Padrenostro, intervista a Claudio Noce: "A Favino chiesi di fidarsi, mi ha riportato a mio padre"
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Padrenostro, intervista a Claudio Noce: "A Favino chiesi di fidarsi, mi ha riportato a mio padre"

sabato 3 ottobre, 2020

Ho sempre molta difficoltà a definirmi un artista, mi dice Claudio Noce, regista di Padrenostro, quando nelle battute iniziali del nostro confronto, secondo il classico cliché per cui l’intervistatore viene interrogato dall’intervistato, rispondendo a una sua domanda spiego che negli ultimi anni faccio più interviste che recensioni perché amo confrontarmi con l’artista per farne emergere il punto di vista. Non è un refuso: intendevo proprio un sinonimo di regista. Claudio mi dice: “quando leggiamo una recensione buona o meno buona, così così, tremenda, la cosa più frustrante – e sono convinto che la pensino così anche i colleghi – è l’impossibilità di confrontarsi anche su una cosa che ci fate notare che ci fa accendere una lampadina”.  A Venezia, in concorso alla 77esima Mostra Internazionale di Cinema, Padrenostro è passato per la prima e più impegnativa delle arene. Senza sfigurare: considerando che Pierfrancesco Favino ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione del cinema.

Ma Claudio Noce, per girare questo film, si sarà prima di tutto confrontato con sé stesso: dall’album familiare ripesca le cicatrici, ci cammina sul margine. Il padre Alfonso Noce (Favino nel film), era stato Responsabile dell’Antiterrorismo in Italia Centrale, finendo nel mirino dei NAP – Nucleo Armati Proletari – e subendo un attentato nel 1976 a Roma, da vicequestore. Morirono un uomo della scorta, Prisco Palumbo, e il terrorista Martino Zicchitella. Claudio aveva solo due anni, ma il fratello, più grande, ne visse con maggior coscienza lo shock, con lo strascico del trauma ineluttabile per la famiglia tutta anche negli anni a venire. Padrenostro è negli occhi del bambino, Valerio (Mattia Garaci): pieni di immaginazione, pieni di apprensione.
Ne abbiamo parlato, con attenzione ai dettagli della creazione filmica - cioè artistica - col regista Claudio Noce.


ANTONIO MAIORINO: rompighiaccio puro prima di entrare nell’analisi del film: com’è stato presentare Padrenostro a Venezia?

CLAUDIO NOCE: Venezia implica un confronto molto particolare. Io ero stato alla Settimana della Critica, poi in Concorso ma con cortometraggi; avevo già vissuto questa partita da spettatore e da studente, sia da regista in altre sezioni, è una roba diversa. Quando ti dicono che sei in concorso è uno dei giorni più belli della tua vita, poi inizi a pensare: mi sfonderanno. È un confronto molto tosto e sono fiero di esserne uscito attraversando le fiamme. Adesso la partita è un’altra. Al pubblico il film arriva come l’ho pensato, mi arrivano tanti messaggi. A Milano all’Anteo all’esterno ho parlato con tanta gente. Il pubblico e la critica, confermo, sono due mondi diversi.


A.M: ci torneremo. Intanto, partirei da qui: un film riesce spesso a emozionare quando ha qualcosa di profondamente personale da parte del regista. Qualcuno scomoda in questi casi la definizione di “cinema come terapia”. Non oserei arrivare a tanto, ma ti chiedo: dovendo raccontare ciò che tuo fratello, tu e la tua famiglia avete vissuto prima e dopo l’attentato a tuo padre Alfonso Noce, cos’hai scoperto dentro – emotivamente – e fuori – col lavoro di documentazione sull’attentato?

