'Il momento di passaggio' al Faito Doc Festival, sentirsi diversi in famiglia: intervista a Chiara Marotta
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'Il momento di passaggio' al Faito Doc Festival, sentirsi diversi in famiglia: intervista a Chiara Marotta

martedì 18 luglio, 2023

Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, Il momento di passaggio di Chiara Marotta: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.

(Questa intervista è stata originariamente pubblicata il 16 dicembre 2021, dopo la menzione speciale del documentario Il momento di passaggio di Chiara Marotta al Festival dei Popoli. Sparita dal web per ragioni tecniche, viene oggi recuperata e riproposta in occasione della partecipazione di Chiara Marotta alla giuria di qualità del Faito Doc Festival - Festival Internazionale del Cinema del Reale, dal 18 a 25 luglio 2023, che prevede anche la proiezione speciale del documentario il 19 luglio in presenza della regista. Il tema del festival nell'annata corrente è quello della diversità. Tutte le informazioni sul Faito Doc Festival qui)

In principio era il Premio Solinas. Chiara Marotta l’ha vinto nel 2018 con la sceneggiatura di Il momento di passaggio, ritorno nella casa di famiglia, che diventa l’occasione per confrontarsi con madre, nonna e sorella sui diversi valori e sulle diverse scelte del passato. Ma era solo il principio, per l’appunto. 5 anni di lavoro il tempo per realizzare il documentario, fresco vincitore della Menzione Speciale al Festival dei Popoli di Firenze e di un’onorevole selezione all’IDFA, il festival di Amsterdam che fa da snodo cruciale a molte delle migliori opere documentarie del panorama contemporaneo. Pur avendo idee chiare e una spiccata vena autoriale, la giovane regista, montatrice e sceneggiatrice di origini campane non nasconde quanto sia importante poter rimuginare sul processo filmico anche durante le riprese, anche durante il montaggio.

Così è stato per Il momento di passaggio, prima che vedesse la luce dell’anteprima italiana a Firenze e di quella di europea ad Amsterdam. Ma non chiamiamola “formula vincente”, anche se la regista vanta già premi e partecipazioni di prestigio in giro per il mondo (tra cui Veronica Non Sa Fumare, Premio come Miglior Cortometraggio alla 34. Settimana Internazionale della Critica di Venezia). È un cinema che rigetta le formule. Fa dei suoni un magma. Dello storytelling, un processo con molti ricercati glitch, che vanno dagli stacchi d'immagini ai giochi di suggestione dei primi piani o delle luci. Non è un album di famiglia. Confrontarsi con i suoi, così presi dalla loro incrollabile fede religiosa, si presenta come un processo dinamico, attraversato dal dubbio, animato. Che all’animazione, tra l’altro, ricorre, in una delle sue varianti di stile. Riscoprirsi, in famiglia, in presa diretta, è un’operazione d’autore.


LA TRAMA DE IL MOMENTO DI PASSAGGIO

Una famiglia, in una comunità religiosa, e una figlia che non ne fa più parte. Poi un nuovo mondo da abitare e una casa da lasciarsi alle spalle. Sono tutti pezzi della vita dell’autrice, che ritorna a casa dopo un periodo di lontananza per affrontare questioni irrisolte insieme a sua nonna, sua madre e sua sorella. È possibile essere una famiglia senza condividere gli stessi valori? È possibile accettarsi? (fonte: La Sarraz Pictures)


IL TRAILER DE IL MOMENTO DI PASSAGGIO


L’INTERVISTA: CHIARA MAROTTA RACCONTA IL MOMENTO DI PASSAGGIO

ANTONIO MAIORINO: mi sono bastati pochi secondi de Il momento di passaggio per capire, attraverso un suggestivo gioco di profili nell’ombra e per l’atmosfera sonora, che fosse un documentario di decisa personalità stilistica. Prima di venire ai temi del film, ti chiedo: è riduttivo dire che un documentario debba solo documentario? C’è spazio per una ricerca linguistica, una manipolazione espressiva?

CHIARA MAROTTA: sono per quella strada, assolutamente. Per me tutta la fase di creazione del documentario costituisce una continua scoperta. Per i cinque anni di realizzazione de Il momento di passaggio, non ho mai lasciato la scrittura. Le primissime riprese nascevano da una forma di osservazione. Poi, sono venuti gli altri elementi, come la voglia di mettermi in scena attraverso la voce, con i relativi dialoghi con la mia famiglia, o le riprese aggiuntive, in un succedersi continuo di scrittura e sviluppo. Un’altra strada narrativa è stata quella dell’animazione, che ha portato a un mix di linguaggi. Credo infatti che sia giusto impiegare la materia documentaria in una forma più fresca e innovativa. Penso sia molto bello sperimentare anche attraverso l’utilizzo dei suoni e delle musiche. Ogni elemento, in sintesi, può essere una forma di narrazione che aiuta ad arrivare all’obiettivo finale, vale a dire, alla storia da raccontare.

