Greenpeace, i fallimenti del nucleare un anno dopo Fukushima
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Greenpeace, i fallimenti del nucleare un anno dopo Fukushima

mercoledì 29 febbraio, 2012

FUKUSHIMA, 29 FEBBRAIO 2012 - Un fallimento su tutti i fronti, a partire dalla prevenzione dei rischi, passando per la gestione dell'emergenza, fino ad arrivare al post-disastro e alle sue conseguenze sul piano economico e umano. È questo, in sintesi, ciò che emerge dalla lettura del rapporto “Lessons from Fukushima”, studio realizzato da Greenpeace a un anno di distanza dall'incidente avvenuto l'11 marzo 2011 nell'impianto nucleare giapponese.

Il rapporto nasce da alcune domande che l'associazione ambientalista si è posta in seguito all'incidente. Innanzitutto, com'è stato possibile che si verificasse dopo Chernobyl un altro incidente del grado più elevato – quello che, in sostanza, comporta la fusione del nocciolo del reattore, il cosiddetto “meltdown” - e che sia accaduto in uno dei Paesi più avanzati a livello industriale? In più, per quale motivo i piani di emergenza e di evacuazione non hanno funzionato e la popolazione non è stata sufficientemente protetta dall'eccessiva esposizione alle radiazioni? Infine, per quale motivo oltre 100 mila persone che hanno perso tutto in seguito all'incidente non hanno ricevuto adeguati supporti economici e risarcimenti affinché potessero ricostruirsi una vita? Per tentare di rispondere a queste domande, Greenpeace si è affidata ad alcuni esperti: Tessa-Morris Suzuki (professoressa di Storia del Giappone e attivista per i diritti umani), David Boilley (fisico nucleare), David McNeil (giornalista) e Arnie Gundersen (ingegnere nucleare), i quali hanno affrontato i diversi aspetti del problema rilevando quali sono stati i fallimenti nella gestione dell'incidente dello scorso marzo e, di fatto, dell'intero sistema di produzione dell'energia nucleare.[MORE]

I fallimenti individuati dagli esperti, come si diceva, sono sostanzialmente di tre tipi e investono tutte e tre le fasi relative all'incidente: la sua prevenzione, la gestione in sé durante il disastro, e i risarcimenti alla popolazione dopo il disastro. Dal punto di vista della prevenzione, il fallimento viene individuato nella sottovalutazione dei rischi derivanti dall'utilizzo di energia nucleare, quindi, secondo Greenpeace, nella sua intrinseca impossibilità di essere sicura. «L'incidente di Fukushima – si legge nello studio – segna la fine del paradigma della “sicurezza nucleare”. La “sicurezza nucleare” in realtà non esiste. Ci sono solo rischi nucleari che riguardano tutti i reattori, e tali rischi sono imprevedibili». Un esempio del fallimento dei meccanismi di prevenzione è il sostanziale collasso delle «barriere multiple, le quali dovrebbero proteggere la popolazione e l'ambiente circostante» e che, invece, non hanno retto e hanno permesso la dispersione delle radiazioni nell'ambiente circostante. «L'industria nucleare – si legge nel rapporto – continua a dire che la probabilità che si verifichi il più grave incidente nucleare è molto bassa. Con oltre 400 reattori nel mondo, la probabilità dovrebbe essere di un meltdown ogni 250 anni. Invece ce n'è in media uno ogni dieci anni».

Il secondo tipo di fallimento evidenziato dagli autori dello studio riguarda la gestione del disastro nei giorni dell'emergenza. Il Giappone è considerato uno dei Paesi più preparati nella gestione dei disastri su vasta scala, ma nel caso dell'incidente di Fukushima «scopre che i suoi piani di emergenza non hanno funzionato. Il processo di evacuazione è stato caotico, il che significa che molte persone sono state inutilmente esposte alle radiazioni». Andando nello specifico, è David Boilley a documentare la misura dei fallimenti. Nei giorni immediatamente successivi all'incidente, il governo ha negato il pericolo di fuoriuscita di radiazioni dall'impianto. Il 12 marzo (cioè il giorno dopo l'incidente), in conferenza stampa un esponente del governo ha sostenuto che dal reattore non fuoriuscivano grandi quantità di energia e che la popolazione situata nel raggio di 20 chilometri dall'impianto era al sicuro, salvo poi, dopo qualche giorno, chiedere alla popolazione situata tra i 20 e i 30 chilometri di lasciare “volontariamente” l'area. Ad aprile, l'area da evacuare è stata ulteriormente ampliata fino ad un raggio di 50 chilometri. In tutto questo periodo, le persone che vivevano in quell'area sono state esposte alle radiazioni perché si è negata la gravità di quanto stava accadendo. Sono molti altri gli esempi di cattiva gestione dell'incidente messi in evidenza dal rapporto di Greenpeace. Ne riportiamo uno su tutti, per comprendere quanto la situazione fosse caotica: nella prefettura di Fukushima, nei giorni successivi all'incidente, gli ospedali hanno dovuto sospendere i servizi perché centinaia di dottori e infermieri si sono dimessi dai loro incarichi per evitare di venire a contatto con le radiazioni.

Il fallimento, come anticipato, riguarda anche la situazione post-emergenza, ed è l'aspetto dell'intera vicenda che gli autori del rapporto definiscono più “spaventoso”: le conseguenze umane. Oltre 150 mila persone sono state evacuate e hanno perso praticamente tutto. Alla gran parte di loro sono stati negati i risarcimenti economici necessari affinché possano ricostruirsi una vita. In pratica, le persone sono state abbandonate a se stesse e molti di loro non hanno avuto akcun risarcimento in seguito all'evacuazione. Secondo la legislazione giapponese, i risarcimenti sarebbero a carico dell'azienda che gestisce l'impianto, in questo caso la Tepco, ma la legge non prevede «regole dettagliate e procedure specifiche in merito a “quanto” e “quando” debbano essere pagati i risarcimenti». Ad oggi, la Tepco ha fornito risarcimenti pari a 3,8 miliardi di dollari, ma secondo l'associazione, i danni reali possono essere calcolati con cifre comprese tra 75 e 260 miliardi, che possono salire fino a 650 miliardi se si aggiungono i costi per il “decommissioning” dell'impianto, cioè per il suo smantellamento. Secondo Greenpeace, i costi, se mai saranno coperti, finiranno per essere a carico dei contribuenti.

La soluzione per evitare altri disastri simili a quello di Fukushima, che «possono accadere dovunque», sta,  secondo l'associazione, nell'abbandono dell'energia nucleare e nel cambiamento delle tecniche di produzione energetica a favore dell'efficienza energetica e delle energie rinnovabili. Presentando lo studio sul sito internet di Greenpeace, Jan Beranek però evidenzia come, un anno dopo il disastro, «i governi continuano a proteggere l'industria nucleare invece di proteggere i propri cittadini. Gli “stress test” fatti sui reattori in tutto il mondo sono la prova che niente si è imparato dai fallimenti passati. Questi test hanno approvato senza discussione i reattori esistenti e hanno giustificato il fatto che continuino ad operare. Solo la Germania ha deciso per ragioni di sicurezza di chiudere prontamente otto dei suoi 17 reattori. Nessun altro reattore nel mondo è stato dichiarato insicuro o è stato chiuso in seguito al disastro di Fukushima. Scommetto – aggiunge Beranek - che anche la stessa Fukushima Daiichi avrebbe passato questi test».

(immagine da rapporto "Lessons from Fukushima" - www.greenpeace.org )

Serena Casu
 


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