagli politici comuni in tutta Italia, l’obiettivo degli squadristi fu la minoranza slava (fra gli episodi violenti, ci fu l'incendio del Narodni dom "Casa nazionale slovena" di Trieste compiuto dai fascisti nel corso di una manifestazione antijugoslava). Mussolini, in un discorso a Pola nel 1924, rese bene la sua idea sulla questione orientale aizzando la folla con queste inequivocabili parole “Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani “. Negli anni del regime fu introdotta una politica di assimilazione delle minoranze etniche e nazionali, che comportò l'italianizzazione di nomi e toponimi, la chiusura delle scuole slovene e croate, il divieto dell'uso della lingua straniera in pubblico. Una “bonifica etnica” intrisa di razzismo che esasperò notevolmente le tensioni tra italiani e slavi di quelle terre.

Nel 1941 l’invasione da parte delle Forze dell’Asse della Jugoslavia registrò numerose rappresaglie ed eccidi di interi villaggi con l’intento di stroncare il movimento partigiano nonché l’internamento di civili innocenti (donne, anziani e bambini) in campi di concentramento (tristemente noto quello di Arbe). Le truppe italiane e gli ustascia di Ante Pavelìc (collaborazionisti filofascisti croati che si accanirono in particolar modo su ebrei e serbi) si macchiarono di gravi e atroci crimini nei confronti della popolazione slava. [MORE]

Con l’armistizio dell’8 settembre ha inizio la mattanza da parte dei partigiani comunisti di Tito: improvvisati tribunali, che rispondevano ai partigiani dei Comitati popolari di liberazione jugoslavi, emisero centinaia di condanne a morte. Le vittime furono non solo rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, ma anche semplici personaggi in vista della comunità italiana e potenziali nemici del futuro Stato comunista jugoslavo che s'intendeva creare. Lo scopo di Tito era evidente: allargare i confini jugoslavi fino alla linea dell’Isonzo. Secondo le stime più attendibili, le vittime del periodo settembre-ottobre 1943 nella Venezia Giulia, si aggirano sulle 400-600 persone. In Dalmazia, fra Spalato e Traù, i partigiani massacrarono 134 italiani, compresi agenti di pubblica sicurezza, carabinieri, guardie carcerarie ed alcuni civili.

Questa prima ondata di pulizia etnica del 1943 da parte dei titini, si registra in un periodo relativamente breve, costellato, però, da crimini efferati. Orribile la storia di Norma Cossetto. Studentessa universitaria di 23 anni, figlia di possidenti fascisti, fu arrestata da una banda di partigiani comunisti slavi il 27 settembre 1943. Tra il primo e il 4 ottobre Norma, legata nuda ad un tavolo, fu barbaramente picchiata e stuprata dai suoi carcerieri. In seguito, con altri ventisei prigionieri, legati col fil di ferro, fu costretta a spostarsi a piedi fino a Villa Surani dove fu gettata viva in una foiba (inghiottitoio carsico tipico della Venezia Giulia). Dopo l'occupazione tedesca dell'Istria, il 10 dicembre 1943 i vigili del fuoco di Pola, ritrovarono i resti del corpo di Norma nella foiba: aveva ambedue i seni pugnalati, un pezzo di legno conficcato nella vagina e altre parti del corpo sfregiate. I soldati tedeschi (che di certo non potevano impartire lezioni di umanità) catturarono sedici dei suoi assassini e li costrinsero a trascorrere la notte in piedi vegliando la salma di Norma, prima di essere fucilati all'alba del giorno successivo: tre partigiani ammattirono. L'Università di Padova, ha conferito alla giovane vittima la laurea ad honorem in Lettere e Filosofia nel 1949. L'8 febbraio 2005 l'allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha insignito Norma Cossetto della Medaglia d'oro al merito civile.

Nella primavera del 1945, con la sconfitta dei nazisti e dei repubblichini, i titini diedero il via alla seconda ondata di violenze. La IV Armata jugoslava, puntò verso Fiume, l'Istria e Trieste. L'obiettivo era di occupare la Venezia Giulia prima dell'arrivo degli alleati, per mettere quest’ultimi di fronte al fatto compiuto. L'OZNA, la polizia segreta jugoslava ebbe il compito di arrestare i membri del CLN (Comitato di Liberazione nazionale) e delle altre organizzazioni antifasciste italiane nonché tutti coloro che avrebbero potuto opporsi alla futura annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia. Nella città di Fiume dal maggio 1945 fino al 31 dicembre 1947 furono uccise 652 persone, a cui va aggiunto un altro imprecisato numero di vittime. Si verificarono massacri in tutta la Venezia Giulia. Tra questi ricordiamo don Francesco Bonifacio, torturato e assassinato (il suo corpo non è mai stato ritrovato), fu dichiarato martire "in odium fidei" dalla Chiesa, ed è stato beatificato nel 2008. I sacerdoti assassinati in quei giorni furono molti, gettati nelle foibe con una corona di filo di ferro in testa. A Gorizia e Trieste i massacri cessarono solo con l'arrivo degli alleati il 12 giugno: si riscontrò l'uccisione di diverse migliaia di persone, molte delle quali gettate vive nelle foibe.