C.L: centri proprio l’obiettivo, si tratta esattamente del mio percorso. Di fatto, l’idea di raccontare una storia legata a questo avvenimento, a questo trauma accaduto a me e alla mia famiglia, c’è dentro di me da quando ho iniziato a fare questo lavoro e ho pensato di raccontare storie attraverso i film. Il problema era di trovare la chiave giusta per raccontare il trauma senza fare un lavoro di auto-terapia cinematografica: non era questo che m’interessava, perché in quel modo non sarei uscito da quell’incastro emotivo in cui mi trovavo, insieme alla mia famiglia, a causa di quell’esperienza. Senza dircelo, infatti, io, i miei genitori e tutti in famiglia, per 45 anni ci siamo detti che quella cosa era accaduta... ma non era accaduta. Raccontare i semplici fatti significava uscire dal blocco di rimozione in maniera sbagliata. Mi serviva altro: un punto di vista rigoroso. Ho scelto così quello di un bambino, Valerio, soprattutto nella prima parte. Si tratta del mio sguardo, ma naturalmente anche quello di mio fratello, visto che è stato lui a vivere quell’esperienza. Lui aveva 12 anni, io solo 2. Parlando con gli psicologi, in seguito, mi hanno comunque confermato che il trauma si è formato lo stesso, nonostante la coscienza fosse quella di un bambino di due anni.


A.M: scegliere un punto di vista, però, comporta delle conseguenze. Se gli occhi sono quelli di un bambino, oltre al ricordo, e oltre alla ricostruzione dello scenario sociale degli anni Settanta, dobbiamo aspettarci una buona dose d’immaginazione.

C.N: esatto. Non bastava il profondo lavoro sul ricordo, né volevo avere la presunzione di provare a raccontare gli anni di piombo. Non mi sembrava necessario rispetto alla mia situazione emotiva che emerge in questa storia e in questo film. Al racconto di quegli anni, ho pensato, allora, di unire una storia di amicizia dentro un realismo magico. Si crea così una dicotomia fra realtà, percorso nel dolore, percorso verso il padre da un lato, e la fiaba con le sue regole dall’altro. Io e la produzione, nello scrivere un copione in cui il personaggio di Christian (Francesco Ghenghi, n.d.R.) appare e scompare, poi riappare e diventa vero, per poi riscomparire, ci siamo presi un grande rischio, ma coscienti di averlo voluto fare per raccontare il percorso di un bambino che cresce attraverso lo sguardo dell’immaginazione e della favola. Christian esiste, ma appare e scompare perché il punto di vista è quello di Valerio, che non vuole perdere lo sguardo dell’infanzia e dell’amico immaginario.


A.M: nei primi minuti del film, siamo a casa di Valerio, ma il padre è una figura evocata: dal desiderio, dall’attesa; persino quando appare, non lo si vede subito, ma se ne percepisce la presenza fuori campo. Ecco: come racconteresti questa sorta di strategia del fuori campo nel presentare la figura decisiva del padre?

C.N: è assolutamente così. Questo aspetto è stato nella mia testa sin dalla scrittura anche prima di pensare a Pierfrancesco Favino. Lui è entrato molto velocemente nel progetto, dopo che gli avevo fatto leggere molto in fretta nel progetto, gli avevo fatto leggere un lungo trattamento (narrazione estesa del soggetto, che ne fa capire finalità e caratteristiche, n.d.R.). Oltre a essere un grande attore, Pierfrancesco aveva la fisicità del tipo di uomo e di padre che volevo raccontare. Fino a un certo punto la mia strategia formale, di linguaggio, di racconto è stata esattamente questa: far arrivare pian piano la figura del padre allo spettatore attraverso gli occhi e lo sguardo di un bambino che cerca di catturare una figura imprendibile, un eroe. Mio padre era così, appariva e scompariva: era una telefonata, un campanello che suonava. Ad esempio, nel film, quando il padre torna dall’ospedale dopo l’attentato, io resto fortemente su Valerio prima di andare sul padre in controcampo, perché volevo guardare il ritorno del padre dal punto di vista del bambino e non in maniera oggettiva. Un altro esempio: quando Valerio dopo la palestra scende dal nascondiglio dove giocava a Subbuteo, entra in cucina e noi restiamo su di lui, mentre il padre è già entrato: “giovanò!”, gli dice.



