Osservatorio Egitto: "Un Ostacolo al Cambiamento Democratico" [trad.]
Estero Lombardia

Osservatorio Egitto: "Un Ostacolo al Cambiamento Democratico" [trad.]

lunedì 2 settembre, 2013

MILANO, 02 SETTEMBRE 2013 - Intervista a Zeynab Abul-Magd [L’articolo risale al 30 aprile del 2013, ma a tratti evidenzia caratteristiche profetiche, e spunti di riflessione che superano la cronaca, n.d.t.].

Zeynab Abul-Magd, docente di Storia del Medio Oriente presso l’American Oberlin College, si oppone al nome “Seconda Repubblica” dato alle circostanze attuali in Egitto, poiché persiste ancora un regime totalitario, specie riguardo alla posizione dell’esercito. Dal maggio del 2011, Abul-Magd ha condotto ricerche sull’impero economico dell’esercito egiziano. Ha pubblicato il suo primo articolo sull’argomento sotto pseudonimo, mentre i successivi sono usciti con il suo vero nome. Al momento attende la pubblicazione del suo ultimo libro, sulle rivoluzioni subalterne nel sud dell’Egitto negli ultimi cinque secoli.

Dottoressa Abul-Magd, come vede lo status dell’esercito in questa Seconda Repubblica?

«Per comincare, non esiste nessuna Seconda Repubblica. Viviamo ancora sotto lo stesso regime autoritario, appoggiato da Mubarak, che si basa su un monopolio di potere di un singolo partito, un’economia neo-liberista, pratiche repressive portate avanti dalla polizia contro gli oppositori, e restrizioni imposte ai media e a organizzazioni della società civile. I fedelissimi del regime di Mubarak esistono tutt’ora, ed operano con le stesse politiche. Pertanto, non possiamo affermare che ci sia una Seconda Repubblica, ma possiamo dire che i Fratelli Musulmani hanno ereditato il regime autoritario di Mubarak. La Seconda Repubblica nascerà quando gli elementi e i meccanismi necessari a cambiare la struttura economica, politica e sociale della società egiziana saranno resi disponibili. Si può quindi aggiungere che all’esercito fa comodo la medesima posizione e gioca lo stesso ruolo che soleva svolgere sotto Mubarak, ed è persino diventato più potente, trasformandosi in un enorme ostacolo per il cambiamento democratico».

Quando, Lei pensa, l’esercito sia passato da istituzione militare ad una con interessi economici?

«Durante l’era Mubarak, la principale preoccupazione dell’esercito era quella di mettere su importanti progetti economici. Un cambiamento che risale al 1979, alla fine della guerra, quando fu siglato l’accordo di pace con Israele, quando Sadat istituì l’Organizzazione dei Prodotti Nazionali (NSPO) del Ministero della Difesa, la cui missione era quella di aiutare il governo a istituire progetti infrastrutturali. Negli anni ’80, il ministro della difesa, il feldmaresciallo Abu Ghazalah, preparò il terreno per l’ingresso dell’esercito in attività imprenditoriali, inizialmente focalizzandosi sulla costruzione di complessi residenziali e commerciali per gli ufficiali. Tale politica si è estesa considerevolmente, specie negli anni ’90, assumendo proporzioni ancor più grosse nella prima decade del nuovo millennio. L’ingresso nell’economia di mercato cominciò ufficialmente nel 1992, in seguito alla partecipazione dell’Egitto alla guerra del Golfo, e le promesse fatte a Mubarak di ridefinire il debito egiziano, in cambio di un programma di riforme economiche, inclusi progetti di privatizzazione di enti statali. L’esercito contribuì a questi sforzi con l’istituzione di ulteriori progetti, ma con l’ascesa di Gamal Mubarak e diversi uomini d’affari a lui imparentati, l’esercito ha cominciato ad avvertire che la propria influenza negli affari stava affievolendosi, spingendolo ad estenderla attraverso l’NSPO, l’Organizzazione Araba per l’Industrializzazione (AOI) e il Ministero della Produzione Bellica (MoMP), oltre alla produzione di beni di consumo. Durante l’ultima decade del regime di Mubarak, l’esercito ha goduto di straordinarie concessioni economiche, e di una particolare posizione all’interno del regime. Agli ufficiali in pensione venivano assegnati incarichi di rilievo nella burocrazia statale, nei ruoli di governatori, sindaci, amministratori locali e capi di commissioni e aziende. Di conseguenza, questi hanno acquisito una forte autorità amministrativa, senza contare una espansione economica garantita».

