Fred Baillif, vincitore a Berlino 2021 (Generation 14+): "La Mif, i tabù del Sistema coi giovani"
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Fred Baillif, vincitore a Berlino 2021 (Generation 14+): "La Mif, i tabù del Sistema coi giovani"

venerdì 2 aprile, 2021

Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, La Mif di Fred Baillif: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.

Perle nascoste. Capita di esserlo alle persone, capita ai film. Così, La Mif dello svizzero Fred Baillif – ex giocatore di basket, ex assistente sociale, cineasta dal programma rigoroso – è passato al recente Festival di Berlino 2021 nemmeno troppo nascostamente, considerando che ha vinto nella sezione Generation (14+), e si spera che possa ancora avere ampia circuitazione mondiale, sale comprese. Nascoste sono le qualità delle sue protagoniste, ragazze di una casa famiglia, di veracità impressionante: sbandate e combattive, stile piccole stelle senza cielo, spesso alle prese con un sistema iperprotettivo che non le capisce davvero e non ne valorizza la luce speciale, offuscata dal buio di difficili esperienze di vita. Fatto salvo qualche spirito sensibile: quello della direttrice Lora, per esempio; e noi aggiungeremmo, dello stesso regista Fred Baillif, che ci gira un film, tutto teso all’ascolto e all’osservazione - da scopritore di perle. Scoprendo, soprattutto, che la vicinanza ai propri personaggi è più potente della retorica cinematografica.


LA TRAMA DI LA MIF



Sette ragazze vivono sotto lo stesso tetto, ma non si sono scelte: sono, l’una per l’altra, la famiglia. Da contesti complicati, trovano nella comunità del foyer l’occasione di fare corpo – e di parlare dei propri corpi: la sessualità, perché no. Dividono gioie e dolori, non mancano di accapigliarsi. Sul filo della giovinezza, con un futuro incerto e un passato con cui fare i conti, trovano nella direttrice Lora un supporto, praticamente un’amica; forse, anche qualcuno da aiutare a loro volta.


PERCHÉ INNAMORARSI DI LA MIF

Girato con attrici non professioniste in uno stile che a tratti rasenta il documentario, La Mif è un film d’immersione, sensibile e sincero, che non può non toccare lo spettatore. È esattamente questo: una questione di distanze da bruciare, per un avvicinamento empatico ai personaggi. Senza agghindare la realtà, mostrando durezza e tenerezza delle sue ragazze, Fred Baillif non manca di innestare sulla forte basa para-documentaria un dispositivo drammaturgico che avvince, sciogliendo gradualmente i suoi nodi in un crescendo di tensione nella seconda parte.


INTERVISTA: FRED BAILLIF RACCONTA LA MIF

ANTONIO MAIORINO: comincio con una domanda che corrisponde esattamente a quella di una delle protagoniste, Lora, l’assistente sociale che nel film sente le ragazze della casa famiglia parlare di « la mif » - da cui il titolo del film – e chiede alle ragazze: “C’est quoi la mif?”, che cos’è la mif?

FRED BAILLIF: è un’espressione corrente utilizzata dai giovani, soprattutto quelli che vivono nel foyer dove ho lavorato (casa-famiglia, d’ora in poi così nel testo ogni volta che l’intervistato dice foyer, n.d.R). La mif significa la famiglia nel verlan, ossia lo slang del francese: fa-mi-lle, per inversione, diventa mi-fa, abbreviato mif. Perché la famiglia? Perché l’istituzione rappresentata dalla casa-famiglia serve per proteggere i giovani, o almeno è quello che dovrebbe fare; ciò che io mi chiedo in particolare, però, è se davvero risponda al bisogno fondamentale di riempire il vuoto della cosiddetta famiglia funzionale, ammesso che si possa parlare di famiglie davvero funzionali. Aggiungo che questa espressione corrisponde esattamente a quella utilizzata dalle ragazze prima e dopo la realizzazione del film per parlare di noi, cioè della squadra che ha realizzato il film. Si tratta in realtà di una visione un po’ ironica, di un modo per metterla in discussione, come a dire: potete essere una famiglia per noi, che non abbiamo famiglia? Voi adulti, ne siete davvero capaci?


