"Oltre le colline" di Cristian Mungiu, amare col diavolo in corpo
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"Oltre le colline" di Cristian Mungiu, amare col diavolo in corpo

lunedì 3 dicembre, 2012

Scalcia. Sputa. Bestemmia. Si dimena. Pare abbia persino le visioni. La legano. Non è indemoniata: è innamorata. Si tratta di Alina (Cristina Flutur), giovane rumena che ha trascorso l’infanzia con Voichita in un orfanotrofio, poi è stata adottata, ma è fuggita in Germania, mentre l’amica è entrata in un monastero ortodosso. Adesso è tornata per riscaldare quell’affetto, forse morboso, forse un tempo fisico, che davvero pare più di un’amicizia. Ma Voichita (Cosmina Stratan) ha Dio nel cuore, e qualche dubbio. Ed il monastero che la ospita, metterà a dura prova entrambe le ragazze.

Oltre le colline di Cristian Mungiu ha ben figurato a Cannes, dove entrambe le attrici protagoniste hanno incassato la palma per la miglior interpretazione, mentre al regista è spettato il riconoscimento per la migliore sceneggiatura. Premi meritati: perché, in sostanza, il film è un dramma raccontato bene, peraltro tratto da una storia vera, ed interpretato meglio. Il solco scavatosi tra Alina e Voichita è evidente sin dalle prime battute, quando la prima, di ritorno dalla Germania, regala all’amica una candela elettrica: ma nel monastero non c’è elettricità. Da un lato, Alina si profila come un’irriducibile “esule”: testa calda, senza famiglia (l’infanzia in orfanotrofio), fuggita anche dalla famiglia adottiva, fuggita dal posto di lavoro. Dall’altro, appare indicativa l’enfasi sulla prima inquadratura del complesso monasteriale, con il severo cancello e le scritte all’ingresso che già sanno di burocrazia della fede ed inospitalità. Ecco, allora, che dalla frizione tra la scomoda vitalità di Alina e l’ottusa rigidità della comunità monastica, s’innesca il meccanismo della mancata accettazione, per cui ad Alina viene imposta l’unica identità che le consente di far parte degli ambienti tra cui è sballottata: “malata” in ospedale, “posseduta” nel monastero. "L'esclusa" diventa tale in senso davvero pirandelliano. [MORE]

Delicatissima e cruciale, dunque, l’interpretazione di nei panni di Voichita, per il fatto di trovarsi tra i due fuochi, o meglio, tra i due ghiacci: la freddezza di Alina verso il suo Dio (“Parli sempre di questo tuo Dio”), e quella della comunità verso Alina (penetrante l’inquadratura con le consorelle a tavola che guardano di sottecchi, diffidenti, Alina in piedi, appena tornata dall’ospedale). Nella fenomenologia delle ortodosse, Voichita appare conservare un’umanità più calda rispetto alle altre suore: s’interessa con partecipazione alle sorti di Alina, ma cerca di farlo attraverso il dialogo. Il vero dramma è il suo: mentre per Alina la tragedia è fisica, la sofferenza si fa subito carnale – col culmine della scena in cui viene legata ad una tavola legno sinistramente simile ad una croce –, per Voichita l’esperienza drammatica deriva dal confronto con un mondo privo di elementari impulsi di comprensione verso il prossimo, tutto compreso nelle proprie regole.

E così, il contatto con ogni sorta di burocrate diventa urto psicologico: dal medico impaziente di sbarazzarsi della malata (“Adesso vogliono pure insegnarmi il mestiere”), al Padre del monastero, preoccupato più dei riti sociali (“Sta per iniziare la messa... non possono vederla in questo stato”) e di quelli “di esorcismo”, che dei sentimenti; dal capo-reparto dell’ospedale, che rimprovera l’infermiera per aver portato Alina moribonda al ricovero (“Adesso daranno a noi la colpa della sua morte”), agli stessi poliziotti, che pur riconoscendo subito la colpa della comunità, sembrano assorbiti dalla routine dell’interrogatorio, nell’agghiacciante, aridissimo finale. Le colline non hanno gli occhi, vien da dire: ogni personaggio, o gruppo, resta vincolato alla propria limitata visuale. Ecco perché Voichita – non a caso, senza l’abito da suora nell’ultima scena, e di spalle mentre cammina in direzione opposta alla folla nel prologo – è l’inizio e la fine, nella propria fluidità emotiva che la porta da un punto all'altro, e non a caso l’unica testimone davvero attendibile dell’interrogatorio: sa guardare col cuore, prima di tutto. Oltre le regole.

Lo stile è quello che già avevamo visto in 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, Palma d'Oro a Cannes nel 2007: lunghe riprese con camera fissa, dialoghi con uno dei personaggi fuori campo, ritmi espansi. Con straordinario senso della narrazione, Mungiu mostra nondimeno una tendenza a fuoriuscire dalla stasi del racconto con concitate incursioni di autentica azione, per lo più giocate sul panico seminato da Alina nel monastero: la sua profanazione dei luoghi sacri, il count down perché sia allontanata prima di dare spettacolo con i fedeli, l’inchiodamento alla tavola di legno. È un panico che funziona come un reiterato rituale di scandalizzazione, un sentimento coatto della fede offesa, che sublima, tra gli incensi, una nevrastenia non così diversa da quella di Alina, non meno intransigente nel proprio sentimento d’amore sregolato per Voichita.

Con Oltre le colline, Cristian Mungiu imprigiona lo spettatore nello sguardo dell’ortodossia emotiva e nel carcere della burocrazia, inchiodandolo con riprese costringenti alla cronaca di una crocifissione annunciata, con tanto di redenzione – Voichita – in un mondo che resta, però, drammaticamente irredento.
 
Titolo originale: Dupa dealuri
Interpreti:
Cosmina Stratan, Cristina Flutur, Valeriu Andriuta, Dana Tapalaga, Catalina Harabagiu
Origine:
Romania, 2012
Distribuzione:
BIM
Durata:
155’

(in foto: in alto, poster del film Oltre le colline; all'interno, le protagoniste premiate a Cannes)

Antonio Maiorino
 


Autore
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