Intervista a Paula Ortiz, preselezionata agli Oscar con La novia: "il coraggio di raccontare Lorca"
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Intervista a Paula Ortiz, preselezionata agli Oscar con La novia: "il coraggio di raccontare Lorca"

venerdì 9 dicembre, 2016

La novia di Paula Ortiz è stato uno dei film più premiati ed elogiati dalla critica spagnola lo scorso anno. Basterà ricordare le 12 candidature ai premi Goya e l'onore della preselezione agli Oscar insieme a El Olivo di Icíar Bollaín e Julieta di Pedro Almodóvar (quest'ultimo, poi, risultato candidato ufficiale). La storia, che adatta il celeberrimo Nozze di sangue di Federico García Lorca, è quella di un triangolo amoroso che sfocia in tragedia. La parola dello scrittore spagnolo aveva saputo infondere un senso visionario e universale al dramma; riuscirci anche col cinema era impresa difficile, che Paula Ortiz ha affrontato con personalità ed idee. L'abbiamo intervistata, in quella che è diventata un'inchiesta sul cinema spagnolo ed un colloquio sul cinema oggi.

A.M: hai dichiarato che il cinema è un modo “d’imparare la vita”. In che senso?

P.O: credo che tutti apprendano dalle esperienze più difficili della vita, quelle in cui sono coinvolte le emozioni. Lo fanno sia attraverso ciò che si vive in prima persona, sia attraverso il vissuto condiviso nei film, nei libri, nelle canzoni. Il cinema è un’arte molto potente per insegnare a vivere, per farti disporre di strumenti di fronte alle sfide fondamentali della vita, l’amore, la morte, la malattia, la delusione, la vendetta. Credo che dai film abbiamo appreso molto sopra l’amore che viviamo o che vogliamo vivere, sul dolore che abbiamo vissuto e su come alleviarlo. I film sono strumenti di apprendimento vitali e terapeutici… sono terapie!

A.M: a volte sembra che i classici siano relegati in un recinto sacro. Come è stato riscoprire Bodas de sangre di Lorca attraverso il film La novia? Un’esperienza di libertà, creatività e piacere, o un rischio, per quanto calcolato, che richiedeva cautela e poneva limiti?

P.O: beh, entrambe le cose. Di fatto il mio avvicinamento a Bodas de sangre risale all’infanzia, perché già da piccola leggevo Lorca, ma in un modo molto incosciente e passionale, senza pensarci, semplicemente lasciandomi trasportare dalla luce e dalla potenza dei suoi versi. Fu la prima opera che lessi e per me fu iniziatica e rivelatrice. Abbiamo deciso di portare questo sentimento al cinema con tutta la sua potenza simbolica, con questo mondo che Lorca riflette in tutte le sue opere, ma che in Bodas de sangre emerge ancora più vividamente: i simboli del cavallo e della luna in un mondo tanto essenziale, tanto rituale e magico e allo stesso tempo così profondamente reale. Per me è qualcosa d’ipnotico e affascinante ed è quello che abbiamo inteso riprodurre nel film, qualcosa che viene dalle viscere e dal cuore. E allora che succede? Che non tanto da parte nostra che abbiamo fatto il film, quando da parte di chi lo vede dall’esterno, si finisce per essere consapevoli della responsabilità di portare un classico al cinema, di dover evitare di defraudare la gente che l’aveva letto prima e che possiede un’immagine molto forte del proprio Bodas de sangre, con tutto il suo contorno teorico e accademico che lo avvolge. Da un lato abbiamo cercato di non farci troppo caso, per non restare paralizzati, dall’altro eravamo coscienti del fatto che quella responsabilità ci fosse.

A.M: qual è stata la sfida più stimolante nel mettere in relazione la parola scritta del testo di Lorca con il linguaggio del cinema?

