Il signor diavolo, intervista a Pupi Avati: "Il non-tempo, i miei luoghi. E serve sfrontatezza"
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Il signor diavolo, intervista a Pupi Avati: "Il non-tempo, i miei luoghi. E serve sfrontatezza"

martedì 27 agosto, 2019

L'afa è quella, statica, del 25 agosto. Il 22 è uscito al cinema l’ultimo lavoro di Pupi Avati, il film horror Il signor diavolo. Il 23 è morto Carlo Delle Piane, attore che col regista bolognese aveva lavorato ripetutamente, consolidando il proprio percorso artistico fino alla Coppa Volpi ed ai Nastri d’Argento. Pupi è in auto, sta andando al funerale di Carlo. “Mi scuso se ogni tanto la linea cadrà, attraverserò delle gallerie”. Io gli dico che qualche disturbo di linea val bene un’intervista con Pupi Avati, e lui ringrazia con signorilità. La stessa eleganza la impiega nel conversare sul film, senza però rinunciare al proprio piglio genuino e combattivo. Non le manda a dire ai colleghi del mondo cinematografico italiano: quell’ambiente in cui, pur essendo da decenni un partecipe protagonista, oggi è un paradossale outsider. Il cinema horror\gotico italiano, che in film come La casa dalle finestre che ridono e Zeder di Avati conta titoli storici, è oggi alla ricerca di un’affannosa ricostruzione d’identità e rinvigorimento del mestiere. Il signor diavolo, “all’Avati” nel midollo, è di fatto una mosca bianca, visto il restringimento alla nicchia delle produzioni di genere. Eppure, l’effetto è di un piacevole déjà-vu: in Veneto, negli anni ’50, un minore ha ucciso un coetaneo convinto di ammazzare il diavolo, ed un acerbo funzionario ministeriale è inviato da Roma per indagare. Le atmosfere, riconoscibili, confondono la nebbia di valle con i vapori sulfurei e nella piccola Italia contadina sembra covare qualcosa di molto macabro, di molto sbagliato.
Bentornato Avati, bentornato horror.

 

PARTE 1: A TOUCH OF EVIL - LUOGHI E BAMBINI MALEDETTI


ANTONIO MAIORINO: il film deriva dal romanzo omonimo che lei stesso ha scritto. La derivazione dei film dalla letteratura è molto diffusa, più di quanto gli spettatori generalmente sappiano, ma meno diffuso è il caso in cui il regista sia anche lo scrittore. In che modo ha messo a frutto questo controllo creativo? Come ha gestito la metamorfosi dalla pagina allo schermo?

PUPI AVATI: dal romanzo ho desunto tutti gli aspetti gotici ed orrorifici, mentre ho tralasciato l’approfondimento psicologico, sociale e politico della storia, trattenendone solo una porzione minima. In questo modo ho raccolto la parte sostanziale del plot, ossia l’indagine del delitto, le agnizioni e le scoperte che il funzionario del ministero andava facendo. Di conseguenza, tutto il background che c’è nel romanzo, comprendente la vita privata del funzionario ed il suo matrimonio difficile con una donna complicata, l’ho omesso nel film, l’ho bypassato per varie ragioni. Innanzitutto, per ragioni di durata, perché un film oltre l’ora e mezzo non può andare, tanto più se è un film di genere. In secondo luogo per una ragione obiettiva di costi, in quanto ricostruire la Roma degli anni ‘50 sarebbe stato complicato e costoso. Mi sono concentrato sulla vicenda, così tremenda, localizzata in questo contesto che era già stato scenografia di alcuni miei film, ossia la valle del Po.

Ma forse c’è dell’altro di identitario e personale in questo film. Di fatto, per spaventare lo spettatore, raccontare delle paure che in qualche modo possono turbare anche lei?

Sono partito dalla paura del buio, che è stata fondamentale nella mia formazione infantile. I gesuiti dicevano: “dateci un bambino per i primi 5 anni della sua vita e sarà nostro per sempre”. Io quegli anni li ho trascorsi in campagna con parabole contadine orrorifiche, per poi essere portato in queste stanze buissime dove era molto complicato addormentarsi dopo quelle favole. Quei sacerdoti… Non voglio dire che fossero minacciosi, ma avevano un’idea molto chiara del peccato, delle punizioni, dell’inferno, della morte. Era un contesto in cui un bambino cresceva sviluppando la propria creatività personale ed il proprio immaginario soprattutto alla luce di quella suggestione forte che è la paura. La paura sollecita la creatività come nient’altro, soprattutto quando la vedi in un contesto come quello raccontato, in cui un bambino viene chiuso nell’armadio al buio quando fa qualcosa di male. Era come una premonizione che ha il mio protagonista, il quale ha questo destino del buio.

