Da Benvenuti al Sud a Un boss in salotto, intervista a Luca Miniero: "Il mio cinema popolare"
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Da Benvenuti al Sud a Un boss in salotto, intervista a Luca Miniero: "Il mio cinema popolare"

domenica 5 gennaio, 2014

Dalla pubblicità, all'approdo al cinema ed alla collaborazione con Paolo Genovese; dal successo di Benvenuti al Sud e Benvenuti al Nord, al recente Un boss in salotto, film più visto di Capodanno. Intervista a Luca Miniero: come ridere della camorra, il fenomeno Zalone, la rivolta contro la dicotomia commedia\cinema d'autore. 


È inevitabile partire dal successo di Benvenuti al Sud e Benvenuti al Nord. Ma non è una scelta mia: il tuo film parte da una citazione di Troisi ed ancora si sofferma sulla contrapposizione Nord\Sud. Parte, però: ed arriva altrove, entro uno scenario rinnovato, secondo una linea tematica portante d’altro tipo.


L. M: Più che raccontare la trama, mi piace dire quello che hai detto tu: il film parte da questa contrapposizione, la usa a pretesto, ma a va al di là della lettura superficiale. Farà molto ridere, ma nello stesso tempo, in qualche modo emozionerà. Me l’hanno confermato le proiezioni che ho visto, sennò non lo direi. È un film che a me piace, non è scontato. Nei film precedenti c’era sempre qualcosa che non mi convinceva, anche nel famoso Benvenuti al Sud, ma questo è un film che a me piace molto, mi dà il senso di essere una commedia anche un po’ diversa, senza presunzione. Se uno si aspetta di andare a vedere Zalone e ridere sempre, il “fenomeno Zalone”, questo non è il film è adatto. Ma è un film moderno, mi piace molto: mi permetto di fare questa esaltazione perché ci credo molto. [MORE]

In Un boss in salotto ci sono molti stereotipi che vengono fatti saltare, esplodere con una miccia comica. Il personaggio di Paola Cortellesi, originaria del Sud ma volontariamente “nordizzatasi”, è significativo in questo senso. Soprattutto, fa pensare ad una domanda: sono più pericolosi gli stereotipi che ci assegnano gli altri, o quelli in cui c’ingabbiamo noi stessi costruendoci false identità? Che idea ti sei fatto a partire dalle situazioni innescate dal tuo stesso racconto?

L. M: Il film in effetti gioca con due stereotipi ma li capovolge. Gli stereotipi, anche nella vita, ci servono per orientarci, ma poi vanno dribblati. Quello di Paola Cortellesi corrisponde ad un personaggio verissimo: la donna che va al Nord e si scorda che è napoletana, che è meridionale, rinnega le proprie origini. In realtà non sono napoletani, sono di un paese immaginario vicino Napoli, per giustificare l’accento di Rocco Papaleo che mi piaceva avere così sporco, quasi materano. Lui è di Lauria, mi piaceva che mischiasse il campano col napoletano. Lei è un personaggio di questo tipo, molto comune: io sto da tanti anni a Milano, e quanti ne ho incontrate di persone che… la pastiera in casa è un delitto, che devono fare le raffinate, che devono fare le nordiste. L’altro luogo comune che il film capovolge è che purtroppo la camorra non è soltanto “cosa nostra”, cioè del Sud: nel film credo che sia questo il messaggio più forte, purtroppo la camorra c’è perché c’è gente che ha una mentalità che la fa vincere. Questa gente può stare anche al Nord. Questo è secondo me il luogo comune, vengo accusato spesso che nei miei film ci siano luoghi comuni, ma io ci gioco per capovolgerli, e lo faccio anche nella mia vita. 

Si può pensare alla regia come alla buona direzione d’attori, o in senso più tecnico riferendosi all’estro ed alla tecnica nei movimenti della macchina da presa. Ne parlavamo con Carlo Buccirosso, che diceva di propendere per la prima concezione, specie perché viene dal teatro, e di considerare Paolo Sorrentino come perfetto esempio della seconda. Lo spunto è buono per chiederti quanto siano stati funzionali agli attori per una storia come quella raccontata da Un boss in salotto, che non è solo una commedia di battute, ma di situazione, con uno spazio “scenico” che mette a confronto gli interpreti.

L. M: In effetti penso che gli attori siano il 70 per cento del film, soprattutto questi attori così bravi: li devi lasciare liberi, è chiaro, con una struttura, con indicazioni, con un copione. Ma sul set le improvvisazioni non sono mancate, a me piace incoraggiarli. Poi qualcosa si butta, qualcosa resta. È stato così anche con Siani e con Bisio nel film precedente. Quando hai attori di questo tipo, come Siani, come Bisio, come Papaleo, Paola, Angela Finocchiaro, anche Ale e Franz (soprattutto Ale, Alessandro Besentini, che ha un ruolo più grande nel film, è straordinario), un po’ li devi pure lasciar stare, ti arriva quella battuta che la magia del set ti suggerisce e che poi in montaggio lasci perché è la strategia vincente. Ma ci vuole una costruzione narrativa ben scritta, sennò diventa un casino. Questo per me è il cinema, ma non è solo direzione di attori: c’è anche il movimento della macchina da presa. Ovviamente Sorrentino è il maestro in questo senso. Io vengo dalla pubblicità, mi piace che gli attori si muovano e la macchina da presa li segua senza fronzoli. Non mi piace il cinema statico, pur con grandi attori: la recitazione è azione, quando parli magari stai facendo un caffè, non stai solo lì fermo a parlare. Questo mi piace del cinema in generale, sennò, appunto, preferisco andare al teatro. 

