El Father Plays Himself, c'eravamo tanto filmati. Intervista a Mo Scarpelli: io, tra padre e figlio
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El Father Plays Himself, c'eravamo tanto filmati. Intervista a Mo Scarpelli: io, tra padre e figlio

giovedì 14 maggio, 2020

Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, El Father Plays Himself di Mo Scarpelli: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.

Una perla nella giungla. Al festival Visions du Réel 2020, evento chiave su scala mondiale del cinema del reale, la Menzione Speciale nella Competizione Internazionale va al documentario El Father Plays Himself, con cui la regista italo-americana Mo Scarpelli racconta gli intrighi emozional-professionali sul set del film Fortaleza. All’opera terza, dopo essere stata in Afghanistan sulle orme di quattro reporter (Frame by Frame) e in Etiopia negli occhi di un bambino di dieci anni (Anbessa), Mo Scarpelli sceglie una sfida, se si vuole, persino più difficile. In Venezuela, tra Caracas e l’Amazzonia, decide di perdersi (e ritrovarsi) in un gioco di specchi sul set del film Fortaleza: riprende il regista che riprende l’attore. Con l’intrigo che si complica: perché attore e regista sono padre e figlio. Ed hanno un po’ di grovigli emotivi da sciogliere.


LA TRAMA DI EL FATHER PLAYS HIMSELF (QUI IL TRAILER)

Per girare Fortaleza, Jorge Thielen Armand torna in Venezuela, il Paese che aveva precocemente lasciato e che ora stenta a riconoscere. Ha un contrattino in mano: per il padre\protagonista Jorge Roque Thielen, di cui vuole volgere in film di finzione l’avventuroso passato nelle miniere illegali della giungla amazzonica. Ma l’avventura è filmare. L’“attore”, ogni tanto, fa le bizze (complice un goccio d’alcol), e il rapporto emozional-professionale tra figlio e padre ha più di un antico nodo da sbrogliare. Mo Scarpelli s’installa sul set di Fortaleza e cerca di mettere a fuoco il rapporto tra questi due che non sanno parlar d’amore. Diventa un gioco di specchi: il making of di un recupero emotivo attraverso la lente del cinema.


PERCHÉ INNAMORARSI DI EL FATHER PLAYS HIMSELF

Non è tanto il fatto che durante l’intervista venga fuori un’altra curiosa complicazione: il regista Jorge è il fiancè della contro-regista Mo Scarpelli. Il frame by frame di Mo affascina nel sapersi muovere sia tra i cocci di un rapporto da ricomporre, sia tra i fotogrammi di un film da girare, annodando il c’eravamo tanto amati col c’eravamo tanto filmati: l’intenso lavoro di scavo emozionale si fa tutt’uno con una riflessione sui meccanismi di rappresentazione cinematografica, sul labile confine tra reale e finzione. Impattano gli scambi nervosi sul set, le deflagrazioni tra padre e figlio, i paesaggi del Venezuela che diventano estasi dopo la sfuriata e raccoglimento prima dell’ennesimo ciak. E il padre, che interpreta sé stesso, diventa qualcosa in più di un personaggio indimenticabile: una persona indimenticabile.


L’INTERVISTA: MO SCARPELLI SI RACCONTA

ANTONIO MAIORINO: una recensione dell’Hollywood Reporter di El Father Plays Himself parla di te come di una regista con una predisposizione al “cinema ibrido”: il confine tra documentario e finzione, in effetti, sta diventando sempre più sottile. Si tende a parlare più genericamente di cinema della realtà; si afferma, sia da parte di critici che di registi, che la distinzione non ha senso perché sia il documentario che la finzione appartengono al comune territorio del “cinema”. La pensi anche tu così?

