DCA: Intervista a Ilaria Caprioglio
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DCA: Intervista a Ilaria Caprioglio

venerdì 17 gennaio, 2014

 BOLOGNA, 17 GENNAIO 2014Anoressia, bulimia, sono i principali disturbi del comportamento alimentare. Sono una guerra combattuta sul proprio corpo, il controllo sprofonda in quella bilancia dove i numeri continuano a scendere e diventano un obiettivo, un traguardo. E' la guerra di quel silenzio dove il corpo muta in parole, sfiorare la propria magrezza è sentire come una lama tagliente la sofferenza dell'anima. Ilaria Caprioglio, avvocato e modella, ci ha raccontato la sua esperienza in quel tunnel apparentemente senza fine, asfissiante che è l'anoressia.

Le andrebbe di raccontarmi la sua storia?

La mia esperienza come modella, iniziata nel 1988 con la vittoria del concorso internazionale Super Model of the world, sono solita definirla con luci e ombre. Le luci, come i flash dei fotografi accanto alla pedana di una sfilata o la perfezione profusa nelle riviste patinate, abbagliano chi osserva dall'esterno quel mondo. Le ombre, invece, sono meno glamour e, difficilmente, vengono percepite all'esterno: nel mio caso sono scaturite dal senso di solitudine, dovuto allo sganciamento dagli affetti familiari, e dall'incontro con i disturbi del comportamento alimentare. Ammalarsi di anoressia svolgendo un mestiere che si avvale della magrezza eccessiva non sorprende, anche se ritengo corretto sottolineare come non tutte le modelle siano anoressiche. Tuttavia è sufficiente una frase, un commento insinuato con noncuranza da uno stilista o dall'agente che ti rappresenta per gettare, su un terreno fertile, il seme dal quale germoglierà la malattia. Il corpo rappresenta lo strumento di lavoro, già perfetto ma sempre perfettibile, e la perfezione diventa una questione di centimetri: quelli del seno, della vita, dei fianchi. Ero cresciuta senza curarmi troppo delle mie misure ma, quando mi accolsero in agenzia con il metro per verificarle e riportarle sul composit diventarono presto la mia ossessione. Capii immediatamente che se riuscivo a “limare un po' il fianco” potevo sfilare per uno stilista in più nella settimana della Milano-Collezioni. Iniziai così ad alleggerire i pasti tagliando i carboidrati, la pasta, il pane, i dolci e poi proseguii eliminando le proteine, i condimenti, i latticini fino ad arrivare a nutrirmi di mele e yogurt. Più l'ago della bilancia scendeva e il metro si stringeva intorno ai miei fianchi, più l'autostima saliva e il delirio di onnipotenza, nel constatare che riuscivo a modificare il fisico con la ferrea volontà, aumentava. Vivevo un delirio di onnipotenza che non mi permetteva di cogliere i segnali d'allarme che il corpo in riserva mi stava lanciando: la scomparsa del ciclo mestruale e il senso di spossatezza che costantemente mi attanagliava. Ero malata di dismorfofobia, percepivo in modo errato la mia immagine riflessa nello specchio: vedevo una perfetta indossatrice e non una giovane donna ormai ridotta a pelle e ossa. Dopo aver lavorato a New York e Parigi, arrivai a Monaco di Baviera e a quarantasei chili per centottantuno centimetri di altezza, la mia granitica forza di volontà si sbriciolò lasciandomi sola in balia di un intenso freddo fisico e psichico, di un improvviso vuoto interiore da colmare con il cibo. Il desiderio di cibo, in precedenza rimosso, divenne la mia ombra, il pensiero fisso che mi accompagnava durante gli scatti del fotografo o i provini. Lo assecondavo entrando nelle pasticcerie per comprare i dolci più ricchi di calorie che avrei divorato, al riparo da sguardi indiscreti, in totale solitudine. Mangiavo senza piacere, con voracità e rabbia, sforzandomi di terminare tutto quello che c'era finché il senso di nausea mi assaliva e io mi addormentavo con un sentimento di inadeguatezza e il proposito che quella sarebbe stata l'ultima volta. “Da domani smetto” mi ripetevo, sapendo di mentire a me stessa, mentre il peso aumentava e diminuiva, proporzionalmente, la forza di volontà. Raggiunsi i settanta chili e la convinzione del mio totale fallimento: a quel punto la depressione mi incontrò e in sua compagnia consumai qualche anno della mia esistenza.

Cosa l'ha spinta a rinascere, a scegliere la vita? Quando ha iniziato a vedere il cibo non più come un nemico, come uno strumento sul quale scaricare tutti i dolori dell'anima, ma come un nutrimento?