L’infoibamento fu solo uno dei modi (e tra l’altro non il più diffuso come, erroneamente, si pensa) con cui vennero uccise le vittime dei partigiani di Tito ma nella cultura popolare divenne il simbolo del massacro. Spesso veniva gettato nella foiba e sopra ai cadaveri un cane nero vivo, che, secondo la leggenda popolare dei Balcani, latrando in eterno avrebbe tolto alle vittime la pace dell'aldilà: una macabra manifestazione di odio anche dopo la morte. Furono pochissime le persone che riuscirono a salvarsi risalendo dalle foibe, tra questi Graziano Udovisi (di cui riproponiamo un'intervista concessa al “Tg 1 Storia”). Altra tremenda modalità di esecuzione era quella di annegare in mare le vittime legandoli a dei macigni (pratica fortemente in uso nello zaratino e nella Dalmazia meridionale).

Come detto la ferocia titina non si abbatté solo su fascisti e militari o su personaggi compromessi con il regime. Furono uccisi e deportati molti esponenti antifascisti, membri del CLN, che ebbero la sola “colpa” di essere italiani. Tra questi figurano Licurgo Olivi del Partito Socialista Italiano e Augusto Sverzutti del Partito d'Azione (quest’ultimo “scomparso” nel nulla dopo il suo arresto compiuto dai partigiani) entrambi punti di riferimento del CLN di Gorizia. La macchina di morte di Tito non risparmiò gli sloveni e i croati anticomunisti come Ivo Bric di Montespino (Dornberk), antifascista cattolico ucciso con la famiglia il 2 luglio 1943 e Vera Lesten di Merna e la poetessa e antifascista cattolica, uccisa nel novembre del 1943 . Una quantificazione precisa delle vittime è impossibile a causa di una generale mancanza di documenti.

Accanto all’orrore delle foibe si sviluppò il dramma dell’esodo. Una prima fase si verificò dopo l'armistizio del 1943 e vide protagonisti soprattutto funzionari e collaboratori del regime fascista, per questo motivo fu chiamato l’esodo nero. Dal maggio del 1945 iniziò l'esodo massiccio, spontaneo e non organizzato degli Italiani d'Istria e di Fiume. Dal 1943 al 1954 si moltiplicarono gli esuli che decisero di abbandonare le loro terre natie per sfuggire alla persecuzione slava. Il Ministero degli Esteri italiano ha stimato che gli esuli furono fra i 250.000 circa e i 270.000, altri dati ne indicano addirittura 350.000.   I profughi non furono accolti a braccia aperte dall’Italia, la nazione cui appartenevano e che avevano tanto amato. La nuova Italia, che tentava di rialzarsi dopo il disastro bellico, considerava un problema quasi imbarazzante la questione orientale. L’ignoranza, la superficialità e la diffidenza accompagnarono l’inserimento e l’adattamento degli esuli alla nuova realtà, molti di loro costretti a vivere per anni in alloggi di fortuna, furono respinti dall’opinione pubblica italiana (a un treno carico di esuli, a Bologna, gli operai impedirono di portare qualsiasi genere di conforto, considerando i profughi, poiché fuggivano dalla Jugoslavia comunista di Tito, dei fascisti).

Nello scacchiere della Guerra Fredda la ribellione di Tito nel 1948 a Stalin e la sua posizione di leader dei “paesi non allineati” impose ad un arrendevole Stato italiano (che divenne membro della Nato nel 1951) di non calcare troppo la mano, chiedendo la punizione dei responsabili degli eccidi e avanzando richieste territoriali, nei confronti della Jugoslavia comunista ma non filosovietica. Il Partito Comunista italiano minimizzò e giustificò gli avvenimenti, condannando gli esuli per essere scappati dal “paradiso” comunista slavo. Questo atteggiamento (dettato anche da un fermo internazionalismo che mascherò il disagio del P.C.I per la questione orientale) contribuì, ingiustamente, ad etichettare i profughi come “fascisti in fuga”.

I Trattati di pace di Parigi (1947), il Memorandum di Londra sulla questione di Trieste (1954) e il Trattato di Osimo (1975) risolsero definitivamente dal punto di vista diplomatico il dramma orientale delineando i sanguinosi confini della discordia, senza cancellare l’incubo vissuto da migliaia di italiani.

Davide Scaglione

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