Secondo Lei, l’ascesa di Gamal Mubarak e della sua comunità d’affari, negli ultimi dieci anni, ha portato a una espansione o a una restrizione del potere dell’esercito?

«In base alle ricerche che ho effettuato, si può affermare che l’esercito ha cominciato a fiorire economicamente verso la fine degli anni ’90. La prima decade del millennio ha visto un enorme boom economico, in cui l’esercito ha provato a controllare tutto ciò che poteva, in competizione con i magnati emergenti del Comitato Politico».

Dopo la rivoluzione, girava voce che l’esercito si era opposto alla privatizzazione del settore pubblico, e che, in uno dei meeting del Primo Ministro Ahmed Nazif, tenuto per discutere della vendita di un’azienda pubblica, il feldmaresciallo Tantawi ha rifiutato l’offerta.

«Questo è propagandistico. Lo stesso Tantawi faceva parte della commissione a favore delle privatizzazioni, e se questa storia fosse vera, perché son state vendute tutte quelle imprese ed aziende? E perché la protesta di Tantawi non è arrivata sin dall’inizio? Inoltre, l’esercito era un concorrente nelle operazioni di vendita, e quando si chiese di privatizzare la SEMAF – una compagnia ferroviaria -, questa fu acquistata dall’AOI. Come può l’esercito essere contro le privatizzazioni, nel momento in cui sta provando a trarre vantaggio da questi affari e inglobare le compagnie acquistate? Un chiaro esempio è la vendita della Nasr Car Factory, che ebbe inizio nel 2010 e adesso è controllata dal MoMP, nelle ultime settimane. Al tempo, Tantawi inviò una lettera agli ufficiali, esprimendo il proprio intento di voler incorporare l’azienda nell’NSPO. Quella transazione lascia intendere che l’esercito era concorrente in una competizione iniqua, dove l’esercito ha messo le mani su qualsiasi impresa pubblica fosse interessato, in virtù della propria influenza. Inoltre, l’esercito controllava un grosso numero di traffici commerciali stranieri, come la Nile Shipping Transport Company – responsabile dei traffici tra Egitto e Sudan – senza calcolare una miriade di compagnie portuali, con l’assistenza di dirigenti generali, responsabili di aziende ad Alessandria e sul canale di Suez. Lo stesso Mubarak favorì questa infiltrazione economica poiché voleva favorire l’esercito per migliorare il suo progetto di successione del potere. Questa situazione non è terminata dopo la rivoluzione, ed è uno dei più importanti segni del perdurare del regime autoritario di Mubarak. L’infiltrazione economica e politica è continuata ed è persino cresciuta nella prima fase, in un modo che potrebbe risultare logico sotto il Consiglio Militare. Qualcuno potrebbe ingenuamente credere che la situazione sia finita con l’avvento al potere di Mohamed Morsi, e con l’orchestrata rimozione di Tantawi. Ma in realtà anche i Fratelli Musulmani stanno tentando di favorire l’esercito».

Lei non pensa che il controllo dell’esercito sugli apparati burocratici del Paese, con la presenza di militari d’alto grado a capo di compagnie, organizzazioni e aziende, abbia avuto inizio nel 1952?

