A White, White Day: il vedovo nero in Islanda. Il regista Pálmason: abbiamo tutti un lato oscuro
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A White, White Day: il vedovo nero in Islanda. Il regista Pálmason: abbiamo tutti un lato oscuro

sabato 23 maggio, 2020

Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, A White, White Day di Hlynur Pálmason: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.

Prima alla Semaine de la Critique a Cannes 2019, poi al Festival di Torino l’autunno seguente, dove ha vinto come miglior film, A White, White Day dell’islandese Hlynur Pálmason ha mostrato il talento di un autore che aveva esordito come visual artist, per poi attirare l’attenzione della critica cinematografica col film Winter Brothers. Si spende, in questi casi, la facile espressione di “stile algido”, congeniale, certo, a terre fredde dell’Islanda, ma anche, si direbbe, per alludere all'impeccabile chirurgia dell’operazione visiva: la fotografia curatissima e distante, il montaggio fluido di lunghi piani sequenza o tagliente di certi stacchi subitanei, il calor bianco delle emozioni che esplodono al momento giusto, senza troppe parole.


LA TRAMA DI A WHITE, WHITE DAY

La moglie è morta due anni prima, ma la ferita è fresca come la neve. L’anziano poliziotto in congedo Ingimundur, in un paesino il cui commissariato pare avere solo due agenti, comincia a sospettare che la moglie lo tradisse. La città è piccola e la gente non mormora, ma nel silenzio l’ossessione prende forma per alcuni indizi che affiorano tra gli scatoloni dei lavori in casa. Ingimundur non smette di amare: si prende spesso cura della vivace nipote Salka, che ne illumina le giornate. Ma sa anche odiare, e il buio vien fuori.


PERCHÉ INNAMORARSI DI A WHITE, WHITE DAY

Non è esattamente un time lapse, ma nel lasso di un paio di minuti lo spettatore non vede altro che quella casa nella neve: in ogni stagione, in ogni sfumatura di luce e ombra. Ci s’immerge, con questo prologo, in A White, White Day, prima di avvicinarsi con cautela a Ingimundur (Ingvar Eggert Sigurðsson, visto anche in Justice League), uomo di poche parole e ribollenti traumi. L’anziano nonno, e s’intende, diligente commissario di polizia in congedo, sembra un po’ meno burbero quando è con la biondissima e vivace nipotina Salka. Nel film non c’è lentezza. Il disgelo delle emozioni è un tempo di dentro, che lo spettatore segue scivolando sulla raffinata fotografia di Maria von Hausswolff, incassando accelerazioni drammatiche improvvise ma non immotivate, ferendosi sui picchi di tensione thriller. C’è la ferita, c’è la dolcezza, e il racconto visivo di Pálmason lavora per lasciare di stucco senza stucchevolezza.


L’INTERVISTA: HLYNUR PÁLMASON SI RACCONTA

ANTONIO MAIORINO: Forse per il fatto di essere un non-colore, la fusione di tutti i colori dello spettro, il bianco affascina molto i cineasti sotto il profilo simbolico. Ne parlavo di recente in un'intervista con Théo Court, vincitore del premio per la Migliore Regia al Festival di Venezia 2019 nella Sezione Orizzonti. Il suo ultimo film s’intitola Blanco en Blanco (White on White). Faccio una domanda simile a te: cosa vuol dire il bianco di A White, White Day?

HLYNUR PÁLMASON: Stavo lavorando su una serie fotografica che si chiamava A White Day e m’interessavano soprattutto quei momenti dell’inverno in cui nevica, c’è vento e infuriano tempeste di neve. Volevo fotografare il paesaggio, gli esseri umani e gli animali durante queste tempeste. Quello che ne ho ricavato è una serie di negativi molto bianchi, senza alcuna informazione visiva: c’era solo il bianco. Quando ho cercato di estrapolare le immagini all’interno del bianco, ho visto indizi di figure e movimento: c’era qualcosa nascosto in quel bianco. Quel qualcosa è cresciuto, è diventato una narrazione più grande, così ho cominciato a scriverci su; alla fine ne è venuto fuori un lungometraggio, un film narrativo. Bianco, per me, è mistero, è qualcosa che è nascosto, e questo è in linea col mio principale impulso in fase di scrittura: esplorare ciò che normalmente si cela allo sguardo.


Allo spettatore che guardi A White, White Day, succede qualcosa di simile: il primo contatto non è con i personaggi, ma con la natura. Il prologo del tuo film mostra, nel silenzio umano, il passare del tempo nello stesso spazio isolato attorno a una casa ripresa in lontananza. Quale suggestione volevi evocare?