A.M: quando un film è così immerso in una realtà che il regista stesso conosce bene, è preparato con attenzione così scrupolosa da sembrare a tratti un documentario, sceglie di lavorare con attori non professionisti, il risultato non è semplicemente quello di un buon film, bensì quello di un film capace di trasformare la realtà, di incidere su di essa. Nel caso di La Mif, in particolare, la trasformazione che il film opera nei confronti della realtà è probabilmente quella di infrangere dei tabù mostrando concrete situazioni di vita. Come pensi che il tuo film rompa i tabù e modifichi la percezione della casa-famiglia da parte degli spettatori?

F.B: all’inizio, prima ancora di aver incontrato i giovani e gli educatori della casa-famiglia, avevo voglia – meglio ancora, avevo bisogno di parlare dell’incesto e degli abusi sessuali. È una mia idea di quattro anni fa: si trattava di un tabù. Oggi la gente ne parla di più, quattro anni fa, no. Prima d’allora, avevo incontrato molte donne che mi avevano parlato apertamente di abusi e di averli subiti da parte di nonni, zii, padri: dalla famiglia. Ne sono rimasto molto sorpreso e ho pensato che anche gli altri sarebbero stati sorpresi a sentirne parlare. Ho quindi pensato di realizzare un film in un contesto che mi desse la possibilità di abbordare questo tema e così mi sono avvicinato alla casa-famiglia.


A.M: per un film del genere, avvicinarsi è decisivo. Quale metodo di lavoro hai utilizzato?

F.B: ho un metodo di lavoro particolare. Ho cominciato facendo delle interviste come se avessi dovuto girare un documentario di persone che lavorano in una casa-famiglia.  L’ex direttrice è un’amica; Lora nel film, si chiama Claudia nella vita reale. Appena è andata in pensione, mi ha detto che avrebbe partecipato al film, non essendoci più conflitti d’interesse. Dal canto mio, le ho spiegato chiaramente che volevo parlare di sessualità: spiegare ai protagonisti il tema del mio film fa parte del mio metodo di lavoro. Ho chiesto a tutti gli intervistati, Lora compresa, quale fosse, secondo loro, la tragedia più grande a livello professionale; lei mi ha risposto che ciò che considera catastrofico nel proprio lavoro è l’impossibilità di dialogare attorno alle questioni della sessualità dei minori. Questo tabù, che esiste di per sé nella società, diventa ancora più grave in una casa-famiglia, per timori legati alla politica, ai giornalisti, alla reputazione dell’istituto e della fondazione. Ho capito all’improvviso che sarebbe stato questo il soggetto del film e che Claudia stessa avrebbe avuto la capacità di interpretare il ruolo della direttrice e di saperlo raccontare attraverso il suo modo d’improvvisare.


A.M: si è da poco conclusa la 43esima edizione del festival Cinema du Réel. Questa espressione di "cinema del reale" sta pressoché soppiantando la distinzione tra documentario e finzione. La Mif in alcuni momenti sembra più vero del vero, ma non è un documentario. Ritieni che effettivamente si possa parlare più efficacemente di cinema del reale per inquadrare alcuni film, o è importante mantenere i confini tra documentario e finzione?

F.B: per me è assolutamente importante. Ho fatto una constatazione. Il mio primo documentario è stato proiettato al Vision du Réel nel 2006 (“Geisendorf”, n.d.R.) e prima di girarlo ho fatto esattamente la stessa cosa che ho fatto prima di La Mif, ma con una differenza. Oggi prendo il materiale che deriva dalle interviste, dagli incontri, dalla tessitura delle relazioni per creare una finzione; in altri termini, mi baso su quello che i personaggi mi dicono, sentono, vivono, per inventare una storia che corrisponda a loro, ma che sia frutto di un’invenzione. Prima, però, non era così, e c’è stato un momento di svolta ben preciso nella mia carriera. Stavo realizzando un documentario per la televisione svizzera con un produttore... molto produttore, vale a dire che puntava solo a fare ascolti. L’idea era straordinaria, una serie di ritratti basati sulla terapia di coppia: toccava davvero l’intimità delle persone, era un soggetto molto delicato. Il produttore non faceva altro che dirmi di fare in questo o quel modo, per esempio, di fare in modo che poi la coppia si rimettesse insieme. Io facevo la spola tra lo psicologo e lo studio di montaggio e mi sentivo davvero perso. È lì che mi sono detto: amo il documentario, è la mia scuola di pensiero, ma adesso basta. Ho un’etica, non posso domandare ai miei protagonisti di fare delle cose che sono fuori dalla loro realtà. Già da tempo avevo voglia di fare film di finzione, così mi sono messo a lavorare ad un film totalmente improvvisato in un quartiere di Losanna, praticamente a budget zero. Mi sono divertito e ho capito che era quella la mia strada. Quando lavoro con i miei protagonisti, ancora oggi mantengo un accordo: niente della loro vita privata dovrà apparire nel film, a meno che non siano loro a volerlo. È questo che è successo a Claudia\Lora per La Mif: ha accettato di far rappresentare ciò che aveva vissuto secondo gli accordi, non c’è stata alcuna trappola o forzatura. Questa è la mia etica professionale, per cui deve esserci una distinzione chiara tra finzione e documentario.


