Del gioco dello scrittore con la penna
Resilienze Lazio

Del gioco dello scrittore con la penna

venerdì 13 gennaio, 2017

ROMA, 13 GENNAIO - Se dovessimo, malgrado ogni ragionamento, scegliere una parola che caratterizza Saviano, oppure l’argomento che sottende a tutto il percorso intellettuale e umano del giovane scrittore partenopeo, ebbene quella parola che ci darebbe modo d’interpretare senza equivoci tutta la sua opera d’intellettuale, è senza alcuna esitazione, la parola Passione. 

È la passione la radice esistenziale della scrittura di Saviano, forse perché è proprio Napoli la chiave di quella singolarità, in cui ha luogo un’eternizzazione del mondo, che è un prolungamento dell'essere sé stessi, continuamente inchiodati con lo sguardo per trovare anche una propria immagine riflessa sulla superficie della realtà piangente; ed è facile comprendere che quello specchio riflesso della sua esistenza, in molti momenti deve risultare insopportabile ed opprimente, specie quando a non comprenderne la pesantezza è parte di quel pubblico che invece lo ha reso grande.

Saviano è infatti uno dei pochi intellettuali italiani contemporanei, a possedere come il suo maestro Pasolini, i tratti congeniali all’Eros di Platone, che lo rendono al tempo stesso un pittore caravaggesco, ed un filosofo artista che predica cioè il mondo, il suo mondo e lo rappresenta in un’effusione d’Amore, profondamente violenta e al tempo stesso verace.

Nulla nelle sue pagine è mai claudicante e affannoso, tutto vibra in realtà di una febbricitante e ansiosa voglia di comunicazione, un’urgente e appassionata esigenza di poter parlare ed esser compreso dai lettori, ma al tempo stesso Saviano rimanere lucido interprete dello sguardo di scrittore.

Protagonista è l’immagine di un’umanità schiava e non del tutto estranea agli sviluppi storici dei tempi. Grande affreschista Saviano di quella Napoli emblema dell’Italia, dell’Europa del mondo, che vive un trasognante sonno immemore nei secoli non vuoti della sua Storia, ma che per molti versi si riscopre ancora affetta da claudicante torpore per talune coscienze non ancora del tutto ridestate da letargico sonno.

Chi ha letto Saviano specie nell’ultima fatica “La Paranza dei bambini” pubblicato da Feltrinelli, sa quanto nella sua rappresentazione, attraverso i ragazzi, che popolano il suo immaginario, c’è l’atto d’amore di un intellettuale a tutto tondo come lui, che come pochi riesce a districare nei comportamenti e nelle abitudini, nei modi di pensare la napoletanità, quella che considera Napoli parte di una rappresentazione di un mondo, quello malavitoso, che esiste e nostro malgrado c’è.

Saviano non fa altro che rintracciarlo e rappresentarlo quel mondo, per indirizzarne lo sguardo per orientarne quella sincera e dolorante verità di realtà degradata, per rendere la materia della letteratura e l’interpretazione dell’etimologia criminale.

Attraverso le affilate verità di Saviano, si scompone il novero delle false sorprese per scandalizzare ad uso frugale e non megalomane del pensiero, anche le cattive coscienze quelle che invece s’ingrassano nella stagnazione come linfa, e faticano a trovare la “quadra" per aprire la strada a uno sviluppo di una civiltà della realtà, in cui la bellezza che non è competizione o contrapposizione, rende il giusto peso al vero significato delle parole ed anche all'uso che - spesso incautamente - taluni ne fanno oggi.

Per i latini "cum-petere" significava "andare insieme nella stessa direzione" senza dunque alcun bisogno di votarsi regolarmente alla sgomitante, muscolare e darwiniana, competitività del sistema mediatico che contrappone intellettuali a politica.
Come dovrebbe dunque esserne umiliata Napoli perché assomiglia al mondo? Perché propone di alimentare stereotipi e fenotipi al tempo stesso normalizzati e vitali, in una Napoli autentica e verace per vocazione, in cui i personaggi agiscono non solo spinti dall’istinto e dalle passioni, come accade per pochi altri posti e popoli al mondo; ma anche per bestialità criminale.[MORE]

I Protagonisti del racconto pasoliniano “Ragazzi di vita” abitavano le borgate romane, abituati a vivere sotterfugi ed espedienti più o meno legali di un mondo povero, caotico, in cui crollavano i punti di riferimento come la famiglia o la scuola, e dove ogni giorno i protagonisti si confrontano con la noia, la miseria e la morte.