Stavo cercando di trovare il modo di mescolare il processo di scrittura col processo di sviluppo del film. Volevo che la macchina da presa fosse lì per cominciare a esplorare ciò che si vedeva laddove il film si sarebbe dovuto svolgere. Ho cominciato a filmare, quindi, quando non avevamo nemmeno il finanziamento del film. Abbiamo usato tutti i soldi per affittare la macchina da presa. L’ho tenuta per due anni, durante i quali ho filmato le stagioni, gli umori del tempo e il processo di costruzione della casa che si vede all'inizio, poi grazie a Dio alla fine abbiamo trovato il finanziamento, e sono stati proprio quei materiali ad aiutarci ad averlo, perché avevamo potuto mostrare l’inizio del nostro lavoro.

In tanto cinema, ed anche in tuoi precedenti lavori (Winter Brothers), gli spazi esterni sono un’emanazione di spazi interni, cioè dell’interiorità dei personaggi. È così che succede anche in A White, White Day?

Quando lavoro ad un film, cerco spesso di avere meno location possibili e, piuttosto, di rivisitare le stesse location, mettendo in scena diversi aspetti delle stesse: quando c’è luce, quando fa buio; quando c’è bel tempo, quando fa cattivo tempo. Alla fine succede che la location si trasforma in spazio. Gli spazi interiori, che tutti portiamo dentro, sono insondabili e smisurati, ma mi interessano anche le cose materiali attorno a noi, quelle cose che ci definiscono come esseri umani. Ci lavoro molto, cercando di trovare un equilibrio tra fuori e dentro.


C’è anche qualcuno che cerca di sondarli, questi spazi interiori. Nel tuo film, il protagonista Ingimundur è presto “interrogato” da uno psicanalista, che lo incalza con le proprie domande. Quando il terapista chiede a Ingimundur di dire chi sia, lui risponde con quattro semplici parole, esattamente in quest’ordine: “Padre. Nonno. Poliziotto. Vedovo”. Qual è il senso di un’auto-presentazione così laconica?

Cerco sempre di semplificare le cose. Semplificando, percepisco di riuscire ad addentrarmi nel profondo di esse. Se ci sono troppi eventi o troppi rumori nel film, provvedo a lavorare col direttore della fotografia e con quello del montaggio a quest’opera di semplificazione. Nella messa in scena, il mio obiettivo è quello di essere concreto e diretto, come se stessi aprendo le porte dell’interiorità per invitare lo spettatore ad entrarvi.


Il sonno della ragione genera mostri, diceva Francisco Goya. Ci sarà un momento del film in cui Ingimundur dirà: “A volte possono diventare un mostro”, e d’altro canto in quell'oscurità cerca di sondare, per mestiere, lo stesso psicanalista. C’è inoltre una scena notturna di forte impatto, per larghi tratti in piano sequenza, con Ingimundur e un altro uomo, in qualche non-luogo, a confrontarsi duramente. Ma facciamo un passo indietro: quando comincia questa “notte della mente”, che genera mostri, per Ingimundur? Quand’è che il ricordo della moglie morte diventa ossessione?

Non saprei, è una bella domanda. Ognuno di noi è in grado di fare cose oscure. Abbiamo sempre un lato oscuro dentro di noi. Il mondo esterno ti porta a cercare di proteggere i tuoi spazi interiori, ma puoi mostrare un altro lato di te, se qualcosa ti spinge a farlo – come quando, per esempio, devi proteggere la tua famiglia. Ingimundur non è né buono, né cattivo: è umano. Ne ho voluto realizzare un ritratto intimo, onesto, non sentimentale. Tutti gli esseri umani hanno una sorta di doppio volto: siamo bifronti, sempre pronti a far emergere il lato oscuro.  


Anche l’amore ha un lato oscuro. È curioso: a volte hai parlato di questo film come di una storia di “doppio amore”, cioè l’amore di Ingimundur per la moglie scomparsa e per la nipotina; altre volte, come di una storia di amore e odio. Cosa ne dobbiamo concludere? È una storia di amore e amore, o di amore e odio?

L’amore inteso come desiderio, sentimento carnale, attrazione per la propria sposa o amante è strettamente intrecciato con l’odio. C’è qualcosa di primitivo e animalesco in questo, qualcosa che va al di là del nostro controllo. Quando una gallina cresce, fa cose che sono codificate nella sua natura. Ma questo succede anche alla natura umana: siamo fatti così, non lo si può sempre nascondere. Tra amore e odio c’è una linea molto sottile e non puoi avere una delle due senza l’altra. Così come la luce esiste insieme all'oscurità, il giorno alla notte, il caldo al freddo.


Luci e ombre, nel tuo cinema, si danno spesso in un contesto familiare. Perché è proprio la famiglia a generare questo chiaroscuro di emozioni contrastanti?

Quando c’è una grave perdita nella propria vita, è possibile che si faccia esperienza di un dolore terribile. Lo volevo esplorare, contestualmente al tentativo che si fa di risollevarsi. C’è un autore ispanofono, si chiama Angel Gonzalez, che ha scritto una poesia dal titolo “Diatribe against the dead”. Ciò che mi ha colpito di questa poesia è che lui si rivolga con odio verso qualcuno, ma lentamente si capisca, da parte del lettore, che quell'odio è così forte perché forte è la mancanza di una persona amata. Mi sembra un sentimento veritiero, tutto da capire. Lo scenario è quello della famiglia, perché sono circondato dalla mia famiglia e mi rendo conto come nell'ambiente familiare ci sia, non dico “materiale drammatico”, ma qualcosa che valga la pena esplorare.  


Quando il lato oscuro vien fuori con maggiore virulenza, il film diventa un thriller. Se n’è parlato così anche in molte recensioni. Mi chiedevo: A White, White Day è un thriller dall'inizio o lo diventa? O, semplicemente, nessuna delle due, perché i generi sono giocattoli dei critici, che poco interessano ai registi?

Esatto, quest’ultima. M’interessano tutti i generi di film, amo tutti i tipi, ma non cerco mai di fare, per dire, precisamente un thriller. I miei film non possono essere ingabbiati in una definizione o venire etichettati. Credo in un tipo di cinema che sappia aprirsi a varie interpretazioni, mi piace l’ambiguità. L’esperienza del mondo varia da individuo a individuo e bisogna rispettare il modo in cui ognuno si forma una visione personale. Mentre scrivo una sceneggiatura, è come se il film se ne andasse per una certa direzione, e io la seguissi. A volte è difficile fare in modo che un mio personaggio riesca a dire le tante cose di cui vorrei parlare, ma a volte penso che limitandomi a seguire quella direzione che il film ha preso naturalmente, riesco a far esprimere un attore anche al di là della sua interpretazione di una certa battuta del copione. La tipica cosa che mi sento dire durante il processo di creazione cinematografica è: “perché non togli questa o quella scena?”. Ma non posso farlo: la scena fa parte di un “tutto”. Se faccio un passo indietro e guardo all’intera esperienza di scrittura come se fosse un albero, è come se la scena ne costituisse un ramo.


In A White, White Day, la giovane Salka, nipote di Ingimundur (tua figlia Ída nella vita reale), sembra essere costantemente insidiata da qualche pericolo. In una scena, gioca con un lungo coltello su un tavolo; in un’altra, il nonno fa cadere dal tetto un pesante oggetto a pochi metri da lei, che se ne sta beatamente indifferente dietro una porta vetrata; inoltre, il nonno viene aggredito proprio mentre è con la nipote. Hai perseguito coscientemente questo effetto di “infanzia in pericolo”?

Bella domanda. Ad essere onesti, mi verrebbe da dire che non ci ho esattamente pensato, ma devo aggiungere che per me l’esperienza del film è come una pentola in continua ebollizione: bolle, bolle, bolle e così si alza la temperatura drammatica. I piccoli gesti, i piccoli sguardi, i piccoli oggetti: tutto questo mi serve a far “bollire” quell'esperienza. Quindi sì, ho coscientemente inserito alcuni dettagli che hanno prodotto una tensione crescente. Ma c’è anche un’altra ragione, che è legata all'infanzia stessa. Quando decidi di avere una bambina, accetti anche che la tua vita sia più difficile ed esposta costantemente al rischio: c’è amore, ma anche maggior pericolo. Avere una bambina comporta responsabilità e ci sono molte cose che possono andar storte: l’ho tenuto presente nel film.


Dicevo di Salka, tua figlia Ída. La sua interpretazione è meravigliosa e c’è una scena in cui fa meglio quello che sa fare: la bambina. Piange davanti al nonno che ha sbraitato contro di lei. Perché lei è questo: una bimba di 8 anni. Ma in quella scena il più fragile è il nonno, fuori controllo per il trauma della perdita della moglie che riaffiora. Cos'è più fragile nel tuo film, la vecchiaia o l’infanzia?

A volte i bambini sono come batterie che ti ricaricano. Personalmente, mi fanno sentire bene, mi fanno sentire come se fossi parte del mondo e come se la vita avesse significato. Non sono stati corrotti dal mondo, e questo si riflette anche nel mio lavoro. Ingimundur si ricarica con la nipotina, ma si vede che deve averne passate tante nella propria vita e questo l’ha reso vulnerabile. È il rapporto con la nipote a dare un colore a questa vulnerabilità. È una cosa che m’interessa molto sottolineare nel film, mi fa piacere che sia venuta fuori.


Hai dichiarato di aver scritto questo film avendo in mente sin dall’inizio l’attore Ingvar Eggert Sigurðsson per il ruolo di Ingimundur, perché è un attore molto fisico e di grande intensità emotiva. In quali parti del film è più fisico, in quali più emotivo?

Quando giri un film, è importante mantenere una certa distanza dalle esperienze narrate. Se ci riesci, quando poi ti ci avvicini, diventano più forti. Ci ho pensato ancor di più all’atto di dover scrivere avendo già in mente l’attore: cerco di fare in modo che il protagonista capisca lentamente le cose, di costruirlo a poco a poco. Farlo con Ingvar Eggert Sigurðsson è stato estremamente soddisfacente perché quando lavori con un attore che, come dicevi, è forte sia nella presenza fisica che nell’emotività, non devi spiegare tutte le cose. Se devo avvicinarmi alle cose che racconto, non mi basta andarci vicino: voglio un impatto, voglio essere parte di quell’esperienza. È un aspetto che abbiamo molto approfondito io e la Direttrice della fotografia. Non bisogna essere avidi di dire cose, ma semplici.


Vorrei parlare del montaggio di questo film. Perché lo stile visivo di A White, White Day oscilla tra piani sequenza, anche molto lunghi, ed improvvisi stacchi del montaggio, anche molto secchi?

Ho lavorato sin dall'inizio al montaggio con Julius (Julius Krebs Damsbo, il montatore, n.d.R.). Ha letto la sceneggiatura sin dal principio, e qualche volta ho inserito l’indicazione dello stacco del montaggio. Altre volte, non scrivo espressamente “taglia”, ma non ce n’è bisogno: è la dinamica stessa della scena o di un determinato dialogo che implica il taglio o non lo richiede. Il ritmo di un film per me è estremamente importante, soprattutto negli ultimi mesi, allorché appendo letteralmente la sceneggiatura lungo un muro e la analizzo come se fosse una composizione. Cerco di trovarne il ritmo, e se per caso osservo che il ritmo è sbagliato, ci lavoro per aggiustarlo prima ancora di cominciare a lavorare sulla fotografia. Già con Winter Brothers avevo lavorato così. In A White, White Day l’ho portato alle estreme conseguenze. È una modalità che mi piace moltissimo per il momento e sto lavorando così anche per il prossimo film. Non è detto che io la usi sempre in futuro, ma intanto mi dà la possibilità di eliminare le scene che non voglio più girare o che penso di non utilizzare. Il risultato è che i materiali di ripresa che lo spettatore vede sono quelli, garantiti, che davvero m’interessano.

Ci sono alcune sequenze spiazzanti nel tuo film. Faccio due esempi di quella che chiamo “strategia della deviazione”. Ingimundur parla con un uomo, ma a un certo punto la macchina da presa non inquadra più i due, bensì una serie di oggetti, che non sembrano avere correlazione col loro dialogo, se non oscuramente. Altro esempio: Ingimundur e Salka sono per strada, in auto. L’auto sbatte contro una grossa pietra; Ingimundur scende dall’auto e spinge la pietra lungo un crepaccio; seguiamo la pietra fin quando non cade nell'acqua. Perché queste “deviazioni” dalla linea narrativa?

Quando lavoro ad un progetto, avverto che comincia a stimolarmi e diventare interessante nel momento in cui il mondo che gravita attorno ad esso, che io stesso creo, viene percepito come autentico, reale. Nel processo di scrittura di un progetto m’interesso precocemente alle location: le fotografo e ne registro i suoni, per poi far confluire il tutto nel film. Le mie sceneggiature hanno spesso suoni e immagini con cui avevo già lavorato. L’obiettivo è quello di ricreare un mondo attorno ai personaggi. Quando ho cominciato a leggere libri, in verità abbastanza tardi, ai tempi della scuola, ho scoperto la poesia dell’Età dell’Oro in Islanda. In essa, l’esperienza dei personaggi era mediata dal mondo che li circondava. È proprio quello che faccio anche io nei miei film: costruire un mondo attorno ai personaggi che diventi una chiave di accesso per la loro interiorità.  


Posso fare una cosa “politicamente scorretta”? Cito alla lettera una recensione apparsa su una nota rivista online di cinema, scritta allorché il tuo film uscì alla Semaine de la Critique a Cannes, prima che vincesse al Festival di Torino. Non getto benzina sul fuoco, m’interessa solo spunto di analisi. La si trova facilmente sul web. Senti: “Peccato però che, dati gli scarsi dettagli a disposizione sul personaggio, quando il climax viene raggiunto l’empatia risulti oramai impossibile, e dunque l’umana tragedia dell’ex poliziotto, tra fucili, coltelli a serramanico e mani grondanti sangue, cada vittima di una messinscena piuttosto grossolana”. Te la senti di rispondere a questo stralcio?

La mia vita è piena di alti e bassi e, come la vita di tutti, è caratterizzata dal confronto con opinioni di ogni sorta. A volte si tratta di ignoranza, altre di semplici divergenze di vedute o di contesti di provenienza. Eppure non ho mai avuto problemi, né davvero mi sono dato pena di questo diverso modo d’esperienza. L’unica cosa che posso fare è cercare di essere credibile e portare fino in fondo il lavoro in cui credo, perché non saprai mai il modo in cui mondo potrà reagire. Mi ricordo che sia per A White, White Day, sia per il precedente Winter Brothers, si sono tenute proiezioni in cui la gente non era per niente interessata o stimolata. Non importa: cerco la qualità, non il successo. E lo faccio seguendo la strada indicata dal film stesso...


Aspetta, m’interessa l’argomento sollevato nel merito da quella recensione: il tuo film cercava empatia per il suo protagonista? Perché questo è il contenuto dell’osservazione su cui voglio riportare la tua attenzione.

Tutti cercano qualcosa. Tutti voglio essere riconosciuti in qualche modo. Sentiamo il bisogno di essere parte di qualcosa, di essere amati. È umano. Tutto si riduce a questo, ma non in senso negativo: nel senso dell’umanità.


In chiusura, siamo al classico “dimmi chi ti piace e ti dirò chi sei”. Registi preferiti?

Questa è dura. Ciò che vedi ti può ispirare o può impattare in modi diversi. Non mi sento di dire di avere esattamente dei registi preferiti, ma posso affermare che un regista di cui non vedo l’ora che escano i film è Paul Thomas Anderson. Ogni volta che esce un suo film, smanio di vederlo al cinema.


Bene, ti dico chi sei: un regista che esplora il lato oscuro del mondo emotivo dei personaggi con stile elegante. Scherzi a parte, per chiudere: elegante lo sei, anche perché tecnicamente i tuoi esordi sono da visual artist. Ebbene, te la sentiresti di dire che in fondo ogni regista è un visual artist?

Non saprei. I film in grado di stimolarmi sono quelli realizzati da registi che scrivono i loro stessi materiali. La storia e la forma sono la stessa cosa: non puoi allontanare l’una dall'altra, altrimenti il film non funziona. Questo è il tipo di regia che m’ispira, ed è qualcosa che vale per il formato cinematografico: non puoi dire lo stesso sulla musica o sulla letteratura. Questo è cinema per me: il resto, è entertainment. Ed è un’altra cosa.


TITOLO ORIGINALE: Hvítur, Hvítur Dagur
PAESE: Islanda, Danimarca, Svezia
ANNO: 2019
GENERE: drammatico, thriller
REGIA: Hlynur Pálmason
DURATA: 109'
SCENEGGIATURA: Hlynur Pálmason
CAST: Ingvar Eggert Sigurðsson, Ída Mekkín Hlynsdóttir, Hilmir Snær Guðnason, Björn Ingi Hilmarsson., Elma Stefanía, Ágústsdóttir, Sara Dögg Ásgeirsdóttir, Haraldur Ari Stefánsson, Sigurður Sigurjónsson, Ernst Arnmundur
PRODUZIONE: Join Motion Pictures, Snowglobe, Hob AB, Film i Väst
DISTRIBUZIONE: Peccadillo Pictures


(IMMAGINI: nell'immagine principale, Ingimundur e Salka in un fotogramma del film, interpretati da Ingvar Eggert Sigurðsson, Ída Mekkín Hlynsdóttir; all'interno, prima immagine: fotogramma dal film con casa nella neve; seconda immagine: fotogramma dal film con Ingimundur alle prese con un sasso su cui è sbattuta la sua auto)



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https://www.infooggi.it - Il Diritto Di Sapere

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