P.O: la sfida più forte è stata quella di riuscire a mantenere un equilibrio stabilendo quali versi dovessero rimanere in forma di parola, perché questa era la forma in cui risuonavano con più forza e bellezza, e che immagini di Lorca dovessero trasformarsi fisicamente nell’inquadratura. Faccio un esempio. Versi come “yo no tengo la culpa, que la culpa es de la tierra “dovevano essere pronunciati per mantenere la potenza delle parole, mentre altri come “qué vidrios se me clavan en la lengua!” potevano trasformarsi in cristalli che si piantassero nella lingua, nella bocca, nel sangue della sposa. Abbiamo dunque fatto una lettura mirata per distinguere ciò che doveva trasformarsi in qualcosa di fisico, di cinematografico, di reale, di forma, di luce, da ciò che doveva continuare ad essere parola. Questa è stata la cosa più difficile.[MORE]

A.M: quali sensazioni dovevano trasmettere i tuoi personaggi? In particolare, cos’hai chiesto ad Inma Cuesta, protagonista di un’interpretazione di grande emotività?

P.O: i personaggi di Lorca, tutti, soprattutto quelli femminili, sono come delle “bombe”, perché quello che portano dentro è desiderio, amore, costruzione ma anche distruzione. In questo caso vale soprattutto per il personaggio della novia, di Inma Cuesta, ma anche della madre, anzi: la madre con più dolore, con più violenza. Non sono persone, Lorca li tratteggia come dee o come icone, come miti, che si fanno carico di questa potenza. Con Inma abbiamo parlato molte volte per interpretare così questi personaggi: sono donne caricate di tutto il simbolismo del desiderio e della morte. La camera doveva scendere a livello terreno, le inquadrature soffermarsi su ogni gesto e angustia, ma in fondo si tratta di personaggi che stanno in un altro luogo rispetto a quelli “quotidiani” con cui abbiamo a che fare in altre sceneggiature.

A.M: i paesaggi del film La novia sono molto importanti, visivamente e in senso figurato. Ma girare in quei posti non deve essere stato facile…

P.O: sì, in effetti, scegliere paesaggi tanto belli è stato una difficoltà aggiuntiva al momento di girare, soprattutto perché la nostra è una pellicola a budget ristretto. I paesaggi ci aiutano molto, ma ci hanno anche complicato le cose. In questi paesaggi Lorca situa le passioni, i suoi conflitti, il suo mondo, in al confine tra il reale ed il simbolico, l’irreale, il magico. Non abbandona la realtà, e allo stesso tempo situa le sue tragedie in luoghi molto legati alla natura, alla campagna, al mondo fisico degli elementi della terra, del sangue, degli astri, della luce del sole, degli alberi e della mancanza di alberi: questo è il suo mondo! Tutti questi elementi si trasformano nei simboli della passione dei personaggi. come dicevamo prima, forse il verso più conosciuto di Bodas de sangre è “io non ho la colpa, la colpa è della terra”, per questo il paesaggio doveva parlare, doveva essere un elemento in grado di condizionare i sentimenti. Abbiamo cercato i paesaggi più desertici e mediterranei della Spagna e in questo caso anche della Cappadocia, in Turchia. Il paesaggio è un personaggio, anzi, più che un personaggio è un canale fondamentale per far vivere passioni così forti.

A.M: in tema di paesaggi, se dovessi disegnare una cartina, una mappa ad uso degli spettatori italiani, per orientarsi nel mondo del cinema spagnolo, come lo faresti?

P.O: se fosse una cartina, il cinema spagnolo di oggi sarebbe simile alla mia regione. Vivo in una regione in Aragona, a Saragozza, che sta tra Barcellona e Madrid, giusto nel mezzo, ed il cinema spagnolo sta, in un luogo diverso e unico, a metà strada tra le cinematografie, come quella americana o indiana, con un’identità molto forte. La nostra identità è contraddistinta dalla lingua, dai paesaggi, dall’espressione del sentimento, e credo che sia così anche per gli italiani, a differenza della grande cultura protestante ed anglossassone. Abbiamo un paesaggio più florido, non siamo una pianura con percorsi placidi: in questa cartina immaginaria ci sarebbero cascate, prati fioriti, rocce molto dure, cose estreme. Io vivo in una regione dove ci sono le alte montagne, i Pirenei, ma anche un deserto: quello più duro, più secco che ci sia. Credo che il cinema spagnolo in questo momento offra con i suoi autori una gran quantità di paesaggi e di tipi di film che molta gente che non li conosce si sorprende quando vi si avvicina. Il cinema di J.A. Bayona non ha niente a che vedere con quello di Almodóvar, che a sua volta è diverso da quello di tanti registi che lavorano con budget forse inferiori, che a sua volta non ha niente a che vedere con pellicole più diffuse come quelle di Cesc Gay o di Icíar Bollaín , sicuramente diverse da quelle che fa Carlos Vermut o che faccio io.