I Protagonisti della “Paranza dei bambini” del Saviano scrittore sono essenziali, perché ad esserlo è Saviano stesso, appassionato ma dolorante per la sua Napoli inespressa, che spalanca le porte alla timida umiliazione ed al singulto della drammaticità incontrovertibile, quella Napoli delle storie vere, che rendono orripilante la realtà e la sbattono in faccia a chi vuole sentirla raccontare per come è, non per come vorremmo che fosse. Solo a costoro la realtà violenta porterà il conto.

C’è nei libri di Saviano l’orrore, la vergogna ed il coraggio di usare parole per rappresentare l’indicibile, lo sporco, il meschino il putridume di uno spaccato di umanità dolente, che imbarazza e disturba, perché sobilla la pace interiore delle cattive coscienze, perbeniste ed ipocrite. C’è il disinganno che contrappone le convinzioni, espresse nei modi propri alla sua interessante capacità letteraria, utili contrariamente a quanto s’immagina a squarciarlo il velo degli stereotipi sulla città, non contribuendo a crearlo, affrontando finalmente i fatti, nudi e crudi, così come la realtà li presenta.

Saviano è un analista attento è sempre vigile, offre cifre, spunti ed apporti che aiutano a riflettere e pensare, forse a scegliere. Giammai toni paternalistici o moralistici, così come lo stesso modo di procedere nelle sue conclusioni. L’intellettuale è dentro il mondo, ma si sente completamente tagliato fuori da ogni cosa, guarda tutto ciò che si erge dinnanzi ai suoi occhi con lucido calcolato distacco, quello di chi prende coscienza del rifiuto e al contempo della compassione per i vili, con attenta vicinanza degli ultimi che aspirano invece ad fare i primi.
ll divario che separa l’intellettuale per nulla borghese e il suo popolo, si sublima in una sorta di perfetta creazione estetica, che crea l’incanto della violenta rappresentazione. In questo passaggio, brilla su tutte la sua profonda, intensa e toccante “diversa” dimensione personale, in cui il mondo, il passato e forse talvolta anche le scorie ideologiche diventano nemici di tutti, di ognuno, stipate in una sorta di viaggio sempre verso Sud, dove il raccoglimento diventa un momento di preghiera, magari di comune sofferenza, e nel dolore va cercando un’altrettanto imperitura purezza.

Colpisce l’approdo filosofico della sua scrittura, di una visione cioè che è prima di tutto esistenziale, personale, dignitosamente umana, anche quando è criminale.
Saviano con assoluta efficacia costruisce e propone il male della realtà storica del suo tempo, rendendolo paradossalmente feticcio, che cioè in virtù di uno spostamento semantico, trasfigura la cosa nel suo valore comune, per investirla di un significato simbolico, individuale e di gruppo.

Lo stesso tentativo che svolge quella Napoli che sa bene come giungere ad amare o detestare i suoi eroi “normali” divinizzandoli o banalizzandoli, correndo il rischio di trasformarli tutti in nemici di qualcun altro, se non di loro stessi, serve se non per meglio abbatterli o vincerli i mostri, almeno per screditarne la santità, con ogni intervento e presa di posizione, assestando il colpo sui denti anche a quel figlio discolo e insolente che osa criticare i progenitori.

Atteggiamento tipico dell’ambiguo rapporto che la città può stabilire con i propri santi o gli eroi inverecondi e magari con molti dei suoi intellettuali più dotati; alcuni come lui, riluttanti a pacificarsi con i propri luoghi d’origine, per uno strano caso del destino che li ha resi forti e dannati, forse perché "bestemmiati" costretti cioè a pagare il prezzo troppo alto: quello della propria libertà, trasfigurata in spettacolo per un pubblico pagante e non, forse per infelice testimonianza di chi è sempre Nemo propheta in patria.