A.M: resto in tema: impressionante pensare a questa gestione del timing d’ingresso di Pierfrancesco Favino. È il personaggio che genera il titolo film, ed è interpretato da “un pezzo da novanta”, tanto che Pierfrancesco – o Picchio, come lo chiami tu – ha vinto la Coppa Volpi a Venezia. Eppure, l’hai centellinato.

C.N: sarebbe bello che qualcuno notasse la generosità di Favino. Ha fatto due ruoli che l’hanno portato dove l’hanno portato (Tommaso Buscetta ne Il traditore di Marco Bellocchio e Bettino Craxi in Hammamet di Gianni Amelio, n.d.R.), ma ha accettato questo tipo di linguaggio con tranquillità. Lui è anche produttore, conosceva le mie intenzioni dall’inizio, ma secondo me fino al set non aveva capito tutto fino in fondo. Quando poi sei lì, capisci effettivamente il lavoro che sta facendo il regista. Ti svelo che in realtà avevo anche un’altra inquadratura di Pierfrancesco Favino per poter far entrare il padre in maniera diversa, ma non ho mai pensato di montarla. Allo stesso modo, prendiamo la scena successiva a quando Valerio ha litigato a scuola: è la scena che chiamo del finto attentato, in cui Valerio è in macchina e c’è un incidente che sembra un attentato. Il padre gli dice di stare giù. Ebbene, in realtà non faccio mai un piano frontale di Favino: lo vediamo solo di nuca. Era importante raccontare la dimensione del bambino nella macchina blindata, lì il padre è solo quello: un uomo di nuca che legge un giornale.


A.M: nella sua dimensione di bambino, Valerio, vien da dire usando un termine in uso in psicologia, mostra una forte intelligenza visiva: rielabora tutto col filtro delle immagini. Ad esempio: i disegni, il profilo del cadavere col gessetto a terra, i fumetti (Tex Willer gli ricorda l’eroico padre?). La scena clamorosa è però quella in cui usa la cinepresa in una serata in famiglia e scruta il volto del padre. Visto che Valerio incarna un po’ tuo fratello, un po’ te, questo filtro delle immagini è suo, o esprime la tua vena di cineasta?

C.N: è una cosa mia. Come ti dicevo, Valerio è un mix di ricordi, peraltro non solo di quegli anni, perché posso dire che la tensione si è protratta fino all’inizio degli anni ’80. Vale quello che hai notato: il filtro delle immagini e della cinepresa. Ti racconto meglio quella scena. Quello è un momento in cui Pierfrancesco non stava capendo esattamente bene. Lavorare con Favino, sai, significa lavorare con un attore iper-preparato, molto in controllo, che non può non sapere tutto del testo, ossessivo e morboso nell’analisi delle cose e nella preparazione. In questo caso, però, non faceva il ruolo di un personaggio pubblico come gli è accaduto ultimamente, bensì raccontava un archetipo, un padre. Anche se non gli ho fatto incontrare mio padre, ha saputo riportarmi a molte cose del mio genitore perché ne ha visto le immagini e con una telefonata ne ha sentito la vera voce, ma la sua diventa più in generale una figura universale di padre. È un attore talmente preciso che non c’era bisogno di dire nulla. Tuttavia, c’erano momenti in cui gli chiedevo di fidarsi: erano quelli in cui giocavo più col linguaggio visivo, che per me ha un valore narrativo. Quando ho chiesto a Mattia\Valerio di abbassare la macchina da presa e guardare il padre, e a Pierfrancesco di guardare in macchina, quest’ultimo non capiva inizialmente cosa stesse succedendo. Per me lì c’è un appuntamento gigantesco del film. Valerio si rende conto che il padre è un eroe ferito: vede la ferita. Ma da lì inizia anche il percorso del padre stesso: dallo sguardo del figlio, Alfonso capisce che qualcosa sta cambiando. Non è lo sguardo di sempre.


