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Diaz di Daniele Vicari: la resistenza dello sguardo

Lidia Tagnesi
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Diaz di Daniele Vicari: la resistenza dello sguardo
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 L'arte, io non lo so se sia eterna o provvisoria, se la forma d'arte nella quale viviamo per molti secoli ci si sia connaturata come sangue, ma so che questa carica, che noi abbiamo oggi, è una carica di comprensione della vita.

Cesare Zavattini


SALERNO, 20 aprile 2012 - Non si dovrebbe mai dimenticare la lezione di Cesare Zavattini quando si chiede ad un prodotto artistico che indaga il reale, di raccontarci la verità.[MORE]
Film quali Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano fanno parte della storia del nostro Paese non solo in quanto esemplari di un grandissimo movimento cinematografico tutto italiano, qual è stato il neorealismo, ma soprattutto come testimonianze oculari delle trasformazioni dell'identità nazionale durante un preciso periodo storico, e quindi parte integrante della nostra memoria collettiva.

La forza di un cinema che vuole raccontare la realtà sta tutta nella potenza visiva di un'immagine che - Rossellini insegna - mostra, non dimostra. Che rivolge uno sguardo interrogativo e rispettoso sul mondo, senza la pretesa di interpretare o spiegare nulla, senza la giustificazione limitante e riduttiva dell'ideologia.
La verità del cinema sta nella verità dell'immagine. Ed è proprio in questo senso che Diaz ci mostra la verità.

Non un film politico, come i problemi sorti durante la lavorazione al film e il battage pubblicitario e mediatico che lo hanno preceduto potevano far pensare, non un film ideologico con i buoni da una parte e i cattivi dall'altra, non un film fastidiosamente pedagogico. Il film di Daniele Vicari è un film urgente e necessario ad evitare la rimozione collettiva di una delle pagine più buie della storia del nostro Paese: la notte in cui, quella del 21 luglio 2001, la democrazia è annegata in un insensato, folle, illegittimo bagno di sangue.
Don't clean up this blood , come recita il titolo del film, diventa allora l