A.M: prima di fare il regista, tra le altre cose sei stato tu stesso assistente sociale. Qualche mese fa ho intervistato Ana Rocha de Sousa, Leone del Futuro a Venezia 2021, per il film Listen, che si basava su storie vere ed era ambientato nel mondo dei servizi sociali: una coppia in Inghilterra, di cui la madre portoghese, si vedeva sottrarre brutalmente i propri figli dai servizi sociali sulla base di una situazione discutibile e ingaggiava una dura battaglia per dimostrare che si era trattato di un errore. Chiedo a te la stessa cosa che chiesi ad Ana: c’è un personaggio invisibile nel tuo film che si chiama Sistema? Viene nominato per la prima volta al minuto 91. Come hai gestito questo personaggio fantasma?

F.B: il sistema è problematico perché si vive in un’epoca in cui si è ossessionati per le misure di protezione, che diventano prioritarie in tutti i domini. I miei migliori film sono quelli fatti con gli adolescenti anche a causa della mia stessa esperienza. Da adolescente ero giocatore di basket professionale, facevo parte della nazionale svizzera ed ho anche giocato gli Europei. Era fantastico, ma allo stesso tempo vivevo dei fallimenti scolastici perché il sistema scolare mi dava a intendere di non essere all’altezza. Questo ha generato una collera e una frustrazione che ancora oggi esprimo attraverso i film, che non sono solo espressione del cinema, ma di lavoro sociale. Ho un’attitudine da cineasta e da educatore: sono lì per aiutare i giovani a capire che anche se il sistema fa di tutto per farli sentire come se fossero nella merda, loro non sono nella merda, hanno un valore. Amo il cinema, ho una carriera da cineasta di cui vivo e che ho intenzione di continuare a perseguire, ma mio intento è anche aiutare questi giovani. È la mia battaglia e viene da molto lontano. Non ne ero consapevole prima, ma con i figli è venuta la maturità e ho capito perché avessi questa urgenza di fare film del genere. Il sistema vuole imporre, insegnare, istruire, con i suoi “devi, devi, devi”; si sbaglia di grosso e non fa capire ai giovani il loro valore. Io stesso ho pensato per tanto tempo di non essere all’altezza solo perché non avevo buoni voti in matematica. In sintesi, il mio messaggio è che la società pone l’accento sul concetto di protezione, mettere io penso che dovrebbe metterlo su quello di valorizzazione.


A.M: in proposito, c’è una ragazza nel film che si chiama Precieuse, e quando si presenta per la prima volta alle altre ragazze della casa-famiglia, quest’ultime non possono fare a meno di trattenere delle risatine divertite. Sembra un’ironia del destino, infatti, che all’interno di un luogo del genere, che accoglie ragazze e ragazzi dalle vite così complicate, possa esserci qualcosa di “prezioso”. Il tuo film ha vinto nella sezione Generation – 14+ al Festival di Berlino. Cosa pensi ci sia di prezioso in questa generazione, che il sistema cerca sempre di proteggere da qualcosa di negativo, anziché di valorizzare per qualcosa di positivo?