A.M: Mattia Garaci per Valerio e Francesco Gheghi per Christian sono piccoli attori straordinari che hai scelto con lunghi provini, dopo il casting con Sara Casani. C’è una netta differenza tra i due personaggi: Christian è arruffato, sembra quasi un ragazzo di vita alla Pasolini. C’è però una differenza anche tra i due attori: indubbiamente Francesco Gheghi aveva più esperienza (di recente, ad esempio, Mio fratello rincorre i dinosauri). Come hai gestito questo doppio dislivello, filmico e professionale?

C.N: anche se Francesco aveva già avuto esperienze importanti, non ho considerato questa differenza professionale con Mattia in fase di regia. Francesco ha il carattere di Christian anche nella vita, ma sul set sembrava cercare di volermi dimostrare la sua dimestichezza col cinema: voleva farmi vedere che era attore. Durante i provini, ti confesso, questa sua tendenza mi aveva in parte frenato. Ho pensato che forse non andasse bene per il ruolo di Christian, perché volevo un ragazzo selvaggio alla Truffaut – o ragazzo di vita, come dici tu. In realtà poi ho capito che tutta questa sovrastruttura era poca roba: si trattava solo di un suo modo di proteggersi, ma non costituiva un problema per il film. Per quanto riguarda Valerio, invece, sono stati visti 400 bambini; io di meno, ma la mia Casting Director anche di più. Avevamo bisogno di affidarci a un piccolo miracolo, che poi è successo: senza trovare una stella, dovevamo trovare qualcuno come Mattia Garaci.



A.M: scegliere Mattia è stato un miracolo all’improvviso, un amore a prima vista? Oppure hai dovuto pensarci molto prima di affidargli un ruolo così delicato a livello filmico, ma anche a livello personale – essendo il personaggio di Valerio un mix tra te e tuo fratello?

C.N: ti rispondo con un aneddoto. Essendo così biondo e diverso da mio fratello, la prima volta che l’ho visto, prima in video poi dal vivo, ha fatto un provino molto buono. Guardo la Casting Director, Sara e le dico: “è bravissimo, per il prossimo film chiamerò questo bambino. Ma per questo è troppo biondo, troppo un bambino stile Danimarca!”. Poi, però, sono andato a casa e mi sono detto: ma perché pensare questo? Ho rivisto i provini ed era uno spettacolo: era in ascolto, era a fuoco, aveva un occhio magico. Così, infine, l’ho richiamato. Poi Sara mi ha confessato: “se non mi avessi detto tu di richiamarlo, ti avrei legato alla sedia e ti avrei detto: deve tornare Mattia!”. Lo richiamo e mi disinteresso della somiglianza; a quel punto lavoro sulla madre, perché non posso prendere qualcuna dai colori come Picchio. Barbara Ronchi, molto vicina a quei colori, ha anche cambiato colore dei capelli per avvicinarsi al personaggio di mia madre. Dopo un provino assieme tra Mattia e Francesco, siamo rimasti senza parole: era quello che cercavamo! Francesco un po’ bulletto, sfrontato, sicuro di sé, bulletto, con un atteggiamento non dissimile da quello che nella vita; Mattia piccolo lord, incline alla timidezza e alla solitudine. Era il personaggio che volevo raccontare, molto simile a mio fratello, meno a me, che ho fatto un percorso diverso, più da ribelle. Non l’ho mai detto, ma paradossalmente forse sono più vicino a Christian rispetto all’atteggiamento di Valerio. Invece Valerio è proprio mio fratello come me l’hanno raccontato e come me l’ha raccontato lui stesso, ad esempio nei giochi e nell’amico immaginario. Ho approfittato poco della loro naturalezza. Io e la mia coach gli abbiamo chiesto di fare gli attori e non i ragazzini. Se avessi chiesto a Francesco di essere solo naturale non avremmo avuto questo risultato, idem con Mattia.