A.M: per molti documentaristi, aprirsi è una scelta sconveniente, o comunque non la più immediata. Per altri, le prime esperienze cinematografiche nascono proprio dall’osservazione dell’ambiente domestico. Nello stesso festival, quello di Torino 2020, mi raccontavano queste scelte contrapposte due registi premiati in quell’edizione: Anna Marziano per il film Al largo e Gianluca Matarrese per Fuori tutto. Cosa ti sentiresti di dire per tranquillizzare lo spettatore sul fatto che Il momento di passaggio non sia il solito documentario familiare, del tipo “prendo la macchina da presa e riprendo i miei”?

C.M: questa domanda sintetizza la bella sfida che ho affrontato. Il momento di passaggio non vuole solo raccontare solo una storia familiare, quanto essere il tentativo di comprensione tra realtà diverse. Può essere una storia in cui immedesimarsi, un racconto che tante altre persone possono comprendere. La sfida più grande è stata il tentativo di convivenza entro quattro mura tra persone che hanno credenze e modi di vivere diversi, se non opposti. È un aspetto comprensibile in ogni parte del mondo e da questo punto di vista universale, per quanto applicato ad una sfera intima e personale. L’universale diventa il particolare. 

 A.M: vengo proprio al particolare. C’è una scena in cui tua madre dice “dove devo guardare?”, un’esclamazione che spesso i documentaristi eliminano in fase di montaggio. Rivolgersi ai propri familiari è certo una scelta peculiare, che dovrebbe implicare un rapporto immediato. Eppure, una domanda come quella di tua madre fa pensare a una percezione potenzialmente innaturale, e quindi mediata, della macchina da presa. Come descriveresti il rapporto dei tuoi con essa? Filtro o barriera?

C.M: la macchina da presa è stata il tramite tra me e loro. È stato un mezzo che è servito sicuramente a me, ma che reputo sia servito anche a loro. È stato utilizzato da entrambe le parti, divenendo lo strumento indispensabile per la realizzazione del film. È stato utile a me per guardare loro e riuscire nel mio tentativo di comprensione e utile a loro per farsi osservare. Da questo rapporto nasce la voglia non di farmi riprendere come personaggio fisico, bensì di essere personaggio con la voce. La camera è lo sguardo, è la linea di demarcazione tra me e i miei familiari. La domanda che mi pone mia madre, a cui alludi, è stata inserita all’interno del montaggio perché cinque anni fa il film nasceva come pura osservazione. Solo in seguito mi sono resa conto di non poter essere una semplice osservatrice: la mia presenza era indispensabile. Il guardarmi da parte della mia famiglia, quando rivolgono lo sguardo in camera, era il simbolo del fatto che fossi lì con loro e che i personaggi non fossero tre ma quattro.

A.M: c’è una scena in cui tua nonna a un certo punto dice: “io non ti ho detto mai le cose che ti ho detto ora. Lo faccio perché ti vedo più propensa all’ascolto”. Mi ha ricordato di un’intervista che feci alla vincitrice dell’Orso d’Oro per il miglior corto a Berlino 2021, Olga Lucovnicova. Nel suo documentario breve, Nanu Tudor, aveva praticamente fatto confessare in tempo reale allo zio di averla violata durante l’infanzia. È uno di quei casi in cui si parla di “cinema terapeutico”. È valso anche per Il momento di passaggio?

C.M: Sì. Erano trascorsi anni dalla mia scelta di allontanarmi dalla comunità religiosa dei miei e solo con la realizzazione di questo film reputo che siamo riusciti a parlare per la prima volta di questi argomenti. Quello che dice mia nonna è lo specchio del fatto che alcune tematiche di fondo non erano mai state affrontate prima del film. È stato utile da questo punto di vista. L’utilizzo della camera ha consentito di trovare un equilibrio tra me e loro e portare a conclusione discorsi che in passato, senza camera, facevamo più fatica ad affrontare.

A.M: per un curioso gioco di parole, camera non è solo la macchina da presa, ma anche la stanza. Nel tuo film si nota, specie all’inizio ma non solo, un’attenzione agli interni come se avessero una funzione espressiva. Anche nel già citato di Nanu Tudor, premiato al Festival dei Popoli, appariva un aspetto centrale, così come nel film vincitore dello scorso anno all’IDFA, Radiograph of a Family di Firouzeh Khosrovani, altro documentario di tipo “familiare”, con carrellate lentissime in avanti sugli interni. Si può dire che ne Il momento di passaggio oggetti, parete e camere abbiano questo valore di espressione?