«Gli anni ’50 e ’60 erano diversi. L’esercito a quel tempo non rilevava organizzazioni economiche, ma gestiva lo Stato e le sue istituzioni soltanto come sovrano. La proprietà di tutti i progetti esistenti apparteneva dunque allo Stato Socialista che ne era unico investitore, piuttosto che ai settori privati o a specifiche organizzazioni. Ad ogni modo, si può dire che quell’epoca è stata un periodo teso ad acquisire esperienza nel campo della gestione economica, specie con l’interazione con la fase sovietica. Di conseguenza, l’esperienza gestionale dell’esercito si basa su vecchie pratiche sovietiche, caratterizzate dalla repressione di qualsiasi comunità di business e tesa alla costituzione di una economia socialista. L’esercito cominciò a istituire i propri progetti negli anni ’80, supportato dalla repressiva esperienza sovietica. Tale tendenza fu facilitata dal fatto che nell’esercito dominava il concetto di obbedienza e disciplina. Un ufficiale subalterno impiegato in una fabbrica che produce frigoriferi o set televisivi, per esempio, deve obbedire al manager dell’azienda non solo come manager in sé, ma anche come superiore dell’esercito. Di conseguenza, in caso di insubordinazione, l’inadempiente viene processato dalla Corte Marziale e rinchiuso in un carcere militare».

Che ne è del modello sempre promosso dai media, e persino dalle serie TV, di un esercito nazionale egiziano che difende e protegge il Paese?

«È semplicemente un mito e un grosso luogo comune. Sin dagli anni ’50, l’esercito è riuscito a ricoprirsi di miti ed illusioni, dipingendosi come scudo e protettore della Patria, oltre a tutta una serie di qualità fuorvianti. Tutto cominciò con la favola della ‘Rivoluzione del 1952’ inscenata dall’esercito. Ciò che accadde, nei fatti, non era una rivoluzione ma un Colpo di Stato che il gruppo degli Ufficiali Liberi stessi non la descrivevano, all’inizio, come una rivoluzione, ma come un ‘fausto movimento ’. Successivamente, quando Taha Hussein ridefinì il Colpo di Stato come Rivoluzione, la propaganda e le agenzie dei media riscrissero la storia del colpo come rivoluzione. Questo periodo storico è stato indubbiamente seducente, d’impatto, e pieno di forti sentimenti nazionali. Ma è anche pieno di miti e pregiudizi. Un grosso segmento delle masse aveva fiducia nel progetto nazionale di Abdul Nasser, ma fu egli stesso a conferirgli perdita e frustrazione, con la sconfitta con Israele e la successiva perdita del Sinai. A questo periodo ne è seguito un altro in cui prevaleva lo slogan ‘Nessuna voce è più forte della voce della battaglia’, dove tutte le risorse umane e materiali del Paese furono mobilitate a favore di una lotta per ripristinare ciò che Abdul Nasser aveva perduto. Nel 1973 ci fu la Guerra d’Ottobre, persa da Sadat, terminata in una mezza sconfitta, così riconosciuta in ogni dove, mentre noi abbiamo vissuto e ancora viviamo il grande mito della vittoria dell’ottobre del 1973. Il Sinai è stato dichiarato zona demilitarizzata, con aree che si estendono al di fuori del controllo delle milizie egiziane. Con il trattato di pace israelo-egiziano, all’esercito egiziano è consentito dispiegare soltanto un numero limitato di veicoli di fanteria meccanizzata e un esiguo numero di soldati, e gli è proibito imporre pieno controllo della regione. Quando terminò la guerra, i militari cominciarono a dar vita al nuovo mito dell’esercito che s’adopera per lo sviluppo del Paese, con prezzi controllati attraverso la fornitura di beni di consumo a basso costo, ideali per le classi medio-basse, e salvaguardando il budget dello Stato. Ricerche in merito rivelano comunque che queste operazioni non sono altro che mere illusioni, e che lo scopo dei progetti economici dell’esercito era solo quello di migliorare i propri profitti finanziari. Un chiaro esempio è la Arish Cement Factory, inaugurata dall’esercito lo scorso aprile. I comandi militari hanno ripetutamente insistito sul presunto obiettivo di controllare i prezzi del cemento sui mercati, ma, sorprendentemente, i prezzi del cemento prodotto da questo stabilimento non sono inferiori a quelli degli altri produttori, e anzi sono spesso più alti, nonostante i militari non paghino le tasse, dazi doganali, acqua e elettricità. Inoltre, il terreno su cui sorge la fabbrica è stato concesso in uso gratuito dal governo, e la manodopera è costituita da reclute a basso costo. Non c’è parola più esatta nel definire tutto ciò ‘sfruttamento’. Noi ci troviamo in una delicata fase in cui abbiamo due pessime opzioni: la Fratellanza Musulmana, con i continui fallimenti quotidiani, e i tetri e pessimistici orizzonti verso cui vogliono indirizzarci, e in alternativa l’esercito, i cui svantaggi ed errori sono noti a tutti. Questo spiega perché qualcuno è disposto a chiudere un occhio sugli errori dell’esercito, per timore che la Fratellanza controlli unilateralmente il potere. Io non voglio tacere di fronte agli smodati errori dell’esercito. Questa onnipresenza dei militari è uno dei motivi che ostruisce la trasformazione democratica. Pur di preservare i propri interessi economici, l’esercito è pronto a sacrificare qualunque cosa, per far si che il proprio impero non venga pregiudicato, e ciò vuol dire che, siano i Fratelli Musulmani, i Salafiti, o qualsiasi altra forza politica a salire al potere, per loro andrà bene, se ciò garantirà di mantenere il privilegio di una posizione costituzionalmente di rilievo, un budget segreto, nessun controllo civile, ecc».