I bambini ed in generale l’infanzia sono un luogo comune del cinema dell’orrore. Nel suo film, le fionde possono diventare oggetti mortiferi ed anche angelici bambini possono lasciar trasparire tratti diabolici: l’infanzia è dunque insidiata dal male o è essa stessa un’insidia ne Il signor diavolo?

L’infanzia è portatrice di un tutto, incluso il male. L’infanzia è portatrice di una conoscenza misteriosa. Non sappiamo da dove provenga l’infanzia, da quale contesto. Il finale di questo film, che naturalmente non anticipiamo, mi è stato suggerito dallo stesso bambino protagonista (Filippo Franchini, n.d.R.), dal suo sguardo. Di questo bambino siamo stati immediatamente convinti sia io che mio fratello, abbiamo pensato che fosse un bambino del tutto speciale. Quando spiegavo delle scene, lo sguardo che lui mi rivolgeva era lo sguardo di chi non soltanto sapeva già quello che gli stavo per dire, ma andava oltre. C’era un sapere in lui misterioso, perturbante. Ad un certo punto, quando si è trattato di esprimere una sintesi delle ragioni che mi hanno mosso a raccontare questo tipo di storia, ho immediatamente pensato che se il male è in ognuno di noi, allora in buona dose sia anche in quel bambino. Naturalmente lo dico in maniera affettuosa, Filippo è stato un protagonista ideale. Certo, nel suo sguardo c’era qualcosa che mi ha molto inquietato.

Perturbanti sono anche i paesaggi a cui alludeva. La macchina da presa ci si è soffermata spesso, cogliendone esalazioni di mistero. Che tipo di umore voleva che sprigionassero le location che ha scelto?

Un non-tempo. Una universalità. Io mi sono reso conto che molti dei film che ho fatto sono collocati in un non-tempo. Altre mie opere si collocano nel loro presente e sono contestualizzate nel tempo in cui sono state fatte: Impiegati, Ultimo minuto, Festival…. Sono film che purtroppo, per delle ragioni che non dipendono certamente da me, non voglio dire che abbiano una data di scadenza, ma sono esattamente coincidenti con un momento della nostra storia. Il non-tempo, invece, è il tempo dei miei archetipi, dell’incontro con le cose alle quali io ho dato un nome e che ho riconosciuto come tali, sono diventate il mio patrimonio archetipale. Negli anni ‘50 ho incontrato le cose per la prima volta con la consapevolezza di ciò che fossero: l’amore, il cavallo, la bicicletta, l’automobile e la morte. Qualunque sostantivo lei mi dica io lo riferisco a qualcosa che ho visto in quegli anni, all’archetipo.


PARTE 2: FELLINI, LEONE, L'HORROR - FANTASMI NEL CINEMA ITALIANO


Lei costruisce gli archetipi tornando indietro nel tempo. Ma gli spazi? Si prestano anch’essi a diventare degli archetipi?

L’Emilia purtroppo è molto cambiata, almeno quella parte dell’Emilia che va verso il Veneto. Ma se lei percorre una parte dell’Emilia da Ferrara in su, tra le paludi e l’acqua, e le chiedessi in che periodo siamo della Storia, mi potrebbe anche rispondere duemila anni fa, o tra duemila anni.  Lì c’è un non-tempo. Quando riesco a fare film in quel non-tempo, sono preso da una sorta di rassicurante sgomento, perché poi questi luoghi diventano spaventevolissimi. Non a caso dico sempre che Igor il Russo (il killer di Budrio, n.d.R.) si era andato a nascondere proprio lì.

Quando parla del suo primo incontro con le cose e di come dà forma al suo mondo cinematografico, sbaglio o mi sembra di intravedere ancora il fantasma di Fellini, che è stato così influente per lei? E in fin dei conti, perché liberarsene… no?

Sì, ma credo di essere riuscito a trovare il mio tono di voce ed una mia calligrafia al di là di quello che devo a Fellini: tantissimo, certo. Fellini mi ha insegnato a vedere oltre, a percorrere quella zona che c’è tra il pensabile e l’impensabile, il detto e il non detto, quello che va oltre la stagnazione e la mortificazione della realtà, che molto spesso è fortemente limitativa, soprattutto in un momento del cinema italiano in cui la realtà è l’unico punto di riferimento per una pletora di commedie che riguardano solo il nostro presente, le nostre beghe, i nostri piccoli problemi, la nostra quotidianità. Fellini ci ha insegnato ad andare oltre la superficie, a mostrare anche quello che non ha una visibilità nella vita di tutti noi ma fa parte del nostro immaginario. Confondendo il presente con il passato senza nessun tipo di preoccupazione. Io penso che ci ha liberato di molti miti e quindi questa è stata la grande lezione che mi ha dato. Poi, però, nel mio piccolo ho cercato di sfruttare quello che sapevo io della vita e della morte e di farlo diventare il mio cinema. Io penso di avere una linea dritta cinematografica, non voglio apparire presuntuoso, ma ritengo sia così.

