Agalma di Doriana Monaco da Venezia77, la regista: "lo sguardo nel tempo sospeso del MANN di Napoli"
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Agalma di Doriana Monaco da Venezia77, la regista: "lo sguardo nel tempo sospeso del MANN di Napoli"

venerdì 18 settembre, 2020

A Venezia 77, Agalma di Doriana Monaco ha portato un pezzo di Napoli, ma prima ancora una riflessione sensibile e ricca di suggestione sul modo di guardare l’arte. Meglio, di guardare, tout court. Presentato alle Giornate degli Autori, con l’anteprima assoluta nella Sala Notti Veneziane – L’Isola degli Autori, il documentario della regista classe ’89, originaria di Benevento, fa entrare lo spettatore nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli: muovendosi tra i racconti in prima persona delle statue (voci di Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni), esplorando le sale nel vuoto sospeso delle opere o nel silenzio dei visitatori assorti, immergendo nella routine della manutenzione, tanto quanto nella poesia del dettaglio o nel confine friabile dei luoghi inaccessibili. Del film, prodotto da Antonella Di Nocera e Lorenzo Cioffi assieme allo stesso Mann, con il contributo di Regione Campania e Film commission, abbiamo parlato proprio con la regista Doriana Monaco.


ANTONIO MAIORINO: sei entrata nel Museo Archeologico di Napoli per sorprenderne la vita segreta, ma in che modo la sua vita segreta ha sorpreso te?

DORIANA MONACO: è proprio questo il cuore della questione. Quando sono andata al museo archeologico ero interessata a raccontare l’elemento materico delle opere e l’arte classica dal punto di vista archeologico. Una volta ottenuti i permessi ed entrata nel museo, nella frequentazione costante del luogo, non potevo fare a meno di accorgermi di tutto quello che mi circondava dal punto di vista dalla quotidianità del museo e ne sono effettivamente rimasta sorpresa: mi sono aperto dall’elemento materico a quello spaziale. La vita quotidiana del museo – ecco, userei questa espressione, più che vita segreta – è entrata a far parte del film diventandone il motore.


A.M: agalma, la parola greca che dà il titolo al tuo documentario, potrebbe tradursi come “statuetta” o “immagine”, ma il significato profondo del termine è molto complesso e riguarda la concezione dell’arte dei Greci. Ne Il mondo dell’arte greca, lo studioso tedesco Tonio Hölscher spiega che le opere d'arte per i Greci avevano un fondamentale compito sociale: «rendere "presenti" gli esseri e gli oggetti rappresentati». Cos’hai fatto nel tuo film per rendere “presente” l’arte antica senza limitarti a realizzare un documento di pura divulgazione?

D.M: quando ho scoperto questa parola, un elemento che mi ha colpito è che significasse anche immagine, icona, in riferimento alla necessità dei Greci di usare la rappresentazione per colmare un vuoto. La prima idea, la prima scintilla del film è che l’immagine sia anche l’unità di misura del cinema. Volevo sovrapporre lo sguardo archeologico a quello cinematografico e farli fondere. Un altro aspetto che è stato decisivo per filmare le statue in modo da renderle vive, è stato quello di utilizzare lo stesso espediente degli antichi Greci. Loro non avevano le didascalie, si sforzavano di far sì che l’immagine potesse parlare da sola attraverso gli attributi: condensavano il racconto nell’immagine. È quello che ho voluto fare anche io col cinema: usare il visivo e l’immagine per raccontare queste opere. Poi ho scoperto l’utilizzo dell’iscrizione. Alla base delle sculture veniva spesso usata la formula in prima persona, con cui le statue dicevano: “io sono stato realizzato da... per questo motivo... e dedicato a...”. Questo aspetto mi ha ulteriormente confermato questo potenziale narrativo, al punto da utilizzare la voce fuori campo. Ancora una volta l’elemento archeologico ha fatto strada a quello narrativo. Come dicevi tu, dunque, c’è un racconto e non un intento puramente divulgativo.


A.M: si fa presto a dire immagine. Agalma, hai dichiarato, è anche la relazione tra l’opera e chi la osserva e ne è osservato. Ogni medium artistico, tuttavia, ha una diversa reattività, e questo vale anche nella relazione con la macchina da presa. Riprendere una statua di grandi dimensioni non è la stessa cosa che riprendere una lastra fotografica o una statuetta di terracotta. In che modo ti sei rapportata con la macchina da presa al diverso modo di reagire delle immagini in base ai rispettivi linguaggi artistici?

