Tra hashtag e "capodanni": il 2014 della politica italiana
Politica Lombardia

Tra hashtag e "capodanni": il 2014 della politica italiana

giovedì 1 gennaio, 2015

«Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.

Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.

Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.

E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.

Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore [...]».

Antonio Gramsci, 1 gennaio 1916, Avanti!, edizione torinese, rubrica Sotto la Mole.
 

MILANO, 1 GENNAIO 2015 - È sempre questione di linee, confini, barriere da oltrepassare. Scrivere, o meglio ancora tentare di scrivere, sull’anno appena passato necessita ed implica, probabilmente, la capacità di elevarsi sopra gli eventi al fine di analizzare al meglio quanto accaduto. Impresa ardua.

Nel trascorrere della nostra quotidianità si è sempre orientati a pensare che la fine dell’anno sia corretta occasione per redigere bilanci, evidenziando aspetti positivi, sempre confortanti da evidenziare, e negativi, purtroppo quelli non mancano mai, e allo stesso tempo per prefissare obiettivi e nuovi propositi per l’avvenire. Il Capodanno è come se ci obbligasse a tale compito, una sorta di giorno di passaggio, di frontiera con immancabile tassa di pedaggio.

Personalmente, in questo giorno, amo da anni ricorrere alle sopracitate parole di Antonio Gramsci. Perché al di là della condivisione, o meno, delle idee del politico e pensatore sardo, concordo nel concepire ogni giorno come un capodanno, come punto di non ritorno, ovvero nel ritenere ogni giorno adatto e buono a «fare i conti con me stesso, e rinnovarmi». L’importanza, dunque, di «non perdere il senso della continuità della vita» che proprio perché tale è composta dallo scandire di ogni ora e dal trascorrere quotidiano. Elementi intrascurabili. D’altronde, è forse questa la bellezza di un anno. Una specie di continuo divenire, un prologo a qualcosa che ancora deve arrivare ma che nel suo progredire si rivolge sempre a ciò che lo attraversa.

E allora, forse, forzando lo spunto tratto dalle parole gramsciane, più che un bilancio o un resoconto, in queste righe, si vuole evidenziare come all’interno del panorama politico italiano, quanto è avvenuto lungo il 2014 non può prescindere dalla storia degli anni passati, essendo conseguenza di vari “capodanni”. Uno di questi, per esempio, potrebbe essere il 12 novembre del 2011, quando l’allora premier Silvio Berlusconi si dimise passando il testimone al “professore”, così amava essere chiamato, Mario Monti, il quale venne nominato nuovo presidente del Consiglio il 16 novembre dello stesso anno. Allora l’Italia navigava, più che a vista, nel vero e proprio tentativo di non affondare, con il baratro di nome “spread” che risultava a 474 punti, e che oggi invece, 1 gennaio 2015, si aggira a 130.

Dalla "riforma Fornero" al Jobs Act

Di primo acchito, quegli eventi sembrerebbero appartenenti ad un tempo oramai lontano. Eppure è proprio durante quel governo Monti, che venne varata la riforma del lavoro “Fornero”, tanto criticata allora e che oggi addirittura qualcuno ritiene migliore del renziano “Jobs Act”. Quest’ultimo, come oramai noto, è il disegno di legge delega approvato in Senato quasi un mese fa, per l’esattezza lo scorso 3 dicembre, e che era stato presentato per la prima volta l’8 gennaio 2014 dall’allora ex segretario del Pd, Matteo Renzi e dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. Più volte illustrato come uno dei punti cardini delle diverse “Riforme” annunciate da Renzi, nucleo essenziale del “Jobs Act” è il superamento dell’art. 18 che disciplina in materia di “Reintegrazione nel posto di lavoro”. Con questa riforma del lavoro fondata sul contratto a tempo indeterminato e a tutele crescenti, di fatto, viene annullato il diritto al reintegro per i licenziamenti di natura economica, mentre permane per quelli discriminatori (motivi di religione, di orientamento sessuale, politici o sindacali). Per i licenziamenti disciplinari, invece dipenderà da “specifiche fattispecie” indicate da decreti delegati.

In riferimento alle aziende con più di 15 dipendenti, presentando a grandi linee i temi principali di questi tre tipi di licenziamenti, sono importanti alcune precisazioni. Se come detto rispetto ai licenziamenti discriminatori nulla cambia, non è così per quelli disciplinari. La “riforma Fornero” aveva mantenuto la possibilità di reintegro, prevedendo anche diverse sanzioni: non il licenziamento, ad esempio, ma la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per alcuni giorni. Inoltre, elemento essenziale in questi casi era, per l’appunto, il ruolo della magistratura che aveva facoltà di stabilire il reintegro del lavoratore. Con il Jobs Act tale discrezionalità del giudice viene ulteriormente ridotta, ma come detto questo dipenderà dalle “specifiche fattispecie”. È tuttavia il licenziamento economico a cambiare maggiormente. Con la "riforma Fornero" il reintegro avveniva solo se il motivo era «manifestamente insussistente». La riforma del governo Renzi, invece, non solo non prevederà più il reintegro ma, con il contratto a tutele crescenti, vuole proprio evitare che per il licenziamenti economici si ricorra al giudice e quindi stabilirà nei decreti un’indennità prestabilita a cui il lavoratore avrà diritto in caso di licenziamento: crescerà al crescere dell’anzianità di servizio.