Da un episodio de L’oro di Napoli con Totò che aveva il guappo malavitoso in casa, a quel Johnny Stecchino che tu stesso citi, di malavita e dintorni si è parlato variamente al cinema: ma con prudenza, e difficoltà anche maggiori nella commedia. Come ti sei mosso su questo terreno insidioso, ossia quello della camorra in un contesto comico?

L. M: Il terreno è minato: io lo faccio in commedia, ma penso che si possa ridere di queste situazioni così disgraziate. Questo non vuol dire che io non sappia che la camorra sia un cancro per la crescita di questo paese. Non è un’apologia della camorra. Non è neanche un dire “la camorra è cattiva”. Qua si tratta semplicemente di dire che in effetti la camorra è forte perché c’è una mentalità anche se uno non spara, comunque è figlio di quella mentalità è può stare al Nord, al Centro o da qualsiasi parte. Basta dire che la camorra sta a Napoli e che noi soli siamo i camorristi, io non credo che questo fenomeno e qualsiasi delinquenza si possano diffondere nel Paese se non ci sta qualcuno che aiuti a diffondere. I soldi, poi, sono al Nord. Penso che in effetti purtroppo ci sia stata – se vogliamo parlarne seriamente, ma questa è una commedia – una collusione in una parte negativa del nostro Paese, per cui si sono verificati fenomeni delinquenziali: le responsabilità stanno da tutte e due le parti, non c’è un Sud cattivo ed un Nord buono, come non c’è un Nord cattivo ed un Sud buono. Questo l’ho un po’ detto anche in Benvenuti al Sud, il film mostra che c’è anche uno stile di vita diverso in un piccolo paese. Qui parliamo più di Napoli, di camorra, ma con un personaggio che non vuole mancare di rispetto, come lo ha fatto Johnny Stecchino, come ha fatto Toto’ ne L’oro di Napoli, senza la grandezza di questi film, ovviamente. Questo è per dire che in tanti film temi seri vengono trattati con sorriso ed ironia senza mancare di rispetto a nessuno: questo è il caso di questo film. 

Anche un film come La mafia uccide solo d’estate di PIF, Pierfrancesco Diliberto, si è preso i suoi rischi in questo senso. Ma restiamo a te: dai tempi di Incantesimo napoletano e della collaborazione con Paolo Genovese, cosa è cambiato per Luca Miniero, nell’espressione e negli orizzonti? Qual è la tua novità personale del decennio?

L. M: È sempre difficile parlare di sé, e francamente non sono una persona presuntuosa, anche se rispondendo alle tue domande posso sembrarlo. Tutti quanti migliorano, ma quello che ho notato nel mio percorso è che molti crescono, fanno le cose da ridere per poi passare ad un cinema più serio, quasi a rinnegare le proprie origini, come il personaggio di Cristina. A me non interessa, io voglio sempre fare un cinema popolare, perché sono convinto che popolare non voglia dire sciocco o deficiente. Continuerò a fare un cinema popolare e non me ne vergogno. Tutti mi chiedono: vorrai fare un film drammatico, un film d’autore? Io penso che si possa essere d’autore anche facendo una commedia semplice, a volte la fai meglio, a volte la fai peggio: il problema è l’intenzione che c’è dietro. A volte i critici non ti capiscono, il pubblico non ti capisce. Ma l’importante è avere una missione, un percorso: e la mia missione non è di rinnegare gli inizi, che erano quelli della commedia, ma di riuscire a portare a più gente possibile le intuizioni che c’erano in un piccolo film come Incantesimo napoletano.

Vien naturale, allora, parlare della commedia italiana in generale, considerando che hai avuto modo di citare anche Zalone…

L. M: Zalone è un grande, voglio precisare!

Ha ottenuto grandi risultati ai botteghini, così come Un boss in salotto è stato il film più visto a Capodanno. Ma commedia italiana e "commedia all’italiana", con cui si etichetta la produzione degli scorsi decenni, non sono esattamente la stessa cosa…

L. M: Basta con la commedia all’italiana, per quanto sia stata una grande stagione. Bisogna trovare delle strade nuove. Non è sempre facilissimo, ma io credo che negli ultimi anni questa direzione sia stata presa. Tu citavi La mafia uccide solo d’estate. Non è una commedia forse, ma ha dei totni che sono diversi dal classico cinema d’autore di una volta. Di film così se ne possano citare diversi: io cito Zoran il mio nipote scemo di Matteo Oleotto, un piccolo film, ma anche Spaghetti story, altro piccolo film di un autore napoletano. Io penso davvero che dietro questi a cinepanettoni, e ci metto pure la mia cinepastiera, ci sia un movimento, un cinema che cerca nuove strade. La commedia non è la parente povera del cinema d’autore, bisogna smetterla con questa dicotomia cinema d’autore\commedia, e cercare delle vie nuove, delle vie originali. Ma non si può pensare che tutto sia originale, tutto sia nuovo. È chiaro che devono esserci anche delle commedie più tradizionali e più semplici per raggiungere un pubblico natalizio. Nel complesso io penso che in effetti gli incassi anche degli altri film ci diano ragione, inutile stare sempre a sputare sul nostro cinema. Ci sono buone soluzioni. Secondo me il problema è più politico, bisogna iniziare ad esportare il nostro cinema fuori, e per questo occorrono non solo buoni film, ma anche un sistema distributivo più forte. 
 
(foto in alto: dettaglio di fotogramma da Un boss in salotto; all'interno, Luca Miniero sul set)

A cura di Antonio Maiorino
Si ringraziano Rino Talente e Giosuè Vittorioso di Radio Stereo 5 


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