MO SCARPELLI: Rispetto molto il lavoro di quanti sostengono che questa distinzione sia irrilevante, per esempio Roberto Minervini. Allo stesso tempo, questo film mi riporta molto all’idea di “cinema ibrido”, che c’era ancor più nel mio precedente Anbessa, con elementi di crezione e fantasia. C’è, tuttavia, un linguaggio tipico del documentario che deve rimanere in qualche modo “sacro” affinché si possa godere della fiducia dello spettatore e affermare che una storia è vera. È possibile prendersi delle libertà dal realismo, ma lo si fa per analizzare il modo in cui raccontiamo le storie. La narrazione cinematografica, in altre parole, può essere usata per esplorare come facciamo generalizzazioni sulla realtà e sulla finzione. Faccio un esempio. Girare un film come El Father Plays Himself mi ha consentito di riflettere su come la performance influenzi le persone, le loro rappresentazioni nel film mi spingono a pensare a come si percepiscano nella realtà, il controllo direttore\attore mi porta a considerare il rapporto figlio\padre. Mi sono presa delle libertà e ho lasciato aperti alcuni significati per farmi da parte e lasciare spazio a quello che c’è nei sogni, ma penso che sia importante che il mio film sia inquadrato come documentario: come a dire che seguiremo qualcosa di realmente accaduto, di vero, che succede secondo la mia percezione delle cose. Non è sempre così. Di recente ho visto un film che era un documentario, ma era chiaro che ci fossero delle parti scritte nella sceneggiatura, e questo mi ha predisposto per un tipo di narrazione a cui ero abituato, la fiction, che si può permettere di spingersi nel territorio del fantastico o dell’emozione, di inserire un’invenzione cinematografica ad effetto. Eppure, il film non lo faceva: rimaneva nella realtà dei personaggi, solo che era una realtà “scritta”. Questo mi dà una sensazione strana. Per me non è importante sapere se una cosa è reale o irreale, successa davvero o meno: per me conta seguire un certo tipo di linguaggio e affidare ad esso le mie aspettative.


Un’altra cosa che si è detta sul tuo film è che sia un gioco di specchi, per il fatto di riprendere un regista che riprende qualcun altro. Mi vien da dire, però, che ci sono specchi e specchi. Te ne propongo due. C’è lo specchio "stile Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll", cioè uno specchio ingannevole, che porta al labirinto, a una realtà deformata; e c’è lo specchio "stile Pinocchio di Collodi": il bambino-burattino si guarda allo specchio e capisce che è reale. Che specchio è il tuo film? Lo specchio stile Alice, che mostra l’artificio e il falso nel cinema, o lo specchio stile Pinocchio, con cui si prende coscienza della realtà?

Interessante, mi piace che tu la metta così! (Esita per qualche secondo, n.d.R.) Non ne sono sicura, penso che dipenda dagli spettatori. In fondo, questo è ciò che mi piace. Ci sono persone che vedono il film e prendono una posizione morale molto forte: il padre è sincero, padre e figlio si provocano, il padre è ingestibile... Altri si sentono in sintonia col padre, si chiedono a che serva fare un film se si feriscono i sentimenti di una persona cara, oppure osservano che il figlio dà troppi ordini al padre. Sono interpretazioni diverse, ma io le trovo interessanti perché è la molteplicità dei livelli di questo film ad indurre a diverse visioni. Per certi versi l’ho girato proprio come se fossi un’osservatrice: non posso essere una lente oggettiva, nessuno può essere oggettivo. Si percepisce che sono vicino a queste persone: uno di loro è il mio fidanzato (Jorge, n.d.R.), l’altro è come se fosse un po’ mio padre. Ho un’influenza su di loro, e loro hanno un’influenza su di me, e vedo personalmente delle cose su di loro che trovo importante includere nella rappresentazione filmica. Che tipo di “specchio” sia questo? Difficile a dirsi: è uno specchio che può cambiare molto rapidamente. È forse il senso del film è in questo: mi soffermo così tanto su queste persone proprio per capire attraverso quale specchio stia guardando la loro storia, lo specchio alla Pinocchio o alla Alice. Basti pensare al padre: a volte è così sveglio e in contatto con le proprie emozioni, altre volte si fa del male, perde il contatto con esse, va per intuito come se fosse un figlio... è proprio un passaggio di specchi, da uno specchio all'altro!



Il film s’incentra sulla relazione tra padre e figlio, che diventa anche relazione attore e regista. C’è una scena in cui Jorge, il figlio, chiede al padre di fare certi esercizi di recitazione. A me è venuto da pensare: e tu cos’hai chiesto di fare a Jorge?

Con Jorge è stato difficile all’inizio. Dato che anche lui è regista, era inizialmente troppo consapevole della presenza della macchina da presa. Gli dicevo di non aiutarmi, ad esempio, di non dirmi quando avesse un incontro, perché stava a me essere in grado di catturare quei momenti. Speravo che diventasse inconsapevole della macchina da presa, perché come la maggior parte degli esseri umani, quando sanno di essere ripresi, avrebbe finito per far caso anche alla mia presenza e pensare coscientemente che io fossi lì per ascoltare. A Jorge, l’unica cosa che ho detto prima del film è stata proprio di dimenticare che io ci fossi, di rispettare il fatto che filmassi così a lungo, anche più a lungo del solito, persino quando si usciva la sera. Avevamo un accordo, l’idea era che io facessi una sorta di “making of” del suo film, ma alla fine quello che volevo fare era qualcosa di più di un “making of”. Il mio film usa il suo film come traccia strutturale, ma ciò che m’interessava davvero è il rapporto padre\figlio. Dopotutto, non c’è stato molto da dire a Jorge: era così occupato e così concentrato! Volevo solo che fosse totalmente immerso in quello che faceva, e lo è stato.