A colpi di hashtag

Ma come si è giunti al “Jobs Act”, e soprattutto al governo Renzi? Era l’8 dicembre 2013, quando Matteo Renzi, allora sindaco di Firenze, nonché “rottamatore” dei vecchi della politica, stravince le primarie del Pd, annientando la concorrenza di Cuperlo, Civati e Pittella. Da allora, Renzi fece seguire una serie di mosse, frasi, comparsate in vari talkshow, ma soprattutto tweet ed hashtag riportanti attacchi, più o meno velati, ad Enrico Letta, che dal 28 aprile 2013 era divenuto nel frattempo il presidente del Consiglio di un governo composto dalla larga convergenza di varie forze politiche. L’hashtag sinistro giunse il 17 gennaio 2014. Durante la trasmissione “Le Invasioni Barbariche” di Daria Bignardi, il neo eletto segretario dei democratici lancia l’ormai celebre #enricostaisereno al quale aggiunse: «Non mi interessa prendere il posto di nessuno, voglio fare le cose che interessano agli italiani». Era l’inizio di un’ascesa che catapultò Matteo Renzi da sindaco di Firenze a Presidente di turno dell’Unione Europea, naturalmente passando per Roma. Nel giorno di San Valentino, infatti, Enrico Letta rimise il suo mandato nelle mani del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Il 22 febbraio, invece, prese inizio il governo Renzi con il passaggio di consegne tra il vecchio ed il nuovo premier che verrà ricordato nella storia della Repubblica Italiana come il più veloce quanto gelido.

Il "Patto del Nazareno"

La serenità tanto invocata da Renzi, tuttavia, non era del tutto presente proprio tra le fila del suo partito. Causa di mal di pancia non troppo latenti il famoso “Patto del Nazareno”, ovvero l’incontro del 18 gennaio che vide per la prima volta nella storia del Pd e della politica italiana il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, il nemico di sempre, entrare nella sede dei democratici per incontrare il neosegretario Matteo Renzi. A detta dei bene informati, i due siglarono un patto sulla riforma del titolo V della Costituzione, sulla riforma del Senato e sulla legge elettorale, il cosiddetto Italicum, approvata in prima lettura dalla Camera dei deputati il 12 marzo e ancora in sospeso.

La vittoria di Renzi alle europee per un semestre anonimo

Ma al di là delle polemiche in seno al suo partito, di dietrologie e contrasti con i sindacati, Matteo Renzi legittima la propria leadership alla guida del Pd e della nazione con le elezioni europee del 25 maggio, riportando un successo da record che tocca la soglia del 40,81%. Un risultato che in un colpo solo annienta Forza Italia e scompagina quello che fino ad allora era il pericoloso avversario: il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. I detrattori, ma non solo loro, attribuiscono tanto successo al famoso provvedimento degli 80 euro, ovvero l’aumento di retribuzione netta mensile nella busta paga di buona parte degli italiani, approvato ad aprile. Ma tant’è, il premier si presenta all’appuntamento della presidenza di turno dell’Ue con un biglietto da visita da far invidia. In realtà il semestre italiano a Bruxelles passa inosservato. Renzi punta tutto sulle parole «flessibilità» e «crescita», ma si ritrova a fare i conti con l’austerità incarnata dal nuovo Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, in carica dal 1° novembre.[MORE]

L'Expo ed il 2015

Ritornando, invece, alle questioni strettamente di casa nostra, il mese di dicembre si apre con l’inchiesta Mafia Capitale che travolge il Comune di Roma e la politica romana. Scandali e tangenti che già nei mesi passati avevano coinvolto l’Expo di Milano, l’evento che contraddistinguerà proprio l’anno appena arrivato. Un 2015 che si aprirà con le dimissione già annunciate del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e quindi con nuove elezioni. L’augurio è che attorno alla figura del nuovo Capo dello Stato vi possa essere davvero unità nazionale. Questa una delle tante scommesse che attendono il nostro Belpaese, che vede nella crescita economica la priorità indiscussa da raggiungere. Obiettivo che non può prescindere da politiche lungimiranti.

(Immagine da europaquotidiano.it)

Giovanni Maria Elia

 


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