Visto che ha esteso il discorso al cinema italiano, passato e presente, faccio anche lei una domanda che ho posto a vari registi, tra quelli dell’ultima generazione che hanno contribuito alla rinascita di alcuni generi cinematografici in Italia (Gabriele Mainetti, Matteo Rovere, Sydney Sibilia…): perché il cinema di genere italiano ha conosciuto anni ed anni di blackout? Al punto che nel panorama attuale un film come Il signor diavolo è pressoché una rarità… 

La committenza ormai è fatta da commercialisti che hanno più problemi di fatture elettroniche, di pec, di tax credit, che di cose da raccontare. Non abbiamo più una committenza ambiziosa, è poco illuminata e poco colta. Non vuole nemmeno esserlo. È asservita all’idea che noi siamo una colonia del cinema americano. Trump pratica dazi su tutto, non capisco perché allora noi non mettiamo dazi sul cinema americano, l’unica soluzione per restituire spazio e visibilità al cinema italiano che in questo momento ne avrebbe molto bisogno. Quando ora si va a parlare con un produttore o con qualche funzionario o con un agente televisivo, non sentirà mai dire “vogliamo fare un bel film”, bensì “vogliamo fare un bell’ascolto” o “un bell’incasso”. La progettualità è solo numerica e d’altra parte è altrettanto mortificante che un film sia sintetizzato da un numerino, da un voto, da una faccina sorridente o imbronciata. Il lavoro di un anno di una persona che viene sintetizzato da una faccina mi sembra un atto di presunzione così volgare e così scorretto, eppure siamo ormai precipitati in questa consuetudine che non so apprezzare. Ecco, è la stessa cosa col progetto: non viene nemmeno letto, ma si realizza attraverso un cast con una panchina molto corta. Lo dico in continuazione: non c’è immaginazione, ci sono sempre gli stessi tre o quattro o dieci, giocano sempre loro, è una squadra che non ha riserve.

Utilizza un’espressione forte: il cinema italiano come colonia del cinema americano. Liberiamoci dai complessi: mi dica, secondo lei di cosa c’è bisogno affinché una cinematografia nazionale sia una cinematografia davvero evoluta?

Della sfrontatezza. Le faccio un esempio della nostra capacità d’immaginazione. Ad un certo punto, un trasteverino ha iniziato a raccontare le montagne rocciose del Texas facendo la gara con gli Americani e in alcuni casi battendoli sul loro stesso terreno. Sto naturalmente parlando di Sergio Leone. Quando invece abbiamo avuto una realtà così peculiare da essere raccontata perché solo nostra, abbiamo fatto il Neorealismo e siamo stati assolutamente e giustamente apprezzati in tutto il mondo: la realtà che avevamo da candidare per quei film era straordinaria. Poi abbiamo fatto il cinema, ed il cinema cos’è? Tutto, come dicono a Roma: da piangere, da ridere, da paura… Noi a livello tecnologico non ci possiamo permettere certo di competere con le cinematografie americane, ma nemmeno con quelle asiastiche, che hanno nel loro know how una disinvoltura, una facilità, un approccio alla tecnologia che noi non abbiamo. Dal canto nostro, però, abbiamo la capacità di raccontare le emozioni, i sentimenti, le atmosfere. Possiamo spaventare con le atmosfere benissimo, non abbiamo bisogno del 4k. Il film che mi ha spaventato di più nella mia vita è Vampyr di Dreyer (1932, n.d.R.) in cui è più quello che non si vede che quello che si vede. Eppure, è spaventosissimo!


PARTE 3: UNA SAGA DEL MALE E... QUEL MALEDETTO CINEMA ITALIANO

A proposito dei meccanismi della paura: negli horror può capitare che tutto sommato lo spettatore si accontenti di vedere i personaggi come pedine, senza nemmeno troppo spessore, purché assecondino il fluire della storia e della suspense. Lei come ha vissuto il rapporto col suo protagonista adulto, Furio Momentè (Gabriele Lo Giudice), il funzionario incaricato di indagare sull’omicidio? 

Cercando fin dall’inizio di far identificare lo spettatore con lui. La sua prima immagine è quella di una segreteria che gli pulisce le spalle perché ha la forfora: lo spettatore dice “ah sì, è come me, come mio fratello o quello che mi è seduto accanto”; e da quel momento lì, lo porta con sé. Il personaggio di Lino Capolicchio (un anziano prete, n.d.R.) è un personaggio di una normalità quasi imbarazzante. Più è quotidiano e simile allo spettatore, più ti riesce di portarlo nelle guglie delle cattedrali gotiche più improbabile, lo spettatore ci crede. Ma c’è bisogno per lo spettatore di un Virgilio che lo accompagni.