D.M: filmare un affresco comporta delle riflessioni diverse da quelle del filmare una statua a tutto tondo, sia rispetto all’oggetto in sé, sia rispetto alla sua relazione con lo spazio e con le persone. L’elemento su cui mi sono soffermata è stato ancora una volta di tipo materico. Degli affreschi m’interessavano le crepe, le fratture, come se da esse nascesse un ulteriore racconto. Diversamente, delle statuette di terracotta mi interessava il dettaglio, il frammento. La statua, come viene detto nel film, mi attira per la sua capacità di essere presente nello spazio, per citare Rodin, di “affettare lo spazio”. Altro aspetto è quello della dimensione. Confrontarsi con opere come l’Ercole Farnese comporta le proprie conseguenze. Ogni volta che mi sono confrontato con le diverse forme artistiche, c’è stata una riflessione di questo tipo.


A.M: la riflessione che hai appena condiviso è di carattere, appunto, formale, stilistico. Mi chiedevo se in Agalma ci fosse, però, anche un elemento squisitamente concettuale, riguardante il cinema che riflette su sé stesso. Per esempio, hai ripreso un Professore che durante una visita guidata si riferisce alla lastra pittorica con Le danzatrici e riflette su come il tentativo dell’artista di ottenere nella staticità dell’immagine l’effetto di movimento sia, per certi versi, un surrogato antico del cinema. Hai avuto la sensazione che il cinema stesse filmando la sua stessa archeologia, i suoi progenitori?

D.M: il cinema è presente in questo film a molti livelli. Per cominciare, c’è proprio l’aspetto di cui mi chiedi, ossia, reperire in queste immagini i precursori. Nel film, il professore ne argomenta come dell’impossibilità del racconto temporale, che spinge gli artisti antichi a trovare stratagemmi per il movimento e per la sequenza del tempo. In tal senso, mi viene in mente soprattutto il caso della Colonna Traiana: sembra un’enorme pellicola, il primo film della storia, che racconta col suo andamento elicoidale le guerre di Dacia. Poi c’è il cinema anche in un’altra questione. Quando mi sono interrogato su come nasca lo sguardo sulle opere, ho pensato a Viaggio in Italia di Rossellini in cui Ingrid Bergman si muove nel museo e si ritrova al cospetto dell’Ercole Farnese. Prima di filmare, cercavo un’immagine simbolo che potesse evocare ciò che doveva diventare il film, e quel fotogramma con Ingrid Bergman era quello che cercavo. Il cinema è dunque presente in vari aspetti come elemento centrale da cui far scaturire ogni riflessione.


A.M: a proposito della scena del film di Rossellini con la reazione di Katherine/Bergman all’Ercole Farnese, non è scontato che oggi sia questo tipo di turbamento, questo rapporto quasi empatico – se si può avere empatia con una statua – l’atteggiamento più diffuso del fruitore di opere d’arte. Arriva un momento in Agalma in cui filmi i visitatori. Che idea ti sei fatta, che il visitatore oggi sia più affine al personaggio di Ingrid Bergman in Viaggio in Italia, o a quel turista austriaco che qualche settimana fa per farsi un selfie con la Paolina Borghese di Canova nel Museo di Possagno ha danneggiato la statua?

D.M: devo confessarti che quando sono arrivata al museo e ho cominciato a filmare, per un periodo sono quasi stata convinta di non voler inserire il pubblico perché ne avevo una visione un po’ negativa. Ci sono tante persone che vanno in un museo o in altri luoghi legati alla fruizione di opere d’arte per passeggiare, per farsi una foto con una statua o dipinto famoso, e non dedicano il tempo necessario per costruire una relazione che sia di sguardo e di pensiero. Sono entrata al museo con questa idea. Poi, passando tanto tempo all’interno del museo, non potevo non osservarne il moto continuo, perché a volte al Museo Archeologico ci sono davvero le folle. Nell’osservare questi moti umani nello spazio ho provato a filmare per vedere cosa succedesse: non volevo ingabbiarmi in un pregiudizio. Il primo giorno in cui ho deciso di filmare mi sono posizionato in una sala e ogni tanto la macchina da presa intercettava delle situazioni che mi parlavano: mi sembrava che nascesse quella relazione sulla scia del fotogramma della Bergman. Ho continuato, e nel filmare, questa sensazione si è protratta. Non so se quella relazione sia reale o no, ma per me quei momenti hanno un valore e così ho deciso di raccontarli. Per rispondere dunque alla tua domanda, esistono entrambe le figure: il visitatore distratto e quello che riesce a costruire una relazione.