E al padre cos’hai chiesto?

Col padre è stato differente. Penso che la relazione con lui sia stata simile a quella che ho avuto col protagonista di 10 anni del mio precedente film Anbessa. È una relazione in cui non dici molto, dici solo: “posso semplicemente guardarti?”, e loro dicono: “sì”. E quindi guardi, e continui a guardare, guardi ogni cosa che fanno: diventi quasi un valletto! Loro non dimenticano mai che tu sei lì. Il padre sentiva sempre che c’ero, e mi ci sono sentito molto vicina. Ho percepito come si sentisse incompreso da gran parte del mondo. È interessante, perché la relazione è diventata quasi sacra, al punto da potermi prendere molte libertà nel raccontare la loro storia, ed ho sentito che loro avessero fiducia in me proprio perché capivano che avevo visto tutto.


In documentari come i tuoi, che s’incollano alle persone e scavano nei loro rapporti, c’è qualcosa che rende speciale il film. Lo spiegherò con una parola usata proprio da Jorge nel film: vibe, vibrazione nel senso di atmosfera. Come hai visto cambiare la “vibrazione” di emotività tra padre e figlio nel corso delle riprese?

Bella domanda. Penso che il film che Jorge e il padre hanno fatto sia stato come... non vorrei usare una metafora violenta, ma è l’unica cosa che mi viene in mente... Ecco, mentre giravamo il film pensavamo che ciò li facesse stare insieme e li rendesse più vicini, ma è come se il film fosse stato l’esplosione di una bomba, ed entrambe fossero nel fuoco. Tutto è stato molto intenso, ma c’era un programma, bisognava continuare con le riprese. Ed è stato come un lavoro da minatori, di scavo continuo: scavi, scavi, scavi, ma è proprio per il fatto di distruggere che poi puoi ricomporre i pezzi. Alla fine del processo, c’era molta emozione: tante cose erano venute fuori, e penso che sia ciò che accada quando giri dei film in cui le persone interpretano loro stesse. Questo non vuol dire che ci sia stata una crescita nella relazione, ma padre e figlio erano pronti a mostrarsi nella crudezza (“rawness”, n.d.R.) di quelle emozioni che le riprese avevano fatto affiorare. Il film finisce nel posto dove tutto aveva avuto inizio per loro: è l’inizio di una nuova relazione, una sorta di maturità. Qualcosa è cambiato e qualcosa di ognuno di loro è diventata più accessibile all’altro.



A proposito dell’ultima parte del film e del rapporto padre\figlio: come mai la scelta di usare il silenzio negli ultimi minuti, dopo tanto chiarirsi, accapigliarsi, parlarsi?

In effetti! Visto che ne parli, ho aspettato per mesi che padre e figlio si dicessero, tipo, “ti voglio bene”, o qualcosa che fosse nel loro cuore, e alla fine ho capito che i loro gesti dicevano molto di più. Così come dice molto di più la faccia di Jorge nelle ultime scene, quando il padre deve appiccare un incendio, beve, è nervoso... una scena folle! E il viso del figlio dice tante cose quando guarda quello del padre. Si capisce che il rapporto è diventato sempre più profondo. E non volevo aggiungere molto altro: due uomini, insieme, in un posto, che non si dicono molto. Sono lì, semplicemente. Esistono l’uno per l’altro.


Hai parlato del fatto che il padre di Jorge a volte bevesse. C’è una scena in cui un collaboratore di Jorge gli dice proprio questo: di fare attenzione a mostrare il padre quando beve nel suo film, perché rischia di diventare – cito alla lettera – un “crazy clown”, e la gente non ride più con lui, bensì di lui. In effetti, c’è un’espressione che si usa per lo più per il cinema di finzione, ma può valere anche per il documentario: exploitation, lo sfruttamento di elementi forti, a discapito dell’artisticità del film. Come ti sei sottrai dal rischio etico di fare un documentario exploitation, ad effetto?