C.M: Ne Il momento di passaggio è un aspetto fondamentale. Tornando a casa e decidendo di vedere le persone della mia famiglia, rivedo inevitabilmente anche la casa in cui sono cresciuta. La casa ha dunque una funzione narrativa, perché sarà la casa che verrà svuotata, cioè che sarà lasciata: questo è il momento di passaggio del titolo, quello dell’abbandonare la casa, del trasloco che implica l’inizio di una nuova vita, ma con una comprensione nuova sia da parte mia che della mia famiglia. I miei familiari, poi, vivono in maniera molto forte il loro rapporto con oggetti, strumenti di preghiera, cose del vissuto quotidiano, piante; ma, appunto, sono pronti a lasciare tutto questo per una vita diversa che hanno desiderato.

A.M: alludevi alle preghiere. Tornano insistentemente nel tuo film. forse è il momento più a rischio quello dell’intrusione della macchina da presa del documentarista nel raccoglimento personale. Hai avvertito anche tu la possibilità di invadenza in questi momenti intimi?

C.M: anche lì nel corso delle riprese e del montaggio c’è stato un cambiamento rispetto al mio personaggio. Inizialmente c’era stata una ricerca molto minuziosa con la camera vicino ai volti dei personaggi e alle loro mani per cercare di capire i motivi della loro preghiera e della loro fede così forte. Nel corso del film il mio punto di vista cambia leggermente, allontanandosi per rispettare maggiormente la contemplazione della preghiera con minore intromissione della macchina da presa. È una scelta che nasce proprio da una forma di rispetto nei confronti del raccoglimento della loro preghiera.

A.M: le parti animate hanno comunque una loro drammaturgia. 

C.M: quello dell’animazione è stato un percorso narrativo parallelo, una scrittura che è stata fatta durante il montaggio. È venuta lì la voglia di creare questo universo animato, come voglia di un ulteriore mondo in cui riuscissero a trovare unione il mio punto di vista con quello della mia famiglia durante i nostri confronti, l’animazione segue quindi quello che loro dicono, con l’uso delle fiamme, ma seguono anche il mio punto di vista come la rabbia che provavo durante il passato o può andare incontro a sentimenti e sensazioni nei momenti in cui ho questi confronti. Ho giocato con alcuni archetipi che vengono dai miei familiari, un mondo puro bianco per i pastori, l’acqua, il fuoco, che possono essere accettati da loro e per me simboleggiare sensazioni del passato fino ad arrivare al presente nel finale.  

A.M: in merito al montaggio, come accennavi a inizio intervista, anche quello sonoro è stato decisivo per il tuo dispositivo di narrazione, al pari della musica, peraltro componente stilistica essenziale di altre tue opere (penso, tra le altre, al corto Il turno del 2015). Come si collocano le scelte del suono nella cronologia della scrittura e del montaggio complessivo? Ci sono autori che le hanno in mente dall’inizio, mentre altri le pensano una volta visionate le riprese.

C.M: il lavoro di montaggio in ogni lavoro che ho fatto finora è una parte fondamentale per me. In questo caso ho lavorato con Loris Nese che ha curato anche le animazioni. Proprio durante il montaggio è sorta la voglia di sperimentare con l’animazione, così come altri cambiamenti dal punto di vista dell’ordine delle scene e della storia. Per me è sempre una fase cruciale, che si accompagna appunto al lavoro del suono, al quale ha contribuito Davide Maresca, col quale collaboro sin dal primo cortometraggio. Si tratta di una fase per me decisiva. In questo caso si trattava soprattutto di ricostruire il suono dell’animazione. Insieme, io, Loris e Davide abbiamo dato vita a ogni piccolo suono di questo mondo animato così come per tutto il resto del film. C’è anche da considerare che per le riprese avevo lavorato a casa da sola; quindi, c’è stato bisogno di collaborare in seguito col sound designer per dare vita a tutti i suoni che non c’erano. Per la musica, invece, ho lavorato con Palazzi d’Oriente, mentre per il pezzo finale del film, più uno all’interno, sono intervenuti i 72-Hour Post Fight. Cercavo una musica elettronica con note jazz che riuscisse a non appesantire i momenti drammatici e comunicare piuttosto, un’atmosfera quasi magica in alcuni momenti, sospesa. Non volevo caricare alcune scene di una pesante malinconia. La musica è riuscita a darmi questo effetto sperato e ne sono stata molto contenta.