Agalma di Doriana Monaco da Venezia77, la regista:


A.M: c’è una relazione, tra le altre, che m’incuriosisce particolarmente: quella tra i tecnici del restauro, della manutenzione e della movimentazione da un lato, e le opere d’arte dall’altro. Ti ci sei soffermata in diversi frangenti. Qualche anno fa, un verso di una canzone di un noto cantautore italiano, in tutt’altro contesto, recitava: “tu non capisci la poesia / sei solamente un tecnico”. Nella loro rilassatezza, nei dialoghi piani, persino dialettali, questi tecnici ti hanno dato la sensazione di essere “tecnici e basta”, per i quali riparare una statua o un elettrodomestico non farebbe differenza, oppure sono solo “diversamente amanti” dell’arte?

D.M: è una questione molto importante su cui ho riflettuto tanto mentre filmavo, perché ti confesso che ci sono stati dei momenti che sono stati perfino traumatici, come quando il trapano entra nell’epigrafe di marmo. Mi dava una sensazione di violenza, ma quello era il loro modo normale di operare. Mi sono detta: per loro è un pezzo di marmo, poco importa, non pensano che stanno maneggiando un’epigrafe dove c’è scritto qualcosa, che ha una storia. in realtà, passando tanto tempo con loro, ci ho poi trovato la poesia, e non era scontato. Prendi gli addetti alla movimentazione, che stanno facendo un’operazione in cui non possono fermarsi a pensare: “stiamo trasferendo un affresco, lo trasportiamo con più poesia!”. Sanno di trasportare una cosa iper-pesante e in quel momento il loro unico obiettivo è di non fare danni; questo vale a prescindere anche quando prendi una porta o qualsiasi altro oggetto che non sia artistico. In quel momento specifico, se stai portando un’opera d’arte o un pezzo privo di valore non conta. Tuttavia, nel filmare quelle situazioni ho visto la poesia di chi lavora continuamente con quegli oggetti e anche quello è un diversamente amare, perché è una forma di cura. La stessa cura la ritrovi nella scena del film in cui c’è il personaggio in biblioteca, che appare chiaramente innamorato mentre guarda le foto e racconta lo spazio che si trasforma. Ebbene, anche nei personaggi impegnati nelle operazioni manuali vedo lo stesso innamoramento: questo ho dedotto passando del tempo lì, e non so se sono riuscita a comunicarlo con le immagini.  


Agalma di Doriana Monaco da Venezia77, la regista:


A.M: c’è anche un modo del museo di essere diversamente museo. MI riferisco ai suoi non-luoghi. Guardando un documentario ambientato al Museo Archeologico di Napoli, ci si aspetterebbe un’enfasi visiva sui luoghi abitualmente frequentati dai visitatori, a contatto con le opere d’arte. Invece, hai saputo incuneare lo sguardo anche in angoli, finestre, tetti, laboratori. Quanto importanti sono cinematograficamente questi spazi di diaframma?

D.M: il mio approccio al museo caratterizzato di questi non-luoghi. È veramente difficile la possibilità di entrare in uno spazio. I limiti e i confini ti vengono dati ogni volta che entri in un museo, ma quando ci entri nel modo che mi è stato concesso, sai che ci sono altri diecimila spazi ed è difficile non superare quelle soglie. Io ci sono entrata, uso dire, “lateralmente”, anche in senso fisico, cioè dalla strada laterale per la porta che affaccia su Santa Teresa, per dirigermi ai laboratori di restauro. All’inizio filmavo lì. Il film è quindi nato con questi non-luoghi, o meglio, con questi luoghi che non sono immediatamente pensati come invece accade alle sale espositive. Una riflessione che mi veniva in mente in questi giorni è che ci sono due situazioni su questi non-luoghi che sono la sintesi perfetta del film. La prima cosa che ho filmato è stata una frattura sul braccio del Doriforo: una crepa, un iper-dettaglio. Molti mesi dopo mi sono trovata sui tetti del museo e ho filmato degli operai. Questa cosa apparentemente non ha nulla a che fare col museo, ma se ci pensi entrambe le inquadrature rappresentano quello che non si vede quando non fai attenzione, quando non rivolgi uno sguardo. Sono quindi non-luoghi, o invisibili.  



