Shoah: le "memorie dal basso"
Societa' Campania

Shoah: le "memorie dal basso"

martedì 27 gennaio, 2015

NAPOLI, 27 GENNAIO 2015- Il rapporto tra storia e memoria, come direbbe lo storico francese Jacques Revel, ha origini antiche quanto le società storiche. Ogni individuo possiede una memoria particolare che vale per la sua singolarità, pertanto la memoria fornisce una percezione singolare del passato. Il racconto orale costituisce uno degli strumenti tramite cui è possibile rielaborare il ricordo e “liberarlo” da una rappresentazione statica. Le testimonianze orali non vanno considerate come semplice esposizione di fatti, bensì come un fatto, un evento che ha un significato proprio; esse forniscono una storia alternativa a quella ufficiale e permettono di accedere al senso comune e alla quotidianità. Ad essere ricostruiti non sono solo i grandi eventi del passato, ma anche la quotidianità e gli aspetti della vita privata degli individui. La memoria è rielaborazione del passato condizionata dalle esperienze vissute. [MORE]


Raccontare un evento storico come la Shoah attraverso le testimonianze orali di chi certi momenti li ha vissuti, vuol dire fornire una ricostruzione del passato lontana dalle generalizzazioni, dalla staticità e dall’oggettività dei libri e dei documenti storici. Le cosiddette memorie dal basso, sempre per riprendere un’espressione cara a Revel, acquistano pertanto un’importanza fondamentale.


Riportiamo per questo, in occasione della “Giornata della memoria”, stralci di alcune testimonianze della cosiddetta “gente comune”, di donne e uomini all’epoca bambini, sopravvissuti all’orrore, tratte dall’Enciclopedia dell’Olocausto.


Fritzie Weiss Fritzshall, una donna ceca, che sopravvisse fingendosi più vecchia della sua età e quindi in grado di lavorare, racconta come si svolgeva il processo di selezione ad Auschwitz:


«Dovevamo mostrare di avere ancora la forza sufficiente o per lavorare o per sopravvivere un altro giorno. Mi ricordo di alcune donne che ... ecco ... i capelli stavano ricrescendo e si vedeva che cominciavano ad avere del grigio: allora loro andavano a prendere un pezzetto di carbone da una delle stufe delle baracche e lo usavano per colorare i capelli, per sembrare un po' più giovani. Voglio dire, uno cominciava ad avere i capelli bianchi all'età di ... forse... diciotto o diciannove anni, in quelle condizioni di vita. Poi, noi dovevamo... dovevamo correre davanti a chiunque stesse facendo la selezione per dimostrare che potevamo sopravvivere un altro giorno. Se uno aveva una cicatrice, o un foruncolo, se uno non correva abbastanza veloce, se uno non sembrava giusto per qualsiasi motivo che sembrasse valido alla persona che faceva la selezione ... insomma ... quello stava lì con un bastone, [e ti mandava] a destra o a sinistra, mentre tu correvi; e uno non sapeva mai se era nella fila buona o in quella cattiva: una fila era destinata alle camere a gas, l'altra invece sarebbe tornata al campo e alle baracche per vivere ancora almeno un altro giorno.»


Charlene Schiff, originaria della Polonia, che riuscì a sopravvivere nascondendosi nei boschi intorno a Horochow e fu poi liberata dalle truppe sovietiche, invece, descrive come i bambini facessero entrare il cibo di nascosto nel ghetto di Horochow:


«Molto ingeniosamente scavammo due buchi sotto il recinto, grandi abbastanza perché un bambino potesse strisciare dall'altra parte e poi una volta fuori si toglieva la stella di David e provava a comportarsi come un essere umano normale, e andava alla ricerca di un po' di cibo. Ogni tanto, i bambini portavano a casa, nel ghetto, qualcosa da mangiare. Io l'ho fatto diverse volte. Era molto pericoloso perché se venivi preso pagavi con la vita. Voglio dire, quello era l'ordine, di sparare... di uccidere chi usciva... il colpevole insomma. Io fui molto fortunata e ogni tanto riuscii a portare a casa una fetta di pane, una carota, o una patata, a volte persino un uovo, e queste erano grandi conquiste per noi. Mia madre mi fece promettere che non l'avrei più fatto, ma io le disobbedii.»


Thomas Buergenthal, originario della Cecoslovacchia, descrive uno dei campi di lavoro di Kielce e i compiti che gli venivano assegnati:


«Andammo a finire in una fabbrica dove facevano carri, carri di legno per il fronte orientale. A quel punto mi procurai un lavoro molto interessante. Noi sapevamo che per sopravvivere in quel posto era importante avere qualcosa da fare. Io non avevo ancora dieci anni. Così andai dal comandante dei Tedeschi - il comandante del campo - e gli chiesi se avesse bisogno di un ragazzino che gli facesse da fattorino. Lui, ecco, mi guardò e disse: "Va bene." E così, in pratica, il mio lavoro... in quel campo... consistette nello stare seduto fuori dalla sua porta e aspettare che mi affidasse delle commissioni per lui, come andare a prendergli la bicicletta, o portare qualcosa in qualche posto. Il lavoro aveva grandi vantaggi perché potevo sentire tutto quello che succedeva e potevo riferirlo; soprattutto potevo avvertire la gente del suo arrivo, perché lo precedevo di corsa dicendo che stava arrivando. E così mi diedero un segnale che dovevo fare. Lui aveva... cioè, indossava un cappello con una piuma e se io passavo facendo questo gesto sapevano che lui stava arrivando. E era importante perché se i Tedeschi vedevano qualcuno che non lavorava, lo picchiavano di brutto.»

(Fonte: www.ushmm.org)

[foto: aostanews24.it]
 

Antonella Sica


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