Pensa possa esserci uno scontro tra i Fratelli Musulmani e l’esercito?

«Sì, ma i Fratelli Musulmani non possono adesso avere controllo sull’esercito. I primi sono perciò costretti ad accettare le condizioni del secondo, concedendogli spazio e potere necessari. Ma questo non vuol dire che non ci siano tensioni tra le due parti».

Che cosa intende quando dice che i Fratelli Musulmani stanno avviando un controllo sull’esercito?

«Intendo reclutando un grande numero di sottuficiali e soldati a favore della Fratellanza. Tra parentesi, la maggioranza del personale militare e di manodopera sono stati assunti quando la Fratellanza e gli islamisti in generale dominavano la vita sociale in Egitto. Considerando il generale livello culturale basso, erano tutti automaticamente vicini ai discorsi dei Fratelli Musulmani, e ciò preoccupa gli ufficiali superiori dell’esercito».

Vede la possibilità di un Colpo di Stato dei militari ai danni della Fratellanza?

«Non credo, poiché adesso l’esercito è un’istituzione economica che bada ai propri interessi. Finché questi interessi sono conseguiti e garantiti, perché organizzare un Colpo di Stato che possa condizionarli?».

Come può spiegare dunque i recenti appelli da parte di politici e privati uomini d’affari, che chiedono il ritorno dell’esercito?

«Questi appelli sono mossi da due parti: la prima è la vecchia generazione di intellettuali e politici che hanno vissuto sotto la Dittatura Militare tra gli anni ’50 e ’60 e anche sotto Abdul Nasser, che ancora sogna il ritorno di quella forma di governo, e guardano a Abdul Nasser come leader ideale. Questi personaggi ancora credono che l’esercito sia l’unico partito capace di fondare l’ambito stato moderno, sull’esempio dei moderni stati nazionali che hanno istituito enormi progetti di modernizzazione nella storia e che hanno avuto leader militari, come Napoleone, Kemal Ataturk e Charles de Gaulle. La seconda parte nutre un odio estremo nei confronti della Fratellanza, ed è pronta ad accettare ogni altra alternativa, non importa quanto negativa, pur di liberarsi di un potere islamico in generale.»

di Mohamed Farag (http://www.correspondents.org/node/1324)

Traduzione: Dino Buonaiuto

foto: correspondents.org

Mohamed Farag è nato ad Alessandria ma adesso vive e lavora al Cairo. Ha collaborato con numerose testate, tra cui ‘Tajamoa’, ‘Addustour’ e ‘Elbadil’, e il quotidiano libanese ‘Assafir’. Attualmente lavora come redattore culturale presso il giornale ‘Akhbar Aladab’.

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