A.M: e poi, appunto, ci sono le sale espositive. A un certo punto il tuo film sembra cambiare pelle: arriva la gente e muta la percezione del museo. La tua attenzione ai visitatori, che mi hai confessato essere stata una scelta non immediata, mi fa pensare a quel fotografo tedesco, Thomas Struth, specializzatosi nell’immortalare gruppi di visitatori al museo nell’atto di contemplare importanti capolavori dell’arte del passato. Chi guarda le sue fotografie, si immedesima con i visitatori e impara ad osservare l’atto di osservare. Pensi che possa accadere qualcosa di simile anche allo spettatore del tuo film? Come pensi di rigenerare il suo modo di guardare il museo?

D.M: la cosa curiosa è che conoscevo, in effetti, vari fotografi che facevano foto ambientate nei musei, ma solo molto dopo ho scoperto che c’è una serie di fotografie che hanno raccontato sistematicamente questa cosa. Mi sono ritrovata con un mosaico di foto molto bello che mi ha ulteriormente dato impulso alla realizzazione di Agalma. Come si rigeneri lo sguardo del visitatore, non saprei: andrebbe chiesto agli spettatori del film. quello che potrei sperare è che il film smuova qualcosa sul modo di osservare. Si esce dalla visione del film sapendo anche quello di non scontato che si fa in un museo, tutta la cura e il lavoro che lo contraddistinguono. L’altro aspetto ha a che fare con lo sguardo, con la necessità di guardare le cose, prendendosi il tempo che serve. Volevo restituire un tempo sospeso: il film si svolge in un tempo che potrebbe essere di anni o di minuti. Attraverso lo sforzo che si svolge nel tempo di guardare le cose da vicino o da lontano, di giorno o di notte, può nascere un pensiero. Questo volevo lasciare alle persone che vedono il film, e vorrei che se lo portassero nella città, un po’ come il flâneur di Baudelaire e Benjamin. La città stessa è un museo, ma tutto sta nel modo in cui guardi le cose: il dettaglio del tetto, il volto del passante, lo specchio dell’acqua; ma queste cose nascono solo col tempo. Ecco, questo è il punto: lo sguardo.


A.M: a cosa rivolgerai il tuo sguardo prossimamente? A quali progetti dedicherai il tuo tempo? Ad oggi, anche pensando a tue opere precedenti come Cronopios o ad esperienze come l’Atelier di Cinema del Reale di Arcimovie, a Ponticelli, nota una predisposizione ad una sorta di poetica del frammento, ma un orientamento ugualmente rivolto all’arte, con forti connotazioni estetiche, e al reale, con inclinazioni documentaristiche.

D.M: lo sto scoprendo proprio adesso, non ho un progetto preciso ma una serie di idee. Quello che posso dire è che tutte le forme d’arte sono al centro dei miei interessi. Ciò che mi entusiasma, forse l’unica cosa per cui vale la pena nascere ed essere umani, ma in questo momento non ho un progetto ben delineato. Sicuramente spero che Agalma abbia una vita, riuscire ad accompagnarlo in giro, incontrare persone. Nel frattempo, provare a scrivere e realizzare qualcosa. L’arte è uno dei miei interessi su cui vorrei lavorare.


SCHEDA TECNICA

SOGGETTO, FOTOGRAFIA, REGIA: Doriana Monaco
PRODUZIONE: Antonella Di Nocera (Parallelo 41), Lorenzo Cioffi (Ladoc)
VOCI: Sonia Bergamasco, Fabrizio Gifuni
PRODUZIONE ESECUTIVA: Lorenzo Cioffi, Armando Andria
SUONO IN PRESA DIRETTA: Filippo Maria Puglia, Rosalia Cecere
MONTAGGIO DEL SUONO E MIX: Rosalia Cecere
COLOR CORRECTION: Simona Infante
MUSICHE ORIGINALI: Adriano Tenore
ASSISTENTI ALLA REGIA: Marie Audiffren ed Ennio Donato
NOTE: produzione Parallelo 41 e Ladoc con Museo Archeologico Nazionale di Napoli con il contributo di Regione Campania e Film Commission Regione Campania film sviluppato in FilmaP Atelier di cinema del reale - Arci Movie
SITO UFFICIALE: clicca qui


(immagini, fonti: fotogrammi dal film Agalma, fotografo di scena Angelo Antolino. Nell'immagine principale: dettaglio di statua del MANN; all'interno, prima: operazioni di manutenzione al MANN; seconda: movimentazione di opere al MANN; terza: una visitatrice di fronte a una delle statue dei Corridori. Si ringrazia Simona Martino)

Antonio Maiorino


Autore
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