Ma in fondo chi vive o ha vissuto a Napoli, asseconda quell’immaginario collettivo che si accontenta con poco e gioisce sempre di quel poco che ha, attraverso manifestazioni esuberanti che coinvolgono tutti, magari passeggiando per Via Toledo, Corso Umberto, visitando Posillipo o Spaccanapoli e tutti i luoghi meravigliosi, degradati e non, che già Leopardi era riuscito ad individuare come utili per trarre il “nettare” per approdare cioè alla propria “social catena” ispiratosi al senso umanitario di fratellanza vivo nel popolo napoletano.

Napoli in fondo è quel Giano bifronte che ci si aspetta, incarna in un solo attimo il sogno ed il disinganno, la poesia ed il romanzo, conservando una carica di dolcezza e causticità che la rendono difficile da comprendere. Saviano l’ha invece compresa bene la sua Napoli, lo ha fatto senza malignità e cattiveria, senza aspra malafede. E di questo i suoi lettori possono accorgersi.

Se lo sdegno e l’ira possono essere considerati un metro per valutare la vivacità intellettuale di qualcuno, si può ben dire che in troppi accanendosi contro Saviano, non rendono giustizia alla materia letteraria, e forse parcellizzano solo il suo talento, magari tentando di maciullarlo per dimostrare con corrosive affermazioni, che stroncare un avversario, farlo a pezzi, aggredirlo per volerlo ridurre in poltiglia, è pur sempre un modo farsesco per eleggere ad avversari, minacciosamente politici, anche i più innocui alleati.

Bisognerebbe perciò arruolare le anime che non distraggono attenzione ed evocano giustizia, per palesare elogi di fallimenti e di certe precise inadempienze dell’ammanco di responsabilità di tutti nessuno escluso?

Già Franco Rosi aveva ribadito della sua Napoli che «La litigiosità rientra nell’umore della nostra gente. C’è nell’aria una provocazione continua. Siamo in troppi ad essere creativi nelle cinta (…) Napoli è sterminata, ma lo spazio per conviverci tutti in pace risulta troppo stretto».

L’equivoco di fondo per comprendere Saviano forse, nasce proprio dal discorso sulla sua città che riesce ad essere espresso sopra le righe, per affermare con durezza, il dirompente potere evocativo delle parole affilate che sconfessano, meglio del risaputo. Infatti la convinzione che la città debba partire sempre dai suoi caratteri d’apparenza immutabili, graniticamente immodificabili, nei suoi eterni luoghi comuni: pizza sole e mandolino e che questi vadano interpretati e magari anche “combattuti” con grande profusione di medicamentosi balsami, anche se davanti agli occhi ci sono gli inciampi della realtà con ben altri modelli di riferimento, in scenari e panorami del post moderno, con inedite figure sociali e nuovi rapporti, che intendono fare macelleria della natura squisitamente culturale di una intera città.

Accade così con facilità che i risultati e gli effetti della scrittura di Saviano appaiano ad alcuni, modesti, impropri, magari del tutto inefficaci ad operare quei cambiamenti che dovrebbero essere invece materia sempre di altri, in un sorprendente addebito e scarico di responsabilità.

Perché a guardarla dall’alto la città, - è vero- non sembra sempre la stessa la città, i suoi punti di forza così come le sue debolezze, si disvelano però sempre uguali nel tempo, per cui a viverci dentro e con le antenne dritte, riesce ancora difficile la messa a fuoco dei lenti, microscopici, impercettibili, ma continui cambiamenti che investono la città, a modificarne il pensiero . Conta perciò la voglia di trasformazione reale, quella che a trasformarla del tutto Napoli la faccia affermare veramente come capitale culturale mondiale, rendendole giustizia pienamente.

Ma cos’altro chiedere ad uno scrittore, se non di far bene il proprio dignitoso lavoro?
Tutto, ogni cosa, richiede spirito d’osservazione e per così dire strumenti aggiornati d’interpretazione, che finiscono per girare sempre intorno alle solite vecchie storie, magari anche quelle mitologiche non inutili delle nuove polemiche sulla diffamazione per Napoli.