F.B: è qui il senso di tutto il mio percorso. Ti do un esempio. Quando abbiamo girato l’ultima scena del film dialogo tra Lora e Novinha, in cui Lora (spoiler; saltare al rigo successivo, n.d.R.) annuncia a Novinha che sua figlia si è suicidata, c’è stata una lunga improvvisazione che abbiamo chiaramente ridotto. Le due persone che hanno interpretato Novinha, ossia Kassia (da Costa, n.d.R.), e Lora, che, come dicevo, si chiama Claudia (Grob, n.d.R), si conoscevano già da prima, perché Claudia è stata davvero per diversi anni la direttrice della casa-famiglia di Kassia. Tutti piangono e sono emozionati, la scena è toccante e ho chiesto a Cassia come si sentisse, perché faccio sempre attenzione a prendermi cura del loro stato dopo le scene più forti. Kassia mi ha detto: “sono fiera di me stessa”. Stavamo ancora girando, e Claudia la guarda e fa: “la vita è incredibile, perché ho conosciuto Kassia all’età di dieci anni, oggi ne ha diciotto ed è la prima volta che la sento dire che è fiera di sé stessa di fare qualcosa”. Qui si riassume tutto il potenziale di queste ragazze e quando lavorano con me sono fiere di sé stesse come io sono fiero di loro. Oggi sono un po’ triste e frustato perché non hanno avuto la possibilità di andare a Berlino e di rendersi conto dell’impatto che hanno avuto sulla gente, poiché tutto si è fatto virtualmente. Certo, sognavo di andare a Berlino, ma il mio sogno si è realizzato a metà. È difficile per me e per loro: io ho fatto questo film per far sì che loro prendessero coscienza di valere, perché questo era l’obiettivo, al di là di girare un buon film.


A.M: ma di fatto il film è un buon film, anche tecnicamente. Una volta in un corso di critica cinematografica, prendendo spunto da alcune considerazioni del noto critico Enrico Ghezzi, si arrivò a paragonare l’analisi di un film alla dissezione di un cadavere: se ne separano quasi scientificamente le parti per osservarle – sceneggiatura, recitazione, movimenti della macchina da presa, montaggio ecc. Dal punto di vista di un regista, tuttavia, il lavoro è probabilmente assai più organico e le singole fasi di lavoro sono in qualche modo interlacciate. Come hai gestito tutto questo in vista dell’effetto di autenticità che volevi conferire a La Mif?

F.B: a livello di immagini lavoro con un capo-operatore e direttore della fotografia che è fantastico, mio amico da tempo. Si chiama Joseph Areddy e questo è il terzo film insieme. Il primo, girato in maniera molto intuitiva senza sceneggiatura, si chiamava Tapis Rouge, e per me è davvero riuscito, lo amo molto; aveva molta energia ma mancava un po’ di scrittura. Nel secondo, al contrario, c’era fin troppa scrittura; l’avevamo fatto con un budget superiore. Quando si è partiti col progetto di La Mif abbiamo molto discusso di come girare il film e lì ho capito come volevamo lavorare: più scrittura, ma allo stesso tempo massima libertà durante le riprese. Per ottenere questo, le stanze venivano illuminate a 360 gradi per dare all’operatore la possibilità di girare a 360 gradi. Joseph aveva l’autorizzazione, anzi, il dovere di far ripetere delle scene ai protagonisti quando si accorgeva di essersi perso qualche battuta, con un effetto di grande organicità e dinamismo. Tutta la squadra, la famiglia, che ha già lavorato in altri film ha potuto vedere la differenza a livello tecnico nel lavoro della macchina da presa.



A.M: ne stavi accennando, ma ti chiedo di precisarlo meglio: come si gestisce l’improvvisazione? Non tutti i cineasti lo fanno nello stesso modo.

F.B: quello dell’improvvisazione può dirsi davvero un metodo che ho messo a punto con l’esperienza, molto severo ma allo stesso tempo contraddistinto da totale libertà. Agli attori non professionisti fornisco un’indicazione precisa ma molto semplice, del tipo: “non andrai mai d’accordo con quella persona”. Posso anche sussurrare loro all’orecchio dei suggerimenti su cosa poter dire, ma lasciando la possibilità di dirlo con il proprio vocabolario, con le proprie parole. Spingo decisamente i giovani a parlare col proprio linguaggio, è questo che dona autenticità al film. Inoltre, ogni attore è all’oscuro di quello che ho detto agli altri attori e soprattutto gli interpreti non conoscono la storia nella propria interezza, bensì ne apprendono ogni giorno una parte. Hanno fiducia in me perché mi conoscono da tempo ed io ho preso l’impegno di non tradirli in alcun modo, il che vuol dire che ogni giorno propongo qualcosa e verifico prima se sono tutti d’accordo.  


