Il fatto é uno, il discorso é un altro. Intervista a Giuseppe Lo Bianco
PALERMO, 14 GENNAIO 2013 - Giuseppe Lo Bianco è cronista di giudiziaria da quasi trent’anni. Ha scritto diversi saggi sul rapporto tra mafia e politica. Ha lavorato per Diario, il Giornale di Sicilia e L’Ora di Palermo. In seguito, ha lavorato per l’ANSA di Palermo come capo servizio aggiunto fino alla fine del 2009. Ha collaborato inoltre con L’Espresso e Micromega. Attualmente scrive per il Fatto Quotidiano.[MORE]
Quando e perché ha deciso di intraprendere la strada del giornalismo?
Ho cominciato a 19 anni in un quotidiano che si chiamava Il Diario, primo esempio di giornale regionale a più edizioni. Era il mestiere di mio padre e fu lui a presentarmi al direttore, conservo ancora il ritaglio del mio primo articolo siglato. Per la firma dovetti aspettare qualche mese. Perché ho scelto il giornalismo? Perché mi piaceva scrivere e non avrei saputo fare altro.
Cosa significa fare il giornalista come corrispondente dalla Sicilia?
Significa avere sempre chiaro che Pirandello aveva ragione: per dirla con un detto popolare, il fatto é uno, e il discorso é un altro. Bisogna raccontare entrambi, mostrando chiara la distinzione.
Giornalismo d’inchiesta, di cronaca nera e giudiziaria; come si diventa cronisti?
Consumando le suole delle scarpe sulle scale delle questure, dei palazzi di giustizia, dei comandi dei carabinieri. E avendo sempre pronta la domanda successiva.
Come si sviluppa un’inchiesta?
Scavando dentro i fatti e portando alla luce gli aspetti più scomodi.
Quale ruolo ha oggi il giornalismo d’inchiesta?
Nessuno, perché non conta assolutamente nulla. I pochi che lo coltivano lo fanno solo per passione civile personale.
L’Italia è un Paese con molti misteri. Perché, secondo lei, non si riesce ad arrivare mai ad una verità giudiziaria?
Perché i patti e i ricatti che hanno segnato la vita italiana dal dopoguerra condizionano in modo irreversibile l’accertamento penale.
È autore, insieme a S. Rizza, di “Io so”. Il libro racconta gli ultimi vent’anni di vita politica in Italia con una lunga intervista all’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, oggi coordinatore in Guatemala dell’unità di investigazione contro il narcotraffico delle Nazioni Unite. Per quali motivi avete deciso di scrivere il libro? Qual è il suo scopo?
Per raccontare il ventennio berlusconiano appena trascorso utilizzando il punto di vista di un magistrato che ha conosciuto e conosce da vicino i misteri di questo Paese per averli indagati per anni.
Nel 1974 Pasolini scriveva: “Io so, ma non ho le prove” parlando degli anni di piombo e di un Paese caratterizzato da false verità istituzionali. Antonio Ingroia ha scritto: “Io so e ho le prove”. Perché avete deciso di dare al libro questo titolo che sembra richiamare Pasolini?
Perché é la sintesi più efficace dei poteri e dei limiti dell’azione penale e, nello stesso tempo, richiama il dovere civile di ogni operatore della parola, chiamato oggi a raccontare ciò che sa, dopo un ventennio di bugie e mistificazioni, politiche e giudiziarie.
Ingroia viene accusato di essere un magistrato politicizzato. Il Giornale ha anche promosso una raccolta firme per querelare il PM per aver infangato il buon nome di cittadini che hanno votato per quella fazione politica. Cosa pensa a riguardo?
Penso che Ingroia non abbia infangato nessuno, la storia di Forza Italia è perfettamente chiara per tutti coloro che non si fermano ai proclami di indignazione pelosa e guardano con curiosità storica la radice di quel partito. C’è materiale per farsi un’idea precisa anche da parte di quei cittadini che in buona fede l’hanno votata, e che in nessun caso possono sentirsi partecipi di un progetto criminale.
Oggi é cambiato molto o poco da quello scenario politico?
É cambiato molto, ho qualche dubbio che sia cambiato in meglio. Staremo a vedere.
Giulia Farneti
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