A.M: esiste una peculiarità del cinema femminile? E soprattutto, al momento di proporre un progetto, cambia qualcosa a livello di produzione, anche in termini di budget?

P.O: è vero che a poco a poco le donne sono entrate nel cinema in una pluralità di racconti, di mondi, di emozioni, di possibilità, allontanandosi da quello che spesso ci si aspetta da noi come esclusivamente femminile ed immergendoci in altri tipi di mondi. Tuttavia, quando si tratta di grandi produzioni, i grandi studi e le grandi televisioni, peraltro senza ragioni obiettive, non concedono fiducia affinché le donne si sobbarchino questo peso. Per esempio, un film della Marvel negli Stati Uniti, o grandi film prodotti dalla Atresmedia o 35 in Spagna non sono affidati alle donne, perché a volte si continua a pensare che le donne fanno buone pellicole, ma piccole, intime, fondate sull’aspetto emozionale: quando poi, tutto il cinema si basa sulle emozioni! C’è qualcosa a livello di cultura e di educazione che è molto sottile: ascoltano i nostri progetti e li producono, ma quando c’è da fare un salto di produzione è difficile per una donna qui.

A.M: ci sono registi italiani che ti hanno ispirato o che semplicemente ti appassionano?

P.O: ogni volta che mi chiedono di riconoscere qualcosa di me in qualche regista, è difficile rispondere, ma per me il regista più imprescindibile della cinematografia mondiale è Paolo Sorrentino, per la libertà con cui ha aperto una rotta universale che cambia i codici ed i canoni sottilmente e progressivamente stabiliti dal cinema anglosassone. Li fa saltare con un’attitudine di libertà e poesia, che va dalla malinconia all’irriverenza alla bellezza: mi ha insegnato tantissimo. Se dovessi indicare un solo regista che mi sta insegnando le cose più importanti sul fare cinema, direi Paolo Sorrentino.

A.M: com’è cambiato il tuo stile dal tuo primo lungometraggio, De tu ventana a la mía?

P.O: ciò che ho cercato fare è stato essere più coraggiosa ed estrema, usare il linguaggio con maggiore pienezza. Ad alcuni piace, ad altri no. Mi piace costruire il linguaggio del cinema nella maniera più bella ed estrema in termini estetici, nel vero senso della parola, ossia di “trattamento della forma”: la luce, la forma di ogni oggetto, la parola, l’uso del suono, la colonna sonora… Tutto questo cerco di farlo in ogni racconto in maniera più intensa affinché sia più intensa l’esperienza stessa dello spettatore. Il cinema ti fa vivere esperienze che nella vita quotidiana non potresti sperimentare, te le offre in maniera profonda. Non so se ci riesco sempre, ma è questa la mia intenzione.

A.M: progetti in cantiere? Mi risulta che stai lavorando a due sceneggiature…

P.O: sì, uno è una ricostruzione del mito di Barbablù: è un racconto sul dominio e sulla liberazione delle donne. L’altro adatta un testo di Juan Mayorga, drammaturgo spagnolo contemporaneo che considero di grande interesse: un altro racconto di donne della stessa famiglia, in cui si parla delle crepe della memoria e dell’immaginazione.

A.M: grazie, perché è stato bello parlare sia di come materialmente si fa cinema, sia di teoria del cinema!

P.O: non sempre c’è l’opportunità di poter parlare con calma e profondità! Grazie a te!

Scheda IMDB


(in copertina: dettaglio di fotogramma del film La novia; all'interno: Paula Ortiz sul set con Inma Cuesta, Manuela Vellés, Consuelo Trujillo e Verónica Moral. Foto di Jorge Fuembuena disponibile sul sito a6cinema.com. Si ringrazia Goyo Ramos)

Antonio Maiorino
 


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