"Visioni pre-ecologiche" in scena al PAV con "EARTHRISE" - Intervista al curatore Marco Scotini
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"Visioni pre-ecologiche" in scena al PAV con "EARTHRISE" - Intervista al curatore Marco Scotini

mercoledì 20 gennaio, 2016

TORINO, 20 GENNAIO 2016 – La rubrica dedicata all’arte contemporanea saluta il nuovo anno nel segno di un nuovo inizio, magari accompagnato da un cambio di prospettiva, e lo fa attraverso un biglietto di auguri speciale, che rimanda alla foto della NASA scattata il 24 dicembre 1968 da William Anders durante la missione Apollo 8, nota come “Earthrise”, ovvero “il sorgere della Terra”, nome da cui prende in prestito il titolo l’esposizione in corso al PAV (Parco Arte Vivente) di Torino EARTHRISE. Visioni pre-ecologiche nell'arte italiana (1967-73)fino al 21 febbraio 2016.[MORE]

In quell’immagine il nostro pianeta appariva per la prima volta visto dall’esterno, dal suolo lunare (in primo piano), una rappresentazione inedita, spaziale, del paesaggio, preludio di cambiamenti e proiezioni sociali. La sfida ecologica si profilava in quegli anni tumultuosi, a cui si riconducono le ricerche pionieristiche degli artisti in mostra, il gruppo 9999 (con il Progetto Apollo e Vegetable Garden House, entrambi datati 1971; alla fine dello stesso anno risale anche il progetto relativo a Immagini del nastro tv sulla individuazione di modelli alternativi analogici del Cantico delle Creature di San Francesco), Ugo La Pietra (presente con la serie dedicata agli orti urbani Recupero e reinvenzione, del 1968-1965), Gianfranco Baruchello (si pensi agli esperimenti dell’Agricola Cornelia S.p.A) e Piero Gilardi (celebri i suoi Tappeti Natura del 1965).

Il progetto curatoriale è firmato da Marco Scotini, critico d’arte e curatore indipendente, intervistato per i lettori di InfoOggi.

Il “terreno” d'indagine del nuovo progetto espositivo ospitato al PAV di Torino?
La scena artistica italiana alla fine degli anni Sessanta: quella che per la prima volta vede la terra dalla luna. O, meglio, quel segmento artistico che percepisce in anticipo che il rapporto tra la terra e la modernità è giunto ad un punto di collasso. All’inizio dei Settanta veri e propri testi sull’ecologia non sono stati ancora scritti ma questa generazione ha chiaro che una versione non inquinata della natura vada ormai ricostruita artificialmente (come nel caso di Gilardi) oppure che il riciclo possa diventare una nuova modalità d’abitare (nel caso di La Pietra) e che l’agricoltura possa diventare un fatto d’arte, come con Baruchello o con il gruppo d’architettura radicale 9999. Al centro di queste ricerche (pur nella loro diversità) c’è un’idea di “socializzazione della natura” che mi sembra fondamentale e che distingue queste figure tanto dai cosiddetti Poveristi che dalla Land Art. Se è vero che oggi il problema ecologico è diventato preponderante, è altrettanto vero che non lo era allora e che queste proposte inaugurano una ricerca e una riflessione molto attuale. Se vogliamo dare legittimità ad un tema o un problema (o ad un operare) è giusto vederne le origini e la storia. Che questa percezione muova anche dal campo dell’arte e dell’architettura è davvero interessante.

Arte “impegnata” sul fronte ecologico, come affronta “Earthrise” la questione ambientale in relazione al doppio binario estetico-antropologico?
Rispetto al progetto che da qualche tempo stiamo sviluppando al PAV, “Earthrise” non fa altro che continuare a proporre quello che abbiamo iniziato con la mostra “Vegetation as a Political Agent” e cioè un nuovo rapporto tra natura e storia oppure tra scienza e politica. La storia non è più solo quella degli uomini ma anche quella delle cose naturali. La separazione tra mondo naturale (pur costruito dall’uomo) e mondo sociale (pur sostenuto dalla natura) è stata al centro della cultura moderna fino al momento in cui la crisi dell’ecosistema ci ha imposto un cambio radicale di paradigmi. Da questo punto di vista il PAV è un’istituzione fortemente innovativa che cerca di articolare e operare all’interno di questa nuova dimensione.

Quanto hanno influito sul suo lavoro i contributi di artisti e paesaggisti contemporanei? Un nome per tutti, quello del teorico francese Gilles Clement, presente tra l’altro al PAV con il giardino site specific “Jardin Mandala”.
“Jardin Mandala” è un’opera straordinaria di Clement pensata per il PAV e realizzata in situ nel 2010 ed è uno spazio che fa coesistere delle eterogeneità vegetali, secondo la sua teoria delle diversità biologiche planetarie. Certo che questo influente paesaggista è stato importante nella mia ricerca così come lo stesso Gilardi. Ma nell’ormai lontano 1994 ho iniziato un progetto a lungo termine dal titolo “Dopopaesaggio” che esplicitava nel sottotitolo l’individuazione del rapporto tra spazio sociale e ambiente naturale nell’arte contemporanea. Per me l’importante della natura è proprio questa condizione di socializzazione della stessa per cui un riscatto di quest’ultima può nascere soltanto da un vero e proprio cambio politico. Se non c’è questo è inutile gridare contro i cambiamenti climatici.

La bellezza di un paesaggio, del pianeta, da salvaguardare, sembra imporre una nuova educazione dello sguardo, più consapevole e responsabile, aprendo nuovi scenari e recuperando in parte la “stimmung” dei romantici, ovvero quell'aspirazione all'armonia cosmica che si può cogliere in un dipinto di Caspar David Friedrich.
Secondo me bisogna superare questa visione. Il problema posto dalla modernità è stato quello di relegare la natura ad una rappresentazione scientifica (da un lato) e ad una rappresentazione estetica (dall’altro). È un fatto curioso che quando il paesaggio in pittura si emancipa dal fondo e diventa un soggetto autonomo siamo proprio nel momento che inaugura la modernità. E la inaugura proprio a partire da una cesura costitutiva dell’uomo rispetto al mondo naturale. La grande storia pittorica del paesaggio è segno di questa separazione, di questa depurazione di un ambito dall’altro. Per Cezanne, nonostante tutto, l’albero è un colore, non più un soggetto utile al sostentamento e alla produzione. Se i romantici hanno bisogno dell’empatia con il paesaggio è proprio perché l’hanno perduto. Ecco che oggi noi dobbiamo superare la spettacolarità del paesaggio e ritrovare il luogo ordinario dell’arte della piantagione. Il che non significa ritornare ad un’idea di una natura incontaminata. Anzi si tratta dell’opposto.

Mai senza…
..un orto! Sì, direi un orto come quelli che oggi si ritrovano negli interstizi urbani o nelle periferie metropolitane. Più che come uno spazio l’orto va visto come una vera e propria modalità d’agire.

 

Domenico Carelli

(Foto: courtesy PAV Parco Arte Vivente)


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