A.M: c’è una canzone dei New Trolls grosso modo di quegli anni, del 1978, che si chiama Quella carezza della sera. So che non c’entra niente, ma mi offre un assist. Il ritornello di quella canzone fa: “Non so più se mi manca di più\ quella carezza della sera o quella voglia d’avventura...”. Ecco: la carezza della sera, la voglia di avventura: sono le due anime del film, un po’ dramma familiare, un po’ avventuroso romanzo di formazione. Ritieni che le due anime corrano in parallelo fino alla fine del film, o si fondano nel momento in cui Christian si materializza in Calabria?

C.N: la seconda che hai detto. Christian, in effetti, si materializza anche al mondo degli adulti, ma forse, più che parlare di una materializzazione, dovremmo dire che la magia del mondo dell’infanzia fa i conti con la realtà. In altre parole, Valerio sta crescendo, anche se non se ne accorge, perché accade naturalmente. Succede allora che quando gioca a nascondino, l’amico Christian gli scompare, ma nel frattempo riappare col padre: così, portiamo il personaggio di Alfonso dentro a un meccanismo che fino a quel momento era un meccanismo a due. È da quel momento che, come indicavi, il film diventa più coeso a livello narrativo. Valerio è felice perché può tranquillamente vivere l’amicizia non come separazione dai suoi altri affetti, bensì all’interno del percorso di avvicinamento al padre, il percorso di un amore ferito. Non solo il film diventa più coeso, bensì si caratterizza per più punti di vista, aprendosi sia ad Alfonso che a Christian, oltre che a Valerio. Quello che accade, accade veramente, e prende un respiro di favola nella parte finale.


A.M: ci sono anche due anime “visive” nel film. Il cambio di scenario, da Roma alla Calabria, sembra generare effetti narrativi differenti. In che modo detto cambio contribuisce alla drammaturgia del film?

C.N: (RISPOSTA CON POSSIBILI SPOILER, n.d.R.) tantissimo, ha imposto una serie di cambiamenti: formali, estetici, fotografici. Il tunnel che la famiglia attraversa per giungere in Calabria sancisce il passaggio attraverso la paura a un’altra fase dei percorsi iniziatici, quella del romanzo di formazione che è sia del bambino che del padre. A livello fotografico, l’immagine si carica di un differente valore narrativo e drammaturgico. Una curiosità: abbiamo usato lenti sferiche Logo Vintage per la parte di Roma, in cui sto molto addosso ai personaggi perché era importante dare agli spettatori la percezione di stare dentro la scena. Qui il punto di vista è quello di Valerio e ho posizionato la macchina da presa a quell’altezza senza pensare a una oggettiva vera e propria. Nella seconda parte abbiamo cambiato il linguaggio, usando lenti anamorfiche, dette anche lenti da cinemascope, proprio perché la storia lì si apre a tutta una serie di cose. Quando Valerio si sveglia dopo che il padre l’aveva portato a letto in braccio alla fine del viaggio, riappare magicamente la Calabria e abbiamo una visione diversa, molto più oggettiva. C’è al pranzo a tavola un gioco di sguardi tra padri, con Alfonso che guarda il suo, di padre, e da lì effettivamente si capisce che il racconto è cambiato.


A.M: al di là degli aspetti tecnici, cosa ti ha ispirato la Calabria? Penso alle riunioni di famiglia, ai paesaggi, alle gite al mare, persino alla figura dell’anziano, quasi uno sciamano, che guarisce Valerio da un infortunio. Sembra un patrimonio narratologico della terra stessa.