Vent'anni fa si parlava poco di disturbi del comportamento alimentare, erano considerati il capriccio delle ragazze viziate non una malattia vera e propria: si soffriva in clandestinità, provando uno sconfinato senso di vergogna e di sconfitta. La paura di confidarmi, mettendo a nudo le mie fragilità innalzò un muro fra me e il mondo. Da quel totale isolamento, dall'apatia di giornata trascorse a interrogarmi sul senso della mia vita e a rovistare fra gli avanzi di cibo, mi strapparono poche frasi pronunciate, con smisurata dolcezza e accorata partecipazione, da chi quella strada l'aveva già percorsa tutta. La scintilla, che mi rimise al mondo, scoccò con chi aveva vissuto lo stesso disagio e con lo sguardo mi spiegò che non mi giudicava, bensì mi comprendeva e ascoltandomi mi sosteneva nella rinascita. Il percorso di guarigione è stato lento, simile alla marcia di un granchio tuttavia, consapevole della mia vulnerabilità, avevo ormai affinato le tecniche per fronteggiarla. Uno degli strumenti dei quali mi sono servita è stata la scrittura autobiografica che mi ha aiutato a far chiarezza in me stessa. Annotavo le mie esperienze di sofferenza, cercando di riordinare le sensazioni che mi opprimevano attraverso la narrazione di cosa stavo vivendo. Avevo tracciato un punto fermo su ciò che era stato, smettendo finalmente di ripetermi sempre domani, domani mi impegnerò a riemergere. Potevo rileggere quanto avevo scritto e trovare la forza per urlare mai più. Dopo aver pubblicato il libro “Milano Collezioni andata e ritorno” (Liberodiscrivere edizioni) mi sono resa conto che altri si riflettevano nelle mie parole di dolore, comprendendo di non essere soli nel loro cammino di rinascita. Scrivere la propria storia rappresenta un sollievo per chi la narra e un'inestimabile risorsa per chi la legge, rendendo il sapere dell'esperienza prezioso e ponendolo al servizio degli altri.

Quanto crede che influiscano negativamente sulle ragazze o sui ragazzi i media, i quali spesso ritraggono persone che "incarnano" apparentemente la "perfezione"?

Erodoto scriveva “Portano il malato in un luogo di mercato affinché le persone che hanno sofferto di qualcosa di simile lo possano consigliare” e io utilizzo sovente questa frase per giustificare la mia titolarità a parlare di pressione mediatica e disturbi del comportamento alimentare durante i convegni medici o gli incontri con gli studenti. Il progetto di educazione alimentare per le scuole “Mi nutro di vita”, realizzato dall'omonima associazione della quale sono vice presidente e che è promotrice della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla, è finalizzato alla sensibilizzare dei giovani sui problemi legati ai disturbi alimentari e all'alimentazione scorretta indotti dallo specchio deformante della nostra società e a illustrare, in seguito, i principi alla base di una corretta alimentazione, non omologata o imposta da cattivi maestri. Cattivi maestri sono la televisione, il mondo del web e della moda che, complice l'agonia delle istituzioni famiglia e scuola, hanno assunto ormai una funzione didattica proponendo un modello corporeo al quale tutte le generazioni tendono ad aderire, percependo il proprio aspetto come inadatto e inaccettabile. In questi anni trascorsi con gli studenti, ma anche con i miei tre figli, ho ritrovato in loro le vulnerabilità della mia adolescenza, quell'ingrato periodo di transito che ci traghetta dall'infanzia all'età adulta. Un momento nel quale le incertezze dominano la vita affettiva e il futuro professionale appare lontano e confuso: solo il corpo viene percepito come una proprietà di cui poter liberamente disporre per rendersi visibili e individuarsi nella società. Mi rivolgo a loro per far comprendere quanto siano fallaci i modelli proposti e di come sia importante portare avanti con orgoglio e consapevolezza le proprie qualità fisiche e le proprie attitudini mentali. Sorprendentemente i giovani ascoltano, desiderosi di rintracciare finalmente nel mondo adulto dei modelli coerenti e autorevoli ai quali ispirarsi.

Eppure quella tempesta interiore si placherà un giorno, il cibo non sarà più il nemico da combattere, il corpo non sarà più un foglio bianco sul quale segnare i chili che separano dalla vita. La solitudine, l'assenza di un punto fermo, il vuoto, non stringeranno più così forte. Da quelle profonde ferite dell'anima nascerà una primvera di parole e vita. La guerra sarà finalmente finita.

(foto da Enrico Odano)

Rossella Assanti [MORE]


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