Don Maurizio Patriciello: “la misericordia di Dio nella mia vita”
Parola e Fede Lazio Roma

Don Maurizio Patriciello: “la misericordia di Dio nella mia vita”

mercoledì 15 gennaio, 2020

Protagonista della storia di questa settimana è un sacerdote molto conosciuto, don Maurizio Patricello, prete simbolo della “Terra dei fuochi” – nella Campania avvelenata dai traffici di rifiuti, dalle discariche abusive, dai roghi tossici, dalla criminalità organizzata.  

All’età di 17 anni resta orfano di madre. Dopo la morte della madre si mette alla ricerca di qualcosa che possa soddisfare la sua sete di verità. Per diversi anni frequenta una comunità di evangelici pentecostali. Di professione era infermiere « Un giorno – racconta – decisi di prendere l’aspettativa perché volevo frequentare la scuola dei fratelli evangelici di Roma. Mi accorsi però, che non era quello che volevo io. 

Un giorno, nei pressi del bosco di Capodimonte, mi sono imbattuto in un frate francescano, fra Riccardo, completamente scalzo, con il saio sdrucito, tutto rattoppato che rigirava tra le mani la corona di un rosario. Gli diedi un passaggio in macchina e quell’incontro mi cambiò la vita». Fra Riccardo era romano: « Un giorno lo accompagnai a Roma dai suoi genitori. 

Fu lì – ricorda don Maurizio – che volle presentarmi la mamma di un suo amico di scuola, che chiamerò Angela. La donna aveva 24 anni quando si ammalò di sclerosi multipla. Ben presto finì sulla sedia a rotelle e soffrì in modo indicibile. 

Nella sofferenza, però, Angela trovò la fede e la sua vocazione: nel cuore della Chiesa ella avrebbe pregato e offerto il suo dolore soprattutto per i sacerdoti. Quando arrivai nella sua casa per la prima volta, le allungai la mano per salutarla. 

Mi accorsi che mi sorrideva senza però darmi la sua. Capii che non poteva e mi chinai per darle un bacio. Nacque tra noi un’amicizia bella, disinteressata, vera. Dopo quell’incontro cominciai a chiedermi seriamente che cosa il Signore volesse da me e compresi che la mia strada era quella del sacerdozio. Così nell’autunno del 1983 Maurizio si scrive, da laico, alla Facoltà di Teologia. 

Di giorno frequentava la facoltà, di notte lavorava in ospedale. L’anno dopo, siamo nel 1984, entra nel seminario teologico di Capodimonte. Alla fine del primo anno di teologia « chiesi e ottenni dal mio vescovo il permesso di ritornare a lavorare per i mesi estivi ». Dopo le prime settimane di lavoro Maurizio si accorse che qualcosa non andava. « Avevo trent’anni ed ero abituato a fare sempre le scale a piedi. 

A un certo punto ho cominciato a prendere l’ascensore, mi sentivo sempre stanco. Un amico medico mi consigliò di fare un prelievo del sangue. L’esito fu terribile: avevo solo 2.800 globuli bianchi. Non convinto ripetei l’esame in maniera più approfondita ma l’esito fu lo stesso. Mi misi in contatto con il reparto di ematologia dell’ospedale Cardarelli di Napoli e il dottor Verdi mi disse testualmente: “Maurizio, se tu dovessi stare come dice questo esame, sarebbe terribile, perché il midollo è quasi assente. Io credo, invece, che ci sia stato un errore nel prelievo. 

Stavolta te lo ripeto personalmente” ». « Tornato a casa mi sentivo peggio. Intanto – prosegue don Maurizio nel suo racconto – Sebastiano, mio carissimo amico di seminario, aveva promesso a Gianni, giovane disabile, di portarlo ad Assisi. Chiese a me di accompagnarlo perché per accudire Gianni occorrevano almeno due persone. Andammo e qui mi resi conto di quanto stessi male. Non avevo la forza di prendere Gianni per metterlo a letto o accompagnarlo in bagno. 

Non avevo la forza nemmeno di salire la scala dell’albergo. Intanto Angela, che spesso da Roma portavo al mio paese, vi fece ritorno senza avvisarmi. Strano. Si fece accompagnare da un amico a casa di Veronica, un’amica che la ospitava. “Siamo di fronte a una patologia grave” disse il dottor Verdi. Maurizio voleva essere ordinato sacerdote. Non voleva morire da seminarista.

I giorni passavano: « Una domenica mattina mi recai da Veronica, dove alloggiava Angela. Ricordo che Marta, la persona che la accudiva, le stava dando da bere un bicchiere di latte. Per Angela bere e mangiare era un autentico tormento perché ingoiava con difficoltà. Avevo la faccia triste per la piega che stava prendendo questa storia. Sapevo bene che Angela, la mia famiglia, la mia comunità, i miei amici, il mio rettore stavano pregando per me. A un certo punto Veronica mi disse: “Maurizio quando sarai sacerdote...”. Non le lasciai terminare la frase osservando: “Sarò sacerdote? Credo che in queste condizioni non rientrerò neppure più in seminario”. Fu allora che accadde una cosa inaspettata: Angela, che fino a quel momento aveva taciuto, si fece rialzare il capo, mi guardò con un sorriso e disse: “Maurizio, tu entrerai in seminario e diventerai sacerdote. 