C.N: per organizzazione mia mentale, drammaturgia e stile, spesso mi piace lasciare una parte all’improvvisazione. La Calabria mi ha suggerito tante cose, tanti cambi, come dici tu, nel racconto stesso. Lo sciamano in particolare è un elemento molto discusso in sceneggiatura. Dal punto di vista antropologico, appartiene al racconto di un luogo che effettivamente ancora oggi ha dei personaggi del genere. E poi, in realtà, ha un valore molto forte anche dal punto di vista simbolico, perché lo “sciamano” – come lo chiami tu, ma ti rivelo che anche noi l’abbiamo chiamato così –  suggerisce dei passaggi narrativi, è come se si ponesse al di sopra della scena come deus ex machina, in realtà avverte i personaggi di quello che sta succedendo, questa è l’intenzione nascosta e spero sia arrivata.


A.M: a proposito, uso una struttura circolare per questa intervista – come tu per il tuo film – e ti chiedo di approfondire: come sta “arrivando” la tua opera alla gente? Questa è un’intervista di quelle che chiamo “di seconda battuta”, in cui il regista può già fare un consuntivo sulla reazione del pubblico.

C.N: è un momento molto bello per il film. Prima Venezia, poi Milano, poi la Sicilia. È andato bene in sala, quindi siamo contenti. Adesso bisogna provare a resistere il più possibile in sala nonostante il momento non sia semplice. Di recente sono stato a Sky Arte ed ho discusso del fatto che nessuno dal punto di vista istituzionale abbia detto alla gente che il cinema è riaperto. Ci siamo accollati noi del movimento e della cultura cinematografica il compito di far capire alla gente che andare al cinema è una cosa che si può fare.


A.M: e dalla critica che reazioni ti hanno colpito?

C.N: nel percorso che sta facendo il film, all’inizio la critica è stata divisa. Una o due volte ho avuto la sensazione che il critico non stia lì col taccuino e con la penna, bensì che parta male con un pregiudizio di fondo. Così finisci per chiederti: ma poi, dov’è la critica? C’è semplicemente l’espressione di opinioni del tipo, “a me non è piaciuto”, “questo film ha un approccio superficiale su argomento importante”, ecc. Sono tre anni di lavoro, sofferenza, messa in gioco. Con qualche tuo collega sono riuscito a confrontarmi, ed è stato interessante perché mi ha fatto ripensare alla questione del cambio di registro del film, quelle che chiamavi “le due anime” di Padrenostro. Non che non ne fossi pienamente convinto, ma mi sono interrogato su come potessi raccontarlo per farlo arrivare in maniera più universale a tutti senza far muovere dalla sedia lo spettatore chiedendosi cosa stia succedendo. Ma a parte queste considerazioni, è bello quello che sta accadendo al film e sono soddisfatto di quello che sta succedendo.


SCHEDA DEL FILM

USCITA: 24 settembre 2020
GENERE: drammatico
PAESE: Italia
DURATA: 122'
REGIA: Claudio Noce
CAST: Pierfrancesco Favino, Barbara Ronchi, Mattia Garaci, Francesco Gheghi
SCENEGGIATURA: Claudio Noce, Enrico Audenino
FOTOGRAFIA: Michele D'Attanasio
MONTAGGIO: Giogiò Franchini
MUSICHE: Mattia Carratello, Stefano Ratchev
PRODUZIONE: Lungta Film, PKO Cinema & Co, Tendercapital Productions in collaborazione con Vision Distribution e con il sostegno della Calabria Film Commission

(immagini, fonte: Vision Distribution; in copertina: Pierfrancesco Favino\Alfonso e Mattia Garaci\Valerio in un fotogramma di Padrenostro; all'interno, prima immagine: Alfonso abbraccia Valerio in un fotogramma del film; seconda immagine: Francesco Gheghi\Christian e Mattia Garaci\Valerio in un fotogramma del film. Si ringrazia Marinella Di Rosa)



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