Osservatorio Turchia: Erdogan e la sua strategia elettorale impopolare (ma non troppo)
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Osservatorio Turchia: Erdogan e la sua strategia elettorale impopolare (ma non troppo)

lunedì 24 marzo, 2014

 ISTANBUL, 24 MARZO 2014 – Continuano le operazioni in Turchia ai danni del social network Twitter: in seguito al blocco della piattaforma e dei DNS di Google, che consentivano di aggirare l'ostacolo collegandosi a server stranieri, il governo turco estende il divieto anche a t.co, un servizio che forniva una scorciatoia ai contenuti di Twitter per gli utenti turchi. Il servizio era destinato a proteggere gli utenti da attività dannose, come dichiara la stessa società sul proprio sito internet.

Erdogan continua a dichiarare guerra alla piattaforma, dunque, con una spietatezza che all'apparenza risulta fuori dal comune. Si potrebbero facilmente collegare le ultime mosse del governo turco alla diffusione, a mezzo internet, delle intercettazioni che stanno mettendo in imbarazzo l'entourage dei palazzi governativi, ma sarebbe quasi riduttivo. Ci sono stati momenti - manco troppo lontani – in cui i social network – e Twitter, in particolare – rappresentavano uno spettro molto più pericoloso. Basta lanciare uno sguardo alle proteste di Gezi Park della scorsa estate, quando i social media riunivano e organizzavano masse quotidianamente, milioni e milioni di persone pronte a scagliare tutte le proprie rabbie da vaso ormai traboccato. Ecco, in quell'occasione il governo turco si limitò semplicemente a rallentare per qualche – strategica – ora i servizi della rete, ma nulla più. Se i social network rappresentano la minaccia che Erdogan ha cominciato a millantare negli ultimi giorni, di certo aveva ragioni in più per attaccarli quando lo hanno trascinato nell'impopolarità agli occhi della nazione e del resto del mondo. E invece nulla.

Manco a dire di trovarsi nella necessità di un do-or-die, in stile Mubarak o Gheddafi, in una situazione in cui, spalle al muro, uno tipo le tenta tutte, pur di salvare il salvabile. Anzi. Considerato il fatto che mancano solo sette giorni alle elezioni amministrative in Turchia, momento cruciale per capire quanto il fuoco e le fiamme alimentate direttamente da piazza Taksim, fino ad arrivare ai venti maligni degli scandali di corruzione, abbiano infiacchito l'AKP e tutto il cucuzzaro. Ci si giocano le città di Ankara e Istanbul, tra le altre, che di certo batteranno il terreno per le future nazionali. Ci si gioca anche la credibilità, e in un paese democratico le campagne elettorali andrebbero devolute nel tentativo di rifarti, quantomeno, una faccia. Salvare il salvabile, appunto.

Certo è che la censura darebbe tutt'altro che il sollievo di riaccaparrarti i voti e le simpatie di chi in precedenza, magari, hai portato sull'orlo dell'indecisione. Una censura tra l'altro sciatta, mal studiata, ai limiti dell'impossibile, che poteva essere compiuta soltanto da un illitterato telematico – che non pare sia il caso di Erdogan. Se era, poi, per la diffusione dei video delle intercettazioni, perché scagliarsi solo contro Twitter, e lasciare in pace tipo Facebook e Youtube? Che pure, bloccati tutt'e tre, i contenuti si diffonderebbero all'istante magari su Vimeo o Soundcloud, generando un processo senza fine. E tutte queste cose Erdogan le sa.

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La strategia, insomma, sembra essere un'altra, e probabilmente va ricercata nei panni sporchi turchi, dove Erdogan adora, da sempre, rovistare. Erdogan prova a rifarsi una faccia partendo dal particolare, quando ha compreso che il generale gli si sta rivoltando contro. E quel “particolare” sono le singole storie di cittadini che hanno avuto problemi proprio con la piattaforma di Twitter. Da lì, il premier turco può scagliare tutte le sue invettive populiste, e guidare la propria strategia elettorale in altre direzioni, non per questo meno efficaci.

Non è un caso, infatti, che nel comizio avuto oggi a Istanbul, Erdogan ha ripreso più volte la storia di una casalinga di Samsun, la quale è stata vittima di un profilo fasullo che la ritraeva in pose nude e scene esplicitamente sessuali. Il caso ha riempito pagine e pagine di quotidiani negli ultimi giorni, ad opera delle “penne di regime” che cercavano di apportare giustifiche al blocco di Twitter. “Guardate”, sembrano dire, “Erdogan ha salvato questa donna, e salverà anche te”.

«C'era un ordine giudiziario e Twitter se n'è fregato», ha insistito il premier, vestendo sempre più i panni del buon samaritano, «così il caso l'hanno portato direttamente a me. E allora mi sono detto 'risolviamocelo da soli, faremo tutto quello che è necessario fare'».

Più che un suicidio politico, il caso Twitter in Turchia ripresenta l'abilità politica di deviare l'opinione pubblica e portarla a porsi dubbi anche dove non dovrebbero esserci, con la sfrontatezza e il procedere a oltranza, contro ogni logica, pur di mostrarsi coerenti. È la necessità di insinuare il senso di colpa ad ogni azione della gente, strategia della politica moderna, delicata, mascherata, vista e rivista in tantissime altre democrazie – Italia compresa, ma che, quando impregnata pure di Islam, tira fuori tutta la propria violenta irruenza, fino ad arrivare a pensare che lo stesso blocco di Twitter porterà Erdogan alla sua risurrezione. Da buona Araba Fenice.

Foto: mid-day.com

Dino Buonaiuto (corrispondente dalla Turchia)


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