A.M: c’è molta consapevolezza in tutte le tue decisioni. Un segno spiccato di autorialità. Mi chiedevo se questo valesse anche per un aspetto che mi colpisce del tuo documentario: una sorta di forza centrifuga, una narrazione antilineare. Intendo dire che non hai messo in fila una serie di interviste. A volte ci sono sospensioni, pause di silenzio, stacchi bruschi e momenti di pura evocazione. Questa forza centrifuga, o se preferisci, questa tendenza alla sospensione, è istintiva o pianificata?

C.M: è il frutto di un montaggio scelto appositamente che caratterizza il tipo di lavoro che faccio. Non amo un montaggio lineare, mi piace giocare con scene e immagini che possano evocare delle sensazioni e che, pur facendo progredire la storia, riescano anche a creare un effetto di rottura con stacchi sonori, stacchi d’immagini, variazioni delle immagini stesse. Si tratta di un modo per suscitare emozioni aggiuntive che corrispondano alle sensazioni dei personaggi. Questo, sia per il documentario che per la finzione.

A.M: in uno dei momenti di tua massima esposizione personale, ti rivolgi a tua madre chiedendole se non si fosse sentita anche lei sola e giudicata come era capitata a te. Tua nonna, in un’altra sequenza, tua nonna ti dice: “tu giudicavi”. Questo tema del giudizio potrebbe essere esteso all’operazione filmica e documentaria: hai temuto una sorta di effetto freaks out, che esponesse la tua famiglia al giudizio dello spettatore su fragilità e debolezze, oppure pensi che sia un rischio per certi versi fisiologico del filmare un documentario?

C.M: è stato il mio pensiero fisso per 5 anni. Avevo il bisogno di raccontare questa storia, ma il presupposto era quello di non mettere persone della mia famiglia in una situazione spiacevole. Era fondamentale creare una fiducia da parte loro nel farsi riprendere ma anche fare un film che non fosse un giudizio sulle loro scelte e sulla loro fede. Mi rendo conto che chi guardi il film possa non essere d’accordo con la mia parte o con quella dei miei familiari. L’obiettivo era quello di fare un film in cui scelte mie e loro venissero mostrate per come sono in un tentativo di comprensione e convivenza, senza andare a scavare nella fascinazione che derivi dal mostrare certi tipi di religione. Non ho marcato situazioni che mi avrebbero portato su strade diverse.

A.M: un’altra cosa che ti viene detta durante le conversazioni con i tuoi familiari è che sei una ribelle. Per chiudere, vorrei trasferire questa considerazione sul piano cinematografico. Nelle opere che hai realizzato finora, senti, per certi versi, di essere una ribelle, a difesa di un’individualità propria, distante dall’establishment cinematografico? In che cosa ti definiresti tale? 

C.M: credo molto nella ricerca del mezzo, della scrittura. Sto seguendo un percorso artistico autoriale, lontano da un tipo di cinema più commerciale. Anche fare questo documentario sapevo essere una sfida per me. Non è un film che possa essere considerato facile. È un percorso che sento mio e la cosa che più mi piace ogni giorno quando lavoro, che si tratti di montaggio o regia, è quella di mischiare tutte le carte e provarne di nuove. È un percorso che ho intenzione di continuare a seguire. Nella fase di montaggio di tutti i nostri lavori, lo spirito documentaristico trova un’espressione fondamentale, mettendosi in relazione con il materiale finzionale. È una fase in cui sperimentiamo diverse soluzioni narrative, utilizziamo elementi variegati e rimettiamo tutto il girato in discussione, lavorando affinché emergano le sensazioni dei personaggi. Un processo sperimentato anche nei nostri precedenti film.


SCHEDA FILM

DURATA: 68’
PAESE: Italia
REGIA: Chiara Marotta
SOGGETTO: Chiara Marotta
SCENEGGIATURA: Chiara Marotta
FOTOGRAFIA: Chiara Marotta e Loris Giuseppe Nese
MONTAGGIO: Chiara Marotta e Loris Giuseppe Nese
MUSICHE: Luca Bolognesi
ANIMAZIONI: Loris Giuseppe Nese
CAST/INTERVISTE: nonna, mamma e sorella di Chiara Marotta
PRODUZIONE: La Sarraz Pictures in collaborazione con Rai Cinema
PRODUTTORE: Alessandro Borrelli
DISTRIBUZIONE: La Sarraz Distribuzione
CON IL CONTRIBUTO DI: MiC - Direzione Generale CINEMA e AUDIOVISIVO
CON IL SOSTEGNO DI: Film Commission Torino Piemonte - Piemonte Doc Film Fund & Regione Campania e Fondazione Film Commission Regione Campania

 


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