I panni sporchi di Peña Nieto
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I panni sporchi di Peña Nieto

sabato 14 luglio, 2012

CITTÀ DEL MESSICO (MESSICO), 14 LUGLIO 2012 – Pri vince, Pan e Prd perdono. Enrique Peña Nieto vince, Andrés Manuel Lopez Obrador perde, di nuovo. Come nel 2006, quando il sistema consolidato dei brogli elettorali portò all'epoca calderonista, alla “guerra al narcotraffico” che ha fatto più di 60.000 morti in sei anni lasciando mano libera al Cártel de Sinaloa di Joaquín “El Chapo” Guzmán Loera, diventato in questi sei anni “l'imprendibile” perché a nessuno è mai interessato catturarlo realmente. Tanto è vero che la mattina del 20 gennaio 2001 – epoca in cui Guzmán Loera non è ancora il narcotrafficante più importante del Messico ed è detenuto presso il carcere di Puente Grande, nello Stato di Jalisco – Guzman Loera non scappa in modo rocambolesco come racconta la versione ufficiale del governo ma, semplicemente, esce dalla porta principale, con la complicità di circa 70 persone all'interno del carcere, come documenta la giornalista d'inchiesta messicana Anabel Hernández ne “Los Señores del Narco” (qui il passaggio di un'intervista concessa a Carmen Aristegui in cui questo passaggio viene esplicitato). Tra coloro che all'epoca chiusero ambedue gli occhi sulla vicenda c'era Vicente Fox, da poco eletto presidente il quale, come è sempre la Hernández a raccontare, ha per questo ricevuto ben 20 milioni di dollari.

Proprio Fox era stato l'uomo che aveva chiuso la lunghissima epoca del Partido Revolucionario Institucional (che di rivoluzionario, comunque, ha solo il nome) durata qualcosa come 70 anni e che oggi torna a scrivere un nuovo capitolo della storia messicana attraverso la “telecracia peñista”, come la definisce Jenaro Villamil, giornalista per la rivista Proceso. Ma andiamo con ordine.[MORE]

Peña Nieto, il vecchio che avanza. In questi giorni in Italia su Enrique Peña Nieto si è scritto poco, e quel poco è stato spesso scritto anche male, arrivando ad etichettarlo come “rivoluzionario” solo in base al nome del suo partito.
Nato nel 1966 ad Atlacomulco, nel nord dello Stato del Messico, avvocato, gaffeur, noto playboy con cinque figli – due dei quali avuti fuori dal matrimonio – e svariate relazioni (tutte da confermare le voci che ne vorrebbero alcune omosessuali), due matrimoni entrambi chiacchierati: la sua prima moglie è infatti morta in circostanze più che misteriose mentre la seconda è la nota attrice di telenovelas Angélica Rivera. Nota la sua vicinanza all'Opus Dei.

A lui i poteri che governano il Messico – tra cui anche quello dei cartelli della droga, che hanno optato per una vera e propria tregua elettorale durante il voto – hanno affidato le chiavi per riportare il Partido Revolucionario al potere, chiudendo almeno per il momento l'epoca del PAN (Partido Acción Nacional, il partito di centro-destra di cui fanno parte sia Vicente Fox che Felipe Calderón Hinojosa, ultimi due presidenti in carica).
«Siamo una nuova generazione», ha esordito, nel suo primo discorso da presidente, Peña Nieto, definendo il Paese che nel 2018 uscirà dalla sua gestione «un Messico di grandezza e speranza che tutti vogliamo e al quale tutti aspiriamo», con un'amministrazione «efficace, onesta e trasparente» ma soprattutto «aperta alla critica e disposta ad ascoltare e tenere in conto il parere di tutti». Le priorità, ha concluso il neo-presidente, saranno «una economia di mercato rinnovata con senso sociale, che generi occupazione e distribuisca ricchezza» e naturalmente la lotta ai cartelli della droga, «nella quale non ci saranno né patti né tregue».

Un discorso che comunque ha trovato non pochi oppositori, scesi in piazza in segno di protesta contro elezioni denunciate come non regolari insieme alla rete degli studenti “YoSoy132” e ad Andrés Manuel Lopez Obrador, candidato di Rivoluzione Democratica uscito già sconfitto nello scontro con Felipe Calderón nel 2006 e che ha accusato il Pri di aver comprato almeno un milione di voti. «Le elezioni presidenziali, e il voto in generale, sono state evidentemente ingiuste e segnate da molte e gravi irregolarità», ha accusato AMLO – come Lopez Obrador viene chiamato dai suoi sostenitori - «Utilizzerò tutti gli strumenti legali a mia disposizione per fare annullare i risultati elettorali».
In attesa di capire se questa volta Lopez Obrador riuscirà nel suo intento, i dati parlano di una vittoria al 38% di Peña Nieto, seguito a breve distanza (32%) proprio da AMLO e da Josefina Vàsquez Mota del Pan, fermatasi al 26%.