Penso che... (esita, ci pensa un po’ per secondi, n.d.R.) ... gli unici momenti controversi che possano essere usati nelle riprese siano quelli che il regista si è “guadagnato”. Non ho problemi a mostrare qualcuno che fa qualcosa di completamente non etico: il problema è che devo guadagnarmeli, il pubblico deve arrivare gradualmente ad avere l’accesso a qualcosa. Se propongo un conflitto etico, un abuso o qualcosa contro quel codice etico per il qualche stabiliamo se qualcuno sia una buona o cattiva persona senza fare attenzione a mostrare che quelle scene provengono da qualcosa di più complesso, ecco, allora sono irresponsabile, e questo vale per il documentario come per la finzione. Il cinema ti permette di costruire i personaggi con i loro momenti e i loro pensieri, ma ci sono sfumature che non si mettono su carta, lo fai con le immagini e il suono, quindi devi riuscire a essere molto vicino a quei personaggi per riuscirci. Io sapevo, naturalmente, come la questione di Jorge col padre fosse molto più complessa di quella di un regista che lanci l’attore ubriaco sul set per usarlo: “ecco la bottiglia! Ubriacati, e giriamo!”. Non è così: so bene che si porta dentro dei conflitti su suo padre. Sarebbe grave e irresponsabile da parte mia non mostrare quelle scene, ma non le mostro affinché il padre appaia come un clown per il mio film, o perché sembri che il figlio mostri il padre come un clown di proposito; piuttosto lo faccio per mostrare anche i miei conflitti morali.


E a proposito della scena che ti dicevo? Il collaboratore che “diffida” il regista dal non esagerare nel riprendere il padre quando sembra dar di matto?

Lì sono stata fortunata. Ecco cosa è successo: il collaboratore di Jorge che si vede in quella scena è l’acting coach Fagua. Durante le riprese, Fagua è dovuto tornare in Colombia per lavorare ad un altro progetto e si è perso quella scena molto intensa tra padre e figlio con il rum (Jorge spinge il padre a bere per salvaguardare una scena chiave del suo film, n.d.R.). Quando è tornato, mi sono detta: “questa è l’unica cosa che devo in qualche modo controllare e provocare io stessa, in questo film”. Così ho detto a Fagua: “vatti a guardare le scene, vedi un po’ cosa ha girato Jorge e fagli delle domande”. Sapevo che avrebbe sollevato quelle questioni con Jorge, perché siamo amici e so che la pensiamo nello stesso modo. Sapevo anche che Jorge non parla con molti sul set. Con me sì, ma non faccio quel tipo di film in cui un personaggio si rivolge a chi è dietro la macchina da presa, volevo che Jorge ne parlasse in confidenza con qualcun altro... e mi è andata bene!


La fortuna aiuta gli audaci. D’altro canto, le tue idee sono molto chiare. Altrove, hai dichiarato: “L’intento dei miei film è di soffermarmi, di studiare le facce e le reazioni, e infine, di permettere alle persone di tradire la versione di sé stessi che si danno o che danno gli altri”. Ora ti chiedo: tradisciti, Mo. Dimmi qual era la tua reazione in una scena chiave, quella in cui filmavi la reazione di Jorge mentre riprendeva il padre durante un conflitto. Non hai ripreso il padre nel conflitto: hai ripreso la reazione di Jorge. E la tua qual era?

Credo che l’unica parola da usare sia “vacuità”. La mia reazione è qualcosa che io stesso non afferro: mi ci è voluto un film per capirlo, e nemmeno ci sono del tutto riuscita! C’è un vuoto tra queste due persone che si amano così tanto e hanno così bisogno l’uno dell’altro, ma non riescono a recuperare il tempo perduto o gli errori commessi, le colpe, la distanza fisica, le cose che sono accadute in Venezuela e che hanno causato tanto dolore. Se qualcuno avesse filmato il mio viso durante quella scena, avrei cercato di non manifestare alcuna reazione, ma in realtà sentivo dentro quel grande vuoto e girare il film doveva servirmi proprio a capire cosa fosse questo vuoto. Il film, inoltre, è stato anche un formidabile esercizio per far venire fuori i miei pregiudizi morali, per metterli in discussione, per fare un passo indietro e mettermi in ascolto degli altri, cercando di capire cosa pensano e solo dopo decidere cosa penso. Mi è stato molto utile, perché di fatto sono contraria alle attitudini moraleggianti nel documentario, del tipo: “questo è sbagliato, e ti faccio vedere quanto sia sbagliato”.


Per la prima volta vien fuori il nome di questo Paese: Venezuela. I paesaggi del tuo documentario non sono riempitivi, sembrano avere un valore più profondo. Quale?