Scrivere di Napoli e orientare la bussola sulla città significa forse farsi ascoltare sulle destinazioni da immaginare e realizzare per la città, magari anche sugli orizzonti visionari che non possono restare orfani degli intellettuali migliori e più audaci, che alla “capitale” partenopea non mancano. Saviano è solo il primo di una lunga lista, che non si promuove ad libitum, ma che riconosce e valorizza la capacità di saper guardare dritto negli occhi Napoli, di farlo senza compiacersi del proprio “essere diversi” senza quel miscuglio di vittimismo o autoindulgenza, di sentimentalismo o approssimazione.

Promuovere e avocare alla città, intellettuali capaci ed onesti, senza correre il rischio di doversene privare, potrebbe poter essere (anche per De Magistris) un gesto onesto per difendere e dimostrare di voler veramente bene a Napoli. Potrebbe finalmente voler rappresentare la tanto agognata inversione di tendenza, tanto invocata ed attesa ancora, che anima tuttavia continue critiche e aggressioni, che da anni si perpetuano identiche, senza alcuna soluzione di discontinuità.
Saviano è un intellettuale che non sublima il desiderio di essere popolo, sfugge all’incapacità di riuscire a tenerlo a bada quel popolo, di controllarlo e magari dirigerlo.
La stazza di intellettuale libero e senza briglie, che lo portano là dove ritiene di andare, accresce frustrazioni e scoperte e solleva colpe, le stesse che inviterebbero invece lo scrittore, "a restare libero, di dire quello che pensa, di denunciare come fa da un decennio, le ferite, il degrado, la mattanza di Napoli e il dominio incontrastato della camorra". Se “La colpa di Saviano è di pensare che la bellezza, la ricchezza, l’umanità della città partenopea non solo non sono cancellate e rimosse se si ricordano le devastazioni quotidiane ma anzi vengono salvaguardate, o rese credibili, vere, allora ci si assume il difficile compito di sottrarsi alle retoriche identitarie, agli autosterotipi localistici, alle enfasi autoassolutorie" Allora solo allora, c'è da credere che si debba processarne l'integrità di intellettuale e di napoletano, in caso contrario il gioco è strumentale.
"La colpa di Saviano è di avere tenuto sempre un profilo alto, coraggioso, rigoroso, coerente nel tempo e nelle diverse situazioni".

Saviano, prima di tutto sa rivolgersi agli esseri umani in carne e ossa, quelli che abitano i vicoli o le periferie della metropoli, così come a quelli di Mergellina e del magnifico golfo. Poi scopre il nerbo dolente dei vecchi tromboni degli ambienti “culturali” italiani, ed attraverso uno stile vivace e forse finemente beffardo, svuota di significato i tic più ridicoli dei censori napoletani, come De Magistris e Fusaro, che soffrono del mito dei “figli di Annibale” con la fissa per il proprio “Mediterraneo Partenope” fino all’ossessione per il proprio popolo, che dovrebbe essere finalmente svezzato da una mentalità gretta e piccolo borghese della critica strumentale in cui i padri che bacchettano i figli ingrati, non sempre rispondono alla pedagogia.

E’ il pregiudizio che genera i mostri, anche quelli della deriva criminale che è stata derubricata a diventare col tempo sempre più spietata e pervasiva; è un mostro da identificare ed abbattere con cura, senza equivoci di persone. Saviano mai come in questo caso è il Bersaglio sbagliato.

Sappiamo tutti che Napoli non può e non deve essere pensata ignorando gran parte della storia precedente presente ma anche futura, sempre seguendo una traccia riconoscibile dall’esterno quella di una identità forte e consapevole. Perciò bisogna percorrere un sentiero che se pure già battuto dalle generazioni passate, lascia il testimone a quelle future.
Saviano bisogna prima leggerlo per capirlo, poi studiato per comprenderne il suo indubbio talento e solo dopo scegli se innamorartene oppure no.
In fin dei conti è solo il gioco dell'uomo con la penna che costruisce scenari attraverso le parole, e le parole si sa, restano pur sempre materia per i sogni.


Angela Maria Spina


Autore
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