Nei giorni precedenti le elezioni, comunque, tutti parlavano della quasi certa vittoria di Peña Nieto. Perché il suo soggiorno a Los Pinos – sede della residenza e degli uffici presidenziali – è un progetto su cui in molti stanno lavorando già da un po'.
La sua carriera politica inizia nel 1993, quando diventa segretario generale dell'ufficio dello Sviluppo economico dello Stato del Messico (lo Stato più popoloso del Paese), carica che ricoprirà fino al 1998. Due anni dopo e fino al 2002 del Estado de México diventa segretario amministrativo, per poi passare – durante la 55° legislatura – a rappresentare il suo partito alla Camera dei Deputati. Dal 2005 è stato governatore dello Stato nel quale ha maturato quasi interamente la sua carriera politica. Soprannominato “Golden Boy” proprio per la velocità con cui ha scalato la gerarchia politica messicana, fa parte del cosiddetto “Gruppo Atlacomulco”, «un raggruppamento di famiglie che da questo paesetto disperso nel centro del Paese, governa da 70 anni l'Estado de México e ha cercato di ottenere la presidenza e il potere sulla nazione», come scrive il giornalista Francisco Cruz in “Affari di famiglia”, biografia non autorizzata del neo-presidente. Proprio dalle famiglie appartenenti a questo gruppo – Peña, Nieto, Del Mazo, Fabela e Gonzáles – sono usciti alcuni degli uomini più potenti degli interi Stati Uniti Messicani. Forse solo un caso, o forse no.

Gli studenti scesi in piazza contro Peña Nieto lo accusano – tra le altre cose – anche di quanto avvenuto il 3 maggio 2006, quando le forze dell'ordine impedirono ad un gruppo di otto floricoltori di insediarsi in una delle strade principali per il proprio commercio, in uno scontro conclusosi con due morti, centinaia di fermi, torture e violenze sessuali perpetrate dalla polizia (di cui furono utilizzate ben duemila unità) su ventisei donne. Tra i motivi scatenanti la rappresaglia governativa vi era l'opposizione popolare alla costruzione di un aeroporto sul territorio. Pur non ordinandole direttamente – scrisse all'epoca la Commissione nazionale per i diritti umani – Peña Nieto avallò le violenze.

Sorianagate. «Il Messico ha votato e Peña Nieto non ha vinto!», gridavano invece gli studenti scesi in piazza subito dopo le elezioni, in una manifestazione partita da Paseo de la Reforma – principale arteria cittadina – e conclusasi nel quartiere di Polanco, nella zona occidentale di Città del Messico. Miguel Platas, portavoce del movimento studentesco, dice che le elezioni del 1 luglio hanno reso palese la «frode orchestrata dai media e portata avanti il giorno delle elezioni con l'acquisto di voti e la manipolazione dei risultati». Una frode che sul social network Twitter è stata subito ribattezzata “#Sorianagate”, dal nome del supermercato – Soriana, appunto – del quale sono state utilizzate le carte prepagate per il voto di scambio. A seconda della zona di provenienza, i voti al Pri sono costati tra i 30 ed i 70 dollari, nonostante le smentite arrivate dal partito. Il movimento YoSoy132 ha poi denunciato altre pratiche di indirizzo del voto quali il furto di schede, minacce all'elettorato, tassisti che offrivano sconti sul trasporto a patto di votare per il Pri, funzionari e presidenti di seggio che scomparivano portandosi dietro intere urne piene di schede.
Altro scandalo è stato poi il cosiddetto “Manuale SIME”, un manuale appunto, distribuito ai call center per avere la certezza che i cosiddetti “votantes comprometidos” - cioè i voti certi – non cambiassero idea all'ultimo istante.

L'appartenenza al “clan Atlacomulco”, le violenze avallate di Atenco, il voto di scambio. Già da sole queste tre prove in un paese normale e che vorrebbe definirsi democratico basterebbero per chiedere il ritorno alle urne. Ma così non è stato, nonostante le promesse di Lopez Obrador.
Anche perché la rete che si muove intorno al neo-presidente è decisamente forte e pericolosa.

(foto:today.it)
Andrea Intonti [http://senorbabylon.blogspot.it/]


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