Ora che ha preso lo spettatore per mano, non può abbandonarlo: ha dichiarato di essere interessato ad una vera e proprio saga del male, un’idea di serialità che fa tanto “terzo millennio”…

Sarebbe fantastico fare una saga terrorizzante sulla cultura contadina. Guardi True Detective: gli Americani che non hanno storie e radici, vivono di questo, noi non abbiamo mai sfruttato lo straordinario patrimonio rurale che abbiamo alle spalle. E invece potremmo farlo, tanto per cominciare dal punto di vista sociologico, come trasmissione di modi di vivere e di contesti con i quali fare comparazioni (guarda come vivevano questi, come siamo fortunati noi a non essere più così, ecc). Poi, per sfruttarne le potenzialità orrorifiche spaventevoli che sono divertentissime… se c’è una cosa che mi diverte è spaventare, ed essere spaventato. Io lo capisco uno che paga 8 euro per essere spaventato, anche se sembra un controsenso: lo capisco.

Per arrivare a saper spaventare, vien da supporre che abbia dovuto attraversare il suo “tirocinio della paura”. Da Balsamus l’uomo di Satana ad oggi (primo ciak, 18 settembre 1968) a Il signor diavolo, quando guarda al suo percorso, cosa ritiene di aver imparato e cosa ritiene di aver disimparato? Gli artisti sanno lavorare anche per “via di levare”. 

Innanzitutto lei ha detto una cosa molto acuta, perché i film che mi hanno insegnato di più sono quelli che non hanno funzionato, che non mi hanno dato la risposta che avrebbero dovuto darmi, che mi hanno fatto riflettere. Il pugile che va al tappeto è quello che la notte dopo l’incontro non dorme e ricostruisce per notti intere minuto per minuto tutto il match. È lo sconfitto ed il soccombente quello che ne sa di più. Il film che non è riuscito ad emozionare, che non è totalmente quello che volevi, è fondamentale. Ed io devo dire (ridacchia, n.d.R.) tra parentesi, molto virgolettato, che fortunatamente di esperienze così ne ho fatte diverse e mi hanno molto formato. La cosa importante che ho capito è che bisogna trovare un equilibrio tra la parte autoriale (tu, Pupi) ed il genere. Non ci deve essere un disequilibrio. Se lasci prevalere il genere, ti sottometti al genere e diventa prevaricante nei riguardi della tua identità e del tuo tono di voce: non funziona, c’è una svendita, un accattonaggio che non mi piace. Se invece trovi quell’equilibrio tale che in sala dopo due minuti qualcuno dica “questo l’ha girato Pupi, è riconoscibile, è identitario”, malgrado sia un film di genere, allora la scommessa è vinta. È in questo che si misura la riuscita o meno di un’operazione.

Ed una parte di questa identità deriva, oltre che dagli ambienti, dal lavoro con un gruppo di attori dall’affiatamento provato.

È evidente che io ho approfittato biecamente di un contesto che mi è proprio ed anche di un cast che aggiunge riconoscibilità a riconoscibilità. È evidente che se metto Cavina, Delle Piane, Capolicchio, attori con quelle facce mie, li sento molto miei.

Ecco, Carlo Delle Piane. È scomparso qualche giorno fa. Qui non le chiedo niente. Tema libero, se ne ha voglia.

Volentieri. Sto andando da Carlo a salutarlo per l’ultima volta, perché c’è il funerale alle tre e sarò l’unico credo a dire qualche cosa pubblicamente. Dirò come ad un certo punto della nostra vita, dopo anni trascorsi assieme riuscendo a dargli una mano ad uscire da quella sorta di cinema di serie Z in cui era precipitato e riuscendo a trovare una sua identità forte, con riconoscimenti importanti fino alla Coppa Volpi, quando ad un certo punto il nostro rapporto si è esaurito (perché quello che io gli chiedevo lo sapeva già e quello che lui mi dava io lo sapevo già, quindi non c’era più stupore o meraviglia), io ho pensato, noi abbiamo pensato che lui fosse in grado di camminare con le sue gambe, che il cinema italiano l’avrebbe considerato. Non è stato assolutamente così. Tranne che per un episodio con Ermanno Olmi, Carlo Delle Piane è rimasto totalmente disoccupato per anni ed anni, e questa è una cosa che non so perdonare ai miei colleghi.


SCHEDA FILM 
Regista: Pupi Avati
Genere: Drammatico, Horror
Anno: 2019
Paese: Italia
Durata: 86'
Uscita: 22 agosto 2019
Distribuzione: 01 Distribution
Trailer

(nell'immagine principale e nella prima all'interno: fotogramma da Il signor diavolo; seconda e terza immagine all'interno: Pupi Avati sul set del film. FONTE: 01 Distribution)

Antonio Maiorino


Autore
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