Questo posto in cui abbiamo girato il film, Canaima, è un posto mistico, incredibile. Al padre piace tanto. Il padre ama la natura e mi piace guardarlo nella natura: sembra in pace col mondo. La natura, il paesaggio gli danno la possibilità di trovare una scappatoia agli impegni e alla pressione del set in cui è costantemente immerso. E nella vita reale, di fatto, era andato a vivere in quella zona: era scappato dai genitori, dalle difficoltà dell’adolescenza, da Caracas, dalle aspettative lavorative, per andare nella giungla e stare per un po’ nella natura. Il paesaggio, quindi, è qualcosa che il padre ha dentro e c’è qualcosa nel paesaggio, non dico di “metaforico”, ma di rappresentativo di quello che sta succedendo. La giungla è un posto selvaggio: ci ho camminato spesso, mi ci sono seduta. Non ti metti a pensare ai pericoli, ti ci abitui, è un posto in cui hai sempre la percezione del terrore: le formiche che ti camminano sulla pelle, gli uccelli e i grilli che urlano come se stessero morendo, e suona come un assassinio... un posto pazzesco! Padre e figlio stavano vivendo le loro esperienze con grande intensità, come persi in una giungla, mentre per me la giungla diventava un luogo in cui perdersi nel sogno, e il paesaggio un flusso di immagini in grado di rappresentare l’intensità di quell’esperienza.



Hai spiegato che questa storia tra padre e figlio è una storia di “paura e amore”. Sai, c’è una specie di tradizione nelle mie interviste: devo citare un film di Kubrick che s’intitola Paura e desiderio. Così si chiama anche una raccolta di saggi e articoli di uno storico critico italiano, Enrico Ghezzi. La paura e il desiderio dei protagonisti di una storia sono elementi vitali per lo sviluppo di una sceneggiatura. Ti faccio un’offerta: sostituiresti la definizione di “paura e amore” per il tuo film con “paura e desiderio d’amare”?

Aaaaah! (ridacchia, sorpresa e divertita, n.d.R.) In effetti, penso che sia così! Desiderare di amare implica il fatto di doverci provare. Il film, allora, non è tanto su come padre e figlio si amino a vicenda, ma su come provino a farlo. È non è facile... né è facile girarci un film! Mi piace questa idea del desiderio d’amare. Sì, accetto il cambio! (ride, n.d.R.)


Non osavo voler cambiare la tua percezione della storia! Ma a proposito, per chiudere: le storie a chi appartengono? A chi le vive, a chi le guarda o a chi le racconta? Nel film, il padre pianta grane per mantenere i diritti sulla pubblicazione di una sua eventuale biografia, dice di non essere una “puta”, una puttana...

Le storie appartengono a chi le racconta. Una volta ho girato un cortometraggio nel Nord dell’Etiopia e penso che la gente del posto fosse abbastanza traumatizzata da tutte queste persone che vengono da fuori per raccontare la loro storia e dicono che sono poveri, soffrono la fame e tutto il resto.  Mentre giravo il film, ho incontrato molta resistenza da parte loro. Ero una giovane regista e pensavo cose del tipo, “se solo riuscissi a fargli credere che è la loro storia!”. Adesso ci ripenso e mi dico che era una sciocchezza: sono io, naturalmente, quella che gira il film. La persona che fa il montaggio finale, la persona che si mette in gioco e cerca di capire su cosa sia il film e perché lo si faccia, è la persona che infine ne ha il controllo. E penso che sia una cosa buona, perché ti dà la possibilità di sentire come sia quella persona, almeno in certi film... i migliori film. Capisci la visione del mondo del regista, come essere umano. Così anche in El Father Plays Himself: la rappresentazione del padre come personaggio si ricollega a me, a quello che io penso del mio stesso padre. È una cosa che potrebbe spaventare, ma mi piace. E per tornare alla tua domanda, le storie sono di chi fa il film, ma non lo dico in modo arrogante, lo dico in senso positivo: sono abituato a farmene carico. Il film lo devo a padre e figlio, ma mostra ciò che penso io.

TITOLO ORIGINALE: El Father Plays Himself
PAESE: Venezuela, Regno Unito, Italia, Stati Uniti
ANNO: 2020
GENERE: documentario
REGIA: Mo Scarpelli
DURATA: 105'
FOTOGRAFIA: Mo Scarpelli
PRODUZIONE: Ardimages UK, Rake Film (US), Tres Cinematografia (VE)


(immagini: fotogrammi dal film El Father Plays Himself. Nell'immagine principale: a sinistra Jorge Thielen Armand, a destra Jorque Roque Thielen; all'interno, prima immagine: il padre sul set; seconda immagine: padre (al centro) figlio (a destra) sul set; terza immagine: fotogramma con paesaggio del Venezuela)


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