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Il senso della legalità e quello dello Stato. Intervista al giornalista Matteo Finco

Giulia Farneti
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Il senso della legalità e quello dello Stato. Intervista al giornalista Matteo Finco
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OLBIA, 1 AGOSTO 2012- Matteo Finco è giornalista e collaboratore di Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio Fnsi-Odg sui giornalisti minacciati. I giornalisti possono aiutare concretamente e contemporaneamente possono danneggiare la reputazione delle persone. La criminalità organizzata riguarda tutta l’Italia, un fenomeno indistruttibile; si possono, tuttavia, vincere le battaglie e le guerre con le varie realtà locali.

Perché hai deciso di intraprendere la carriera giornalistica?

Immaginavo di fare questo mestiere da quando ero piccolo, credo che mi piacesse l’idea di raccontare le cose alle persone. Dopo la laurea triennale ho superato l’esame di ammissione alla Scuola di Giornalismo di Urbino, e allora ho tentato questa strada.

Nel recente programma di Fazio e Saviano "Quello che (non) ho", gli interventi ruotavano su una parola che gli ospiti decidevano di portare, quale porteresti?

Credo che una parola fondamentale in questo momento storico in Occidente sia ‘futuro’. In realtà molte persone il futuro non riescono ad immaginarlo, o lo vedono molto incerto, peggiore del passato e del presente. Viviamo orizzonti ristretti, siamo immersi in quello che alcuni hanno chiamato ‘eterno presente’, in cui la vita è poco promettente. Non è un fatto solo italiano. Io non voglio lamentarmi: uno dovrebbe vedere la propria vita come un orizzonte di possibilità, e non come un compito da portare a termine.[MORE]

Oggigiorno i neolaureati (possibili futuri giornalisti) lasciano in gran parte l’Italia alla ricerca di un futuro professionale migliore, convinti che in questo paese non ci sia più una giusta meritocrazia. Cosa pensi a riguardo?

Ho scoperto che meritocrazia è una parola comparsa per la prima volta nel 1958 in un libro di un politico inglese, Michael Young, che la usava per prendere di mira un sistema in cui una minoranza di privilegiati usava criteri di selezione tendenziosi per impedire l’ascesa sociale di chi era meno fortunato. Purtroppo anche oggi spesso è così: si fa appello spesso al fatto che sia difficile emergere perché ci sono i ‘raccomandati’ (e talvolta è vero), ma non si fa nulla di concreto per cercare di garantire a tutti condizioni di partenza accettabili, per ridurre le disuguaglianze. Il risultato è che molte famiglie non si possono permettere di far studiare i figli, e la tendenza sembra peggiorare continuamente. Io non escludo di andare presto all’estero, è una possibilità, ma non mi va di imputarla ad un ‘sistema corrotto’. La vivo come una scelta personale autonoma.

Horacio Verbitsky, giornalista e scrittore argentino, affermava: "Giornalismo è diffondere quello che qualcuno non vuole che si sappia. Il resto è propaganda", condividi?

È una buona definizione. I giornalisti possono fare molte cose buone, nel migliore dei casi possono aiutare le persone concretamente. Nello stesso tempo possono fare molte cose cattive, come danneggiare la reputazione delle persone. Spesso si dimentica questo a mio avviso.

Collabori dall’aprile 2011 con Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio Fnsi-Odg sui giornalisti minacciati. Cosa ti ha spinto a collaborare e perché?

È stato un caso all’inizio: avevo aiutato il mio amico Dario Barà a raccogliere gli atti di un convegno sui giornalisti minacciati che aveva organizzato ad Urbino. Poi insieme a lui ho cominciato a dare una mano ad Alberto Spampinato, il direttore di Ossigeno, con una serie di attività.

Perché pensi sia importante continuare a tenere viva la memoria di coloro che sono stati uccisi dalle mafie?

Da quel che ho osservato grazie al lavoro con Ossigeno, credo che la cosa più concreta che si possa fare sia cercare di ricordare, in varie forme, il contenuto del loro lavoro. I loro articoli, i servizi giornalistici, sono il motivo per cui non vivono più, ma anche ciò che può dare l’esempio più vivo di cosa vuol dire raccontare cose importanti.

Ogni giorno molti giornalisti rischiano la loro vita nel quotidiano sforzo di trovare e raccontare la verità, in che modo dovrebbero essere tutelati?

Si potrebbero fare tante cose. Molto possono farlo i colleghi giornalisti, attraverso il supporto concreto, l’aiuto nel lavoro, la diffusione degli episodi di minacce.

Cosa significa oggi informare e quale ruolo ha oggi l'informazione nei confronti della criminalità organizzata?

È una domanda che bisognerebbe fare ai tanti che si occupano tutti i giorni di raccontare le malefatte della criminalità. Quello che posso osservare io, è che spesso manca la volontà di avere una visione ampia dei fenomeni: sfogliando i giornali locali, solo per fare un esempio fra tanti, spesso si legge di sequestri di droga. Si indica il quantitativo, si dice chi è stato arrestato, di solito stranieri e criminali di piccolo e medio taglio, e finisce lì. Uno legge e rischia di farsi l’idea che un delinquentello qualsiasi si ‘diverta’ a trasportare droga lungo l’Italia. Si dovrebbe invece ricordare che c’è sempre qualcuno dietro, che rimane in ombra. Altrimenti si riduce tutto a semplice ‘cronachismo’, uguale un giorno dopo l’altro, che non lascia tracce.

Cos'è oggi la mafia e perché, secondo te, è estesa ormai in tutto il Paese?

Grazie al lavoro di tanti bravi cronisti ormai si sta diffondendo l’idea che la criminalità organizzata è una realtà che riguarda tutta l’Italia e tutte le società complesse. Ci sono tanti tipi di mafie, e sono dovunque: questo oggi molti l’hanno capito. Ci saranno sempre organizzazioni forti che perseguono i loro interessi. È un fenomeno di per sé ineliminabile. Ma si possono vincere le battaglie e le guerre con le varie realtà locali, che come diceva Falcone, hanno un inizio e una fine: la mafia siciliana, la camorra, la mafia cinese o quella russa in un determinato territorio. Queste realtà si possono vincere nella loro dimensione storica e particolare, e sono in tanti ad impegnarsi in questo.

Recentemente Antonio Ingroia ha dichiarato che i cittadini dovrebbero capire che la ricerca della verità e della giustizia non può essere delegata solo alle istituzioni e alla magistratura. Ognuno deve dare il proprio contributo. Cosa pensi a riguardo?

In molte situazioni vedo cittadini che si organizzano, movimenti grandi e piccoli, azioni concrete. Credo ci sia un certo fermento in questo senso. Purtroppo a volte certe realtà si riducono a facile retorica, demagogia, protagonismi: sono quelle situazioni di mafiologia e antimafia ‘ideologiche’, a parole, e talvolta ne approfittano anche uomini delle istituzioni. Io credo che spesso si sottovalutino le persone e le collettività: è vero che in Italia il senso della legalità e quello dello Stato non sono sviluppati come potrebbero, ma verità e giustizia come principi astratti non significano nulla. Valgono nell’azione ristretta, concreta, nell’impegno quotidiano.

Giulia Farneti


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Scritto da Giulia Farneti

Giornalista di InfoOggi

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