A.M: ma la scrittura c’è anche in un film improvvisato. In particolare, direi che in La Mif ci sia soprattutto nella seconda parte. Durante i primi minuti del film, avevo davvero la sensazione di trovarmi di fronte a un documentario. La seconda è diversa specie a causa degli sfalsamenti temporali: storie si sospendono, s’intrecciano, vengono riprese, si concludono; il tempo del racconto non coincide con quello della storia. Come mai questa scelta?

F.B: si tratta di una scelta fatta già in fase di scrittura. Volevo fare una serie di ritratti ed avevo voglia di far sì che lo spettatore fosse intrigato e restasse preso per saperne di più per un puro effetto drammaturgico. Ho usato un montaggio non lineare che non dà subito le risposte, resta sospeso. Ma non è facile da applicare, proprio per la libertà degli attori che mi spingono in altre direzioni e mi costringono ad adattarmi anche nel montaggio. Devo quindi destrutturare il montaggio sul piano temporale, e questo corrisponde alla destrutturazione della loro vita, della loro famiglia, evidente già dal titolo, che inverte le sillabe di “fa-mi-lle” in “mif”. Tutto questo è stato sì pensato, ma ci sono anche molte cose intuitive, perché il mio cinema si affida all’intuizione mia e dei protagonisti. Alcuni, peraltro, sono  arrivati tardi perché ho avuto il divieto di lavorare con dei minori, due settimane prima dell’inizio delle riprese. È stata considerata una forma di protezione dei minori e sono stato persino denunciato, dopo aver lavorato con la casa-famiglia due anni. Allora ne ho trovata un’altra da cui altre due ragazze potessero integrare il cast. Era tardi, e allora ho detto alle due di inventarsi una storia e di sorprendermi durante le riprese. E così è stato. È un cinema organico, libero, in cui bisogna continuamente adattarsi. Il montaggio era durato mesi, ma alla fine l’ho praticamente ripreso da zero e rifatto... grazie al Covid.


A.M: alla fine La Mif, così interessante per il proprio dispositivo cinematografico, apre davvero gli occhi dello spettatore sulla realtà delle case-famiglia, e questo anche grazie al fatto che hai lavorato in quel mondo prima di fare il regista. La sensazione è che il personaggio che incarni il tuo punto di vista sul rapporto con questi giovani sia Lora\Claudia, la tormentata direttrice. È così? E come riassumeresti i tuoi valori da ex assistente sociale?

F.B: è complicato. Ho fatto studi da educatore e assistente sociale. Durante tutti miei studi mi si parlava tutto il tempo di distanza professionale. Era la questione più importante degli studi per il lavoro nel sociale e io non capivo mai, non potevo accettare di dover mantenere una distanza per un lavoro così umano. Se lavori nell’umano non puoi essere distante, è la grande contraddizione di questo mestiere ed è anche per questo che ho smesso di farlo. Certo, volevo anche cinema. Claudia per tutta la sua vita l’ha pensato ma non l’ha mai detto; l’ha detto ora, col film, durante le interviste: ha preso coscienza adesso del fatto che era completamente privata delle proprie libertà sul lavoro. Non si può aiutare gli altri mantenendo la distanza: è questo che volevo esprimere principalmente, insieme alle altre tematiche. Effettivamente Claudia\Lora esprime il mio punto di vista, ma è anche il suo. La pressione istituzionale, la violenza istituzionale è qualcosa che lei ha conosciuto bene.


SCHEDA DEL FILM

TITOLO INTERNAZIONALE: The Fam
ANNO: 2021
PAESE: Svizzera
REGIA: Fred Baillif
DURATA: 112'
CAST: Claudia Grob, Anaïs Uldry, Kassia Da Costa, Joyce Esther Ndayisenga, Charlie Areddy, Amélie Tonsi, Amandine Golay, Sara Tulu, Nadim Ahmed, Isabel De Abreu Cannavo
SCENEGGIATURA: Fred Baillif
FOTOGRAFIA: Joseph Areddy
MONTAGGIO: Fred Baillif

SOUND DESIGN: Maxence Ciekawy
PRODUZIONE: Freshprod
VENDITE: Latido Films | 
[email protected]


(immagini: principale, il cast di La Mif; prima all'interno: Fred Baillif in un incontro ufficiale al Festival Berlino 2021; seconda all'interno: fotogramma da La Mif. Si ringraziano Turi Finocchiaro e Fred Baillif)


Antonio Maiorino


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