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La riforma della giustizia: breve storia di una battaglia civile

Mariaelena Baroncini
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La riforma della giustizia: breve storia di una battaglia civile
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Nel 1987 fu indetto un referendum che contemplava la riforma della responsabilità civile dei magistrati. Tra i promotori della battaglia ci furono Gianni Vattimo, Umberto Veronesi, Leonardo Sciascia, Mario Soldati e alcuni magistrati considerati di sinistra come Franco Marrone, che affermava “in questo referendum non c’è nulla contro noi giudici. Esiste nel nostro Paese un principio generale per cui tutti quelli che producono un danno per colpa poi debbono risponderne e conseguentemente risarcirlo”.

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Il referendum fu approvato con larga maggioranza, ma la volontà popolare fu tradita con la legge nr. 117 del 3 Aprile 1988, la cosiddetta legge Vassalli . Secondo l’art. 2 comma 1: “chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto, di un provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. I partiti che allora stavano al governo erano DC e PSI con PCI all’opposizione. In realtà le legge Vassalli è solo un palliativo all’impunità dei magistrati, in quanto permette solo blande azioni di rivalsa nei confronti dello stato. Secondo l’art. 7 della legge, tale azione deve essere proposta dal Presidente del Consiglio dei ministri presso l’ufficio del tribunale di competenza e non può superare la somma di un terzo rispetto l’annualità dello stipendio percepito dal magistrato nel momento in cui questa richiesta è perpetrata. La magistratura resta l’unica classe di lavoratori esclusi dalla responsabilità civile personale, solo lo 0,07 dei magistrati hanno perso la poltrona. Impunità. Tra le priorità dell’attuale governo nel 2008 era stata dichiarata la riforma della giustizia. Recentemente l’Italia è stata deferita dalla Corte UE di Giustizia per non aver modificato l’attuale legge sulla giustizia. Il referendum del 1987 fu proposto in seguito all’ondata emotiva di quello che è passato alla storia come il “caso Tortora”, una delle pagine più buie della storia giudiziaria italiana, una vicenda kafkiana in cui un uomo innocente si trova stritolato tra accuse infondate. Enzo Tortora era, all’epoca, uno dei personaggi televisivi più conosciuti, conduttore dal 1977 al 1983 di Portobello, una trasmissione che incantò milioni di telespettatori e fece la storia della televisione italiana. Personaggio amato quanto controverso, genovese di nascita, giornalista (fu collaboratore de La Nazione) e conduttore TV e radio, deputato radicale, era sicuramente un personaggio non allineato, per ben due volte fu cacciato e poi riammesso dalla RAI per insubordinazione.
Tortora fu arrestato alle 4 del mattino del 17 Giugno 1983 all’hotel Plaza di Roma, con l’accusa di traffico di stupefacenti e affiliazione alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. I suoi accusatori erano pentiti di camorra. Il pentitismo era stata la strategia vincente nella sconfitta del terrorismo, e la magistratura pensava di servirsi dei pentiti anche nella lotta contro la criminalità organizzata, ma molto spesso tali pentiti erano solo personaggi privi di scrupoli che, come in questo caso, erano disposti a calunniare chiunque pur di ottenere uno sconto della pena.