La grazia è giunta, la battaglia è vinta” ». « Venne il giorno tanto atteso. Quella volta – ricorda don Maurizio – feci uno sforzo e mi recai al Cardarelli da solo. Ero emozionato e teso. Passavo dall’angoscia alla speranza. Le risposte non erano ancora arrivate al reparto, ma erano pronte nel laboratorio. Andai a prenderle personalmente e le consegnai al dottore. Il povero medico che una settimana prima mi aveva detto che ero affetto da una grave patologia ematologica, si fece rosso in viso e, ridandomi le carte mi disse: “Le faccia vedere al dottor Verdi”. Il dottor Verdi le lesse e rilesse, se le girò più volte tra le mani e quindi mi disse: “Maurizio, che cosa desideri in questo momento?”. 

“Ritornare a casa” risposi io. “Bene, replicò lui, te ne puoi andare”. Lo guardai, non gli chiesi niente, ma capii che ero guarito. Ritornai in seminario, proseguii gli studi e il mio cammino per diventare prete e il 29 aprile del 1989 fui ordinato sacerdote. Angela era volata fra gli angeli tre anni prima, e prima di morire affidò a Veronica un calice, pregandola di donarmelo per la mia prima Messa.

Per don Maurizio, tuttavia, un’altra malattia era in agguato. Siamo ad oltre vent’anni di sacerdozio: la depressione che gli giunge improvvisamente, come un macigno, nel 2013. « Era il giorno di san Carlo, il 4 novembre – ricorda – e stavo celebrando la Messa. Alla lettura del Vangelo una cappa nera, pesante più del piombo, mi cala addosso, tutto diventa buio dentro di me, il cuore comincia a battere all’impazzata. 

Avevo un senso di morte imminente e il desiderio di scappare via. Non capivo cosa mi stesse succedendo. Riesco tuttavia a terminare la Messa. Nel giro di pochi giorni se ne andò la fame. E con la fame il sonno. E la forza e la voglia di uscire di casa. Di leggere e studiare. Le notizie di ciò che avveniva nel mondo non riuscivano più a interessarmi. Tutto sembrava essere così lontano. Tutto così estraneo. Ascoltare le confessioni, visitare gli ammalati, parlare con la gente mi stancava. Celebrare la Messa era come salire il Calvario. 

Chiesi aiuto ai miei confratelli più vicini e a qualche amico psicologo credente. Furono semplicemente meravigliosi. La mia riconoscenza per la carità che ebbero per me non può essere che eterna. Mi vergognavo terribilmente di questa strana malattia. Non volevo che gli altri si accorgessero di quanto fragile fosse il prete sulle cui spalle, da anni, erano abituati a deporre i fardelli che non riuscivano a portare. Rino, lo psicologo, mi disse che si trattava di depressione». Passava le notti sdraiato su una poltrona davanti a un grande crocifisso nella camera da letto. « L’avvicinarsi della sera mi faceva paura. Più insopportabile di tutto era il pensiero di non guarire più. Amavo ricordare soprattutto la passione di Gesù. 

Avevo la certezza di essere un cireneo sotto la croce. Non chiedevo a Dio di toglierla dalle mie spalle, la croce, ma almeno di sollevarla un poco quando mi schiacciava: “Fa’ quello che vuoi, Signore, ma, ti prego, dammi il tempo di respirare un poco. Fammi chiudere gli occhi un minuto. 

Un minuto solo, poi ricominciamo...”. L’accompagnamento del mio padre spirituale fu fondamentale. Prezioso. Mi fidai. Mi affidai. A lui. Ai miei confratelli. A Rino. A Gesù.  Rino, lo psicologo, fu grande. Un giorno lo implorai: “Rino, ti prego, aiutami. Io voglio essere prete... voglio vivere da prete...”. Rino mi lasciò parlare, alla fine mi chiese: “Padre, per favore, mi vuoi confessare?”. “Lo fai per darmi fiducia, Rino, vero?”, gli chiesi e lui mi rispose: “No, padre, ne ho tanto bisogno...”. 

E le parti si invertirono. Il professore divenne paziente del suo paziente. E il paziente si accorse che Dio non ritira i suoi doni. Che mantiene sempre la parola data. Che non abbandona mai i suoi figli. Non sapevo, non potevo immaginare che cosa il Signore stesse preparando per me. Ero convinto di aver terminato la mia corsa ». « Un giorno – ricorda ancora don Maurizio – una persona di ritorno da San Giovanni Rotondo mi portò in regalo un paio di minuscoli sandali francescani con la foto di Padre Pio. 

Mi sembrò di udire la voce del frate cappuccino che nella nostra bella lingua mi diceva: “Guagliò, alzati e cammina, la strada è ancora lunga...”. Una volta presi con me il calice e andai a Pompei, a invocare la Vergine del Rosario. Il pensiero di non poter esercitare più il mio ministero sacerdotale mi faceva male. Arrivai in tempo per assistere alla Messa. Il celebrante si era recato a Pompei quella mattina per ringraziare la Madonna nel 50° anniversario della sua ordinazione. 

Durante l’omelia disse testualmente: “Prima di essere ordinato mi ammalai seriamente e i superiori erano in dubbio se ammettermi al sacerdozio. Io lo desideravo ardentemente e lo chiedevo alla Madonna. Come vedete, dopo 50 anni, sono ancora qui...”. Ebbi la sensazione che quelle parole fossero rivolte a me . Con l’anno nuovo ritornò a splendere il sole. La notte senza stelle si diradò. E ricomparve il cielo azzurro. E l’arcobaleno. E mi accorsi di nuovo di che cosa accadeva attorno a me. Fu un rinascere. Un risorgere. Un ritornare a vivere. Una seconda vita».

Don Francesco Cristofaro 




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