"I colori della passione" di Lech Majewski, omaggio a Bruegel senza calore
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"I colori della passione" di Lech Majewski, omaggio a Bruegel senza calore

martedì 7 agosto, 2012

NAPOLI, 7 AGOSTO 2012 - “Ora, io sfido chiunque a spiegare il ‘cafarnao’ diabolico e grottesco di Bruegel ‘le Drôle’, altrimenti che una sorta di grazia speciale e satanica”. Così nel 1858 Charles Baudelaire metteva il dito nella piaga del delicato problema critico che ruota attorno al pittore fiammingo, contemporaneo di Leonardo e Michelangelo, ma abissalmente lontano, in quel mondo contadino, tra faggi e ghiacci virginali, tra devoti ed imbroglioni, mani callose e guanti arroganti. Il cinema, con buona pace del poète maudit, aveva provato, piuttosto surrettiziamente, a riprodurne l’ispirazione: ne Lo specchio di Tarkovskij c’è un’inquadratura che riprende con minuzia, sullo sfondo, il quadro Cacciatori nella neve, mentre in primo piano un uccello si posa sulle spalle di un bambino, al termine della faticosa marcia nel fango di un reparto dell’Armata Rossa.

Con I colori della passione, Lech Majewski – regista, videoartista, scrittore e pittore polacco – prova ad alzare l’asticella, raccontando, come per scambio mimetico, la gestazione creativa de La salita al calvario, brulicante dipinto del 1564, al tempo – inquieto – delle repressioni dell’imperatore Filippo II nelle Fiandre “spagnole” a danno dei movimenti riformistici. Sin dal prologo, come mutuando lo sguardo dello stesso pittore (un presepiale Rutger Hauer), gli esseri umani si collocano sullo sfondo di un paesaggio dipinto. In pittura, una figura che entra nel campo pittorico si definisce “ingrediente” ed in genere svolge un ruolo di mediazione tra spazio fittizio e spazio reale. La sequenza d’apertura del film pone un problema affine, trasponendolo nella dimensione cinematografica: si tratta di una taratura percettiva, che sin da subito chiarisce la natura di “tableaux vivant” dilatato della pellicola. Tra quotidianità affollata e landa creativa isolante, mimetismo fotografico e simbolismo trasfigurante, linearità descrittiva e circolarità atemporale, il percorso filmico ricostruisce la germinazione delle immagini risalendo al seme spirituale dell’ispirazione di Bruegel. Che – come correttamente si dà ad intendere – si nutre del dialogo costante tra la concreta, spinosa realtà del villaggio contadino e la più profonda devozione religiosa, nell’intreccio, più misterioso che doloroso, tra pietà contemporanea e meditazione su di un passato che pare rinnovarsi senza redenzioni. Statuaria, in tal senso, la sofferenza di Charlotte Rampling (Maria), che resta comunque immota, più che accalorata.[MORE]

Inevitabile, allora, ricostruire l’habitat cinematografico tra l’impressione di un paesaggio “archeologico” e la chiara finzione nella finzione del quadro che prende vita. Operazione convincente dal punto di vista visivo, sorretta da una fotografia suggestionata dalla pittura, in bilico sul crinale di un continuo raggelamento bidimensionale ed assecondata da sconfinati silenzi. Ma, per riprendere l’incipit, non si scorge traccia di quella “grazia speciale e satanica” che Baudelaire invocava. L’esecuzione si rivela allora algida, una sceneggiata “interiore” in costume, in cui, per dirla con Derrida, il problema è tutto nella cornice: fin troppo invadente, scoperta. Sicché, il viaggio nella plaga – anziché nella piaga – artistica di Bruegel, che davvero poteva riuscire visionario, resta sospeso tra la didascalia e l’azzardo mancato, tra la poca audacia e la scomoda fame d’arte: né per palati fini, impossibilitati a delibare in pieno la complessità del fiammingo, né per lo spettatore medio, crocifisso dall’inverosimile dilatazione del racconto, in un passione con molto colore, e poco calore.
 
(in foto: uno shoot del film)
 


Antonio Maiorino


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