Tra questi c’era Giovanni Pandico, in carcere da tredici anni per omicidio, calunnia e tentato omicidio. In carcere aveva conosciuto il capo Raffaele Cutolo, di cui divenne scrivano e segretario. Pandico si presentò alla casa comunale di Liveri, in provincia di Nola, gli impiegati tentarono di respingerlo e lui li uccise a sangue freddo. Disse che lo aveva fatto per “desiderio di giustizia e di vendetta”. Le perizie psichiatriche lo definirono uno schizoide affetto da paranoia. Pandico consegna ai magistrati una lista di presunti affiliati alla camorra, il sessantesimo nome della lista è quello di Tortora. Un altro accusatore fu il pentito Gianni Melluso, personaggio ambiguo che aveva un forte ascendente sulla stampa, colto e raffinato, vendette il so memoriale ai rotocalchi, si sposò durante il processo in un elegante completo di Valentino. L’unico accusatore estraneo alla camorra fu Giuseppe Margutti, pittore, con precedenti accuse per calunnia, che disse di aver visto Tortora mentre spacciava droga. Nel corso delle indagini aumentarono da 2 a 19 i pentiti che fecero il nome di Tortora. Pasquale Barra, detto ‘o Animale, primo dissociato della criminalità organizzata, fece il nome di Tortora solo al diciottesimo interrogatorio. Le accuse diventano più precise: Tortora è un uomo di Cutolo che controlla lo spaccio nella zona di Milano. Durante i processi i pentiti avevano occasione di parlare tra loro, ognuno confermava le accuse degli altri, e ne aggiungeva altre.
I legali di Tortora, tra cui l’avvocato Della Valle, sorpresi dall’assurdità delle accuse, non sapevano emmeno che strategia difensiva utilizzare. Si scoprì che non direttamente Tortora, ma la redazione di Portobello aveva avuto rapporti con un detenuto. Nella prima edizione di Portobello, quella del 1977, c’era una rubrica in cui si invitavano gli ascoltatori a inviare oggetti vari. Domenico Barbaro, in carcere a Porto Azzurro, nell’Isola d’Elba, dal 1975 al 1980 insieme a Pandico, inviò 16 centrini di seta da lui confezionati, ma il pacco non fu mai aperto in trasmissione. Pandico iniziò una ricerca sui rotocalchi e scoprì l’indirizzo milanese di Tortora, via Piatti 8. Inviò una lettera dal tono accusatorio, cui Tortora rispose che non tutta la posta che arrivava in redazione poteva essere aperta, data l’enorme quantità. La RAI inviò a barbaro un assegno circolare di 800mila lire. Pandico in seguito dirà ai giudici che lo sgarro fatto da Tortora a Barbaro non riguardava i centrini, ma una partita di droga.
Tortora passa sette mesi in carcere, prima a Regina Coeli, poi a Bergamo. Dal carcere scrisse molte lettera alla figlia maggiore Silvia, in cui denunciava la vergogna del carcere preventivo, cui erano soggetti detenuti che aspettavano anche cinque anni per un processo. La stessa stampa iniziò una vera e propria campagna colpevolista. Il giudice a latere nel processo d’appello contro Enzo Tortora fu Michele Morello, che in seguito dichiarò “Non si aveva ancora l’esperienza di questi pentiti…persone che non erano come i terroristi o come (non vorrei bestemmiare) i mafiosi, che hanno un’ideologia, sballata, come volete voi , ma comunque un’ ideologia; questi erano senza ideologia, senza niente, non avevano niente da perdere”.
Il 17 Luglio 1984 il tribunale di Napoli rinviò Tortora a giudizio, il 4 febbraio 1985 iniziò il maxiprocesso contro la camorra. Eletto eurodeputato radicale nel Giugno del 1984, Tortora poté seguire il processo, che durò 7 mesi, con 67 condanne e una settimana di camera di consiglio, da uomo libero. Andreotti scrisse “alcuni detenuti per evadere usano la lima, altri una scheda elettorale”.

Il 17 Sett embre 1985, Tortora è condannato. Accusato di essere un“cinico mercante di morte, ancor più pernicioso perché coperto da una maschera di savoir faire”. Sentenza che tutti si aspettavano per come era stato condotto il processo. Non era stato atto alcun pedinamento, alcun accertamento bancario, perquisizioni da cui non era emerso nulla. Il 10 Dicembre 85 si dimette da parlamentare europeo e il 29 si consegnò alle forze dell’ordine in Piazza Duomo a Milano. Il processo di secondo grado si tenne il 15 Settembre 1986, a oltre tre anni dall’arresto; la corte di appello di Napoli lo assolve con formula piena. Nel Febbraio del 1987 Tortora torna sugli schermi con Portobello, ma è un uomo distrutto, provato. Morirà il 18 Maggio del 1988, stroncato da un cancro.


 


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Scritto da Mariaelena Baroncini

Giornalista di InfoOggi

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