Writing With Fire, le reporter intrepide premiate al Sundance: intervista ai registi Ghosh e Thomas
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Writing With Fire, le reporter intrepide premiate al Sundance: intervista ai registi Ghosh e Thomas

sabato 17 aprile, 2021

Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, Writing With Fire di Sushmit Ghosh e Rintu Thomas: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.

Writing With Fire di Sushmit Ghosh e Rintu Thomas, prodotto dalla Black Ticket Films, ha stregato il Sundance Film Festival 2021, vincendo sia il Premio del Pubblico “World Cinema Documentary”, sia il Premio Speciale della Giuria “Impact for Change”. Dall’Hollywood Reporter al Washington Post, c’è un aggettivo che ritorna nei commenti della stampa internazionale a questo audace documentario: inspirational. E ispira, davvero, la storia delle giornaliste indiane munite di taccuino, penna e smartphone, che sfidano tutto e tutti per il diritto di cronaca, per i diritti umani, per i diritti delle donne. Discriminate in quanto Dalit, ossia fuori casta, le reporter fronteggiano tanto il sistema gerarchico delle caste, quanto l’impianto patriarcale della società indiana. Faticano a farsi capire persino in famiglia, con compagni e genitori, ma il loro progetto è decollato: si tratta di Khabar Lahariya, splendida realtà del primo giornale indiano gestito da donne Dalit. Fuori casa, senza timore, si lanciano in incalzanti interrogatori alle autorità, raccontano di violenze carnali, indagano sulle miniere illegali gestite dai potentati criminali. Che potenza queste reporter d’assalto.


LA TRAMA DI WRITING WITH FIRE

In un panorama disordinato di notizie dominato dagli uomini, emerge l'unico quotidiano indiano gestito da donne Dalit. Armate di smartphone, la capo-reporter Meera e le sue giornaliste rompono le tradizioni, sia in prima linea rispetto ai più grandi problemi dell'India, sia all'interno dei confini delle proprie case, ridefinendo cosa significhi essere potenti.


L'INTERVISTA: SUSHMIT GHOSH E RINTU THOMAS RACCONTANO WRITING WITH FIRE



ANTONIO MAIORINO: una delle ragioni che motiva l’attività delle giornaliste viene precocemente espressa nel film allorché Meera afferma che “il giornalismo è l’essenza della democrazia”. Pensi che anche il cinema, in questo caso il documentario, nel mostrare realtà spesso poco conosciute, possa essere a sua volta un elemento chiave del processo democratico?

SUSHMIT GHOSH: penso che le storie abbiano il potere di cambiare il mondo. Il lavoro di tanti registi nel corso del tempo lo attesta. Quando io e Rintu abbiamo fondato la Black Ticket Films nel 2009, una delle idee portanti era su come potessimo creare dibattito attraverso i nostri film e in che modo questi dibattiti potessero a loro volta generare un cambiamento sia tangibile che profondo, quel tipo di cambiamento persistente che non si può fare a meno di percepire. E nel corso dell’ultimo decennio, tutto il nostro lavoro indipendente si è consapevolmente evoluto in direzione di tali questioni. Per esempio, abbiamo raccolto così tanto pubblico da tutto il mondo a partire dal 2010, da poter proiettare il nostro corto d’esordio, In Search of My Home, in 20 diversi paesi: da una sala cinematografica a Singapore, a un’università in Egitto, fino alle scuole superiori in Canada, il film è stato mostrato a diverse platee. Questo ci ha dato ulteriore slancio nell’assicurare che ai protagonisti del nostro film, una famiglia di rifugiati del Myanmar, venisse riconosciuto lo status di rifugiati da parte delle Nazioni Unite. Sulla base di questa certificazione, la famiglia, che prima viveva in assoluta povertà in India, si è adesso rifatta una vita in Australia.


A.M: anche dal cinema del reale di Writing With Fire, dunque, è lecito aspettarsi un impatto sulla realtà.

S.G: venendo al 2021, quando il nostro lungometraggio d’esordio, Writing With Fire ha vinto sia il "Premio del Pubblico" che il "Premio Speciale della Giuria per il Cambiamento" al Sundance, è stato un grande riconoscimento a quello che stavamo facendo da narratori di storie attraverso il corpus delle nostre opere. I nostri corti indipendenti continuano a essere usati come riferimenti accademici nelle università di Asia, Europa e Nord-America; nel Sud dell’Asia sono stati utilizzati come strumenti di avvocatura; sono stati proiettati in forum globali come lo UN Climate Change Summit. In sostanza, la parola democrazia in sé è null’altro che una nozione, non un costrutto tangibile. Ciò che dà alla democrazia un significato è la sua promessa, estesa a tutti, di essere ascoltati, di avere la libertà di fare domande e di aver accesso a una vita dignitosa. In questa costruzione di un futuro collettivo, le storie, e in particolare i film, giocano un ruolo chiave.


A.M: ci sono molte scene nel vostro film in cui le donne di Khabar Lahariya si confrontano con le autorità. In queste scene, possiamo notare una forte attenzione alle reazioni delle autorità stesse, o viceversa, alla loro insensibile mancanza di reazione. Come descriverete il loro atteggiamento, sui cui avete posto tanta enfasi mostrandolo ripetutamente?

S.G: le nostre giornaliste lavorano in una regione in cui il giornalismo è considerato professione di una casta superiore di uomini. Le donne Dalit sono invisibili all’opinione pubblica. Quando la gente vede le donne Dalit che fanno le reporter con penna, taccuino e videocamera, nella loro testa il presupposto con cui liquidano la faccenda è: “che notizie saranno mai in grado di dare? Che saranno mai capaci di pensare?”. Sono l’intelligenza e la consumata professionalità di queste donne a inchiodare quelli che sono in posizione di autorità. Per la prima volta le autorità sperimentano il potere di una donna Dalit con la macchina da presa, che fa loro domande chiedendo di render conto delle proprie azioni. Da realizzatori di film, troviamo estremamente significativo fermarci ad approfondire momenti come questi di logiche del potere che mutano.



A.M: un’altra difficoltà fronteggiata da Meera e dalle sue colleghe è la mancanza di supporto da parte di famiglie e amici. Uno dei mariti delle giornaliste afferma addirittura che l’impresa è destinata a fallire. Pensi che anche il documentario possa essere considerato un contributo per far sì che ci sia un più ampio sostegno a Khabra Lahariya, visto che Writing With Fire appare il primo e più deciso tentativo di inquadrare questa esperienza come parte della storia dell’India contemporanea?

RINTU THOMAS: io e Sushmit giriamo film non di finzione in India da oltre un decennio, ci siamo sentiti attratti in maniera naturale da storie di gente fuori dal sistema – persone che hanno ereditato la diseguaglianza di cui sono vittime, ma che sono determinate a trasformarla attraverso le loro stesse vite. Meera, Suneeta, Shyamkali sono donne cresciute in uno dei più crudeli sistemi di gerarchia sociale del mondo. In che modo trovino forme di negoziazione con queste strutture preesistenti di casta e di genere, usando uno strumento non violento di conoscenza – il giornalismo – è proprio la storia che avevamo intenzione di raccontare. Allo stesso tempo, il film assume il ruolo di amplificatore del lavoro, dello spirito e degli intenti di Khabar Lahariya. Inoltre, nella nostra cultura visiva popolare, la rappresentazione delle donne Dalit è sempre stata quella di vittime delle circostanze. Nel proprio linguaggio visivo e nella propria sintassi, Writing With Fire è il ritratto di moderne indiane Dalit. La forma della non-finzione permette di immergerci nel complesso mondo delle nostre protagoniste e viverle come personaggi pieni, narratori delle proprie storie. Per questo, il film diventa, in qualche modo, anche la riscrittura di un nuovo linguaggio della rappresentazione.


A.M: restiamo su questo tema, le difficoltà affrontate dalle giornaliste, ma da un altro punto di vista. Sia la sopravvissuta allo stupro che i lavoratori impiegati nella miniera illegale affermano di temere reazioni da parte delle persone coinvolte nell’inchiesta. C’è stato qualche momento durante le riprese del film in cui voi stessi avete avvertito un senso di pericolo per le conseguenze di Writing With Fire?

S.G: nello stare vicini e nel seguire le vite professionali dei nostri personaggi, eravamo costantemente in spazi ostili e tutt’altro che accoglienti. La nostra strategia era quella di ridurre al minimo la squadra tecnica e le attrezzature e assumere il ruolo di seguire come ombre i nostri personaggi, destando la minore attenzione possibile. Ogni giorno le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa e cambiare, e ciò che ci ha dato fiducia nel continuare a filmare in spazi così pericolosi era la fiducia stessa delle nostre protagoniste. Sono giornaliste navigate che conoscono perfettamente la conformazione del terreno su cui si muovono e sono esperte nel trasformare una conversazione potenzialmente minacciosa in un’affascinante intervista – il tutto, in un solo giorno di lavoro. Nell’intrecciare il nostro lavoro col loro, osservandole dal nostro obiettivo, sono proprio queste negoziazioni che rendono la storia di Writing With Fire così ricca.


A.M: tornando alla questione del rapporto delle giornaliste con le rispettive famiglie, un elemento interessante del vostro film è che non vi limitate a mostrare le riunioni di formazione delle giornaliste e la loro pratica lavorativa, ma anche stralci di vita domestica. Perché questa scelta?

R.T: in questa storia, le vite personali e professionali delle nostre protagoniste sono fortemente interlacciate. Mentre la meta-narrazione riguarda la crescita di un giornale e le sue tappe di transizione in 14 anni dalla stampa al digitale, il nostro interesse consiste nell’esplorare cosa succeda quando le donne reclamano gli spazi e la possibilità d’interloquire che generalmente sono loro negate. Com’è il mondo che stanno re-immaginando? Le protagoniste del film sono tre donne con personalità e storie personali molto diverse. Abbiamo passato molto tempo con le loro famiglie per fare esperienza di come negoziassero relazioni e aspettative a casa con compagni, madri, figlie e amici. Attraverso i loro mondi personali, abbiamo modo di capirle più in profondità.



A.M: a proposito delle riunioni redazionali che vediamo spesso nel film, mi viene da chiedere: e le riunioni di voi registi e della troupe in generale? In altre parole, quali sono state le questioni tecniche più importanti di cui avete dovuto discutere per far prendere forma a Writing With Fire?

S.G: il film è ambientato nello Stato di Uttar Pradesh, un territorio carico di tensioni: discriminazione di casta, violenza contro le donne e corruzione politica si alimentano a vicenda e dettano la vita quotidiana. La più grande sfida era quella di filmare con i nostri personaggi, che lavoravano per lo più in spazi estremamente ostili, realizzando servizi giornalistici che vanno dalle miniere illegali gestite da potenti mafie, alle stazioni di polizia in cui è pressoché impossibile far riprendere una macchina da presa, fino a incontri con politici riluttanti a essere interrogati da donne con la videocamera. Le loro inchieste toccano anche in spazi di profondo dolore – come le case di donne sopravvissute a stupri o violenze domestiche o vittime di omicidio. Sapevamo di avere una presenza discreta, con le nostre attrezzature che potevano entrare in uno zaino, così non abbiamo interrotto il lavoro dei nostri personaggi e abbiamo anche mantenuto la sacralità del momento che si stava sviluppando tra loro e le persone con cui interagivano. Abbiamo deciso di ridurre la squadra tecnica a soli tre membri, Rintu, io e il nostro co-direttore della fotografia, Karan Thapliyal. Abbiamo deciso di filmare con la nostra macchina da presa abituale, l’FS7, e ridotto il kit a due sole DSLR (reflex digitali a obiettivo singolo, n.d.R.), obiettivi fissi e obiettivi zoom. L’equipaggiamento del suono doveva essere ugualmente compatto, perché non potevamo attirare l’attenzione con le aste per i microfoni, così in tutte le location la presa del suono doveva essere fatta da me su microfoni RF e registratori zoom H6. All’inizio sembrava un modo di girare tutt’altro che ideale, visto che riprendevamo nell’Uttar Pradesh, tra estati calde, monsoni e duri inverni, facendoci largo su autobus traballanti e risciò sovraffollati, camminando per ore ogni giorno sotto il sole cocente per raggiungere villaggi che non esistevano sulle mappe, ma abbiamo scelto di sfruttare al meglio questo arsenale. Abbiamo sviluppato un linguaggio dei segni discreto cambiando fluidamente angolazioni, personaggi e obiettivi, sia nel caos che nei silenzi profondi della zona. Abbiamo innovato e lavorato in più modi per creare un panorama cinematografico molto, molto vicino a come lo avevamo immaginato fin dall'inizio.


A.M: “quando le donne Dalit hanno successo, possiamo ridefinire cosa voglia dire essere potenti”, afferma Meera. Variety ha scritto che il vostro film “distrugge la patriarchia indiana, mette a nudo il sistema delle caste”. Siete d’accordo? Inoltre, si può dire che avete cercato di evitare di descrivere le protagoniste sia come vittime, sia come eroine?

R.T: in una delle nostre prime conversazioni con Khabar Lahariya, volevano sapere perché fossimo interessati a fare un film su di loro e di cosa avrebbe parlato il film. Abbiamo detto, che non sapevamo ancora di cosa avrebbe parlato il film, ma che di certo sapevo di cosa non avrebbe parlato: non volevamo fosse la storia di donne eroiche che stanno salvando il mondo. Semplicemente perché è un modo molto riduttivo di rappresentare le comunità e l'immagine che le persone hanno nella loro testa sono sempre agli estremi, senza sfumature: o la donna Dalit indifesa, o la donna Dalit emancipata che è quasi sovrumana. Perché non delle donne comuni con uno spirito straordinario, una fantasia innovatrice e il coraggio di sostenere la propria verità? Personaggi veri con i loro trionfi e i loro difetti: questa è la storia che sono entusiasta di raccontare. E nel frattempo, se la narrazione del film mette in discussione, smonta e svela realtà spiacevoli, mi sta più che bene.


A.M: infine, come riassumereste il significato del titolo Writing With Fire, scrivendo col fuoco?

R.T: per me, le protagoniste di questo film scrivono le loro storie, riscrivono le regole di ciò che le donne Dalit possono raggiungere e trasformare. E nel fare questo, giocano col fuoco. Il titolo parlare della potenza e del coraggio dello spirito umano.


SCHEDA DEL FILM

TITOLO INTERNAZIONALE: Writing With Fire
PAESE: India

ANNO: 2021
GENERE: documentario
DURATA: 94'
REGISTI E PRODUTTORI: Rintu Thomas, Sushmit Ghosh
FOTOGRAFIA: Sushmit Ghosh, Karan Thapliyal

COLORIST: Sid Meer
MONTAGGIO: Sushmit Ghosh, Rintu Thomas

PROGEETTAZIONE DEL SUONO: Susmit "Bob" Nath
MONTAGGIO SONORO: Janne Laine
MUSICHE ORIGINALI: Tajdar Junaid
PRODUZIONE: Black Ticket Films

PRODUTTORI ESECUTIVI: Patty Quillin, Hallee Adelman
CO-PRODUTTORI: John Webster, Tone Grøttjord-Glenne
CONTATTI: [email protected] 


(IMMAGINI: in copertina e all'interno, fotogrammi del film Writing With Fire, tranne la prima fotografia all'interno, coi registi Rintu Thomas a destra e Sushmit Ghosh a sinistra, la cui fonte è il blog AWFJ, Alliance of Women Film Journalists


Antonio Maiorino




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