Una storia tutta all'italiana: la vicenda della diga Alaco
Cronaca Calabria

Una storia tutta all'italiana: la vicenda della diga Alaco

martedì 13 novembre, 2012

CALABRIA, 13 NOVEMBRE 2012 - Era l’ormai lontano 2006 l’anno in cui nelle Serre vibonesi l’impianto di potabilizzazione iniziò a trattare l’acqua invasata della diga Alaco. Il potabilizzatore era in funzione da quasi 30 anni e fino ad allora aveva lavorato in modo eccellente quantità moderate di acqua. Al momento della costruzione della diga entra in scena la Sorical, società a capitale misto per la gestione dell’approvvigionamento e la fornitura all’ingrosso dell’acqua ad uso potabile sul territorio calabrese. Ed è da qui che la nostra storia prende le mosse.[MORE]

Partiamo dalle cifre: da un’iniziale spesa prevista di 15 miliardi delle vecchie lire per costruire la diga, l’opera conclusa viene a costare 150 miliardi. Abbandonando il lato economico, passiamo a quello pratico. La società pubblica/privata fissa un obiettivo ben preciso: passare dai 200ml di acqua al secondo che il potabilizzatore ha gestito fino ad allora ai 350ml al secondo, in modo da liberare maggiori quantità di oro blu ai Comuni e poter fatturare più denaro. Pur sapendo che l’impianto potrebbe non reggere tale sforzo, si prosegue comunque in questo senso, con il risultato che l’acqua salta alcuni passaggi di filtraggio e inizia ad emanare cattivo odore oltre a presentare un colore giallastro. Inizia la fase dello scarica barile, con il Comune che accusa la Sorical di immettere acqua impura e con la Sorical che accusa i Comuni di avere delle reti idriche danneggiate e in pessime condizioni.

Gli avvisi di non potabilità dell’acqua compaiono e scompaiono come in un gioco di prestigio e a rimetterci sono i cittadini, che vedono uscire dai loro rubinetti un liquido color fango col sapore di ruggine. Mettiamoci ora nei panni dei residenti e pensiamo a come ci sentiremmo se pagassimo ad un privato un’acqua che in realtà è la nostra e che per di più la stessa società ci inquina.

Tutti pensano così che il problema sia il potabilizzatore, che ha sì una parte delle colpe, causate dall’eccessivo carico che si trova a sopportare, ma il vero responsabile è molto più a fondo, in tutti i sensi. Dalle analisi risulta infatti evidente come i fondali del lago artificiale in cui è stata immessa l’acqua non siano stati bonificati dalle infiltrazioni di ferro e manganese. La recinzione che fa da perimetro all’invaso è rotta in più punti e continua ad essere pascolata da vacche, intoccabili perché appartenenti alla malavita organizzata, che immettono le loro feci nelle acque. Sulle sponde della diga emerge schiuma marrone, le pietre sono diventate nere e dal lago fuoriescono piante e tronchi in putrefazione.

C’è dell’altro, e non in meglio. Diversi testimoni, che in Calabria e non solo restano anonimi per tradizione, affermano che, durante l’immissione dell’acqua nel lago, sul fondale fossero ancora presenti camion, gomme, batterie di macchine, carcasse di mucche e cavalli. Ma non è finita qui, la cosa sconvolgente è rappresentata dal fatto che, a detta di alcune persone che lavoravano in quel periodo nell’area interessata, degli autocarri provenienti da Amantea e appartenenti all’azienda Coccimiglio, società nota per un presunto traffico di rifiuti tossici e smaltimento di scarti industriali come arsenico e cesio 137, scaricavano quasi ogni giorno i propri carichi all’interno dell’invaso.

Mentre i responsabili dell’acquedotto e della lavorazione delle acque, nonostante il sequestro della diga, continuavano a dire che l’acqua era potabile, nella aree in cui 400mila persone usufruivano del servizio, si è registrato un vertiginoso aumento di patologie tumorali che hanno colpito l’apparato digestivo delle vittime.

Cosa ci sia dietro a tutta questa vicenda, dagli affari della ’ndrangheta ai profitti delle società private, è fin troppo chiaro. La storia della diga Alaco potrebbe essere vista come lo specchio della società e dei poteri forti dell’Italia odierna, ovvero l’immagine della collusione tra aziende e ‘ndrine, o meglio, tra politica e mafia.

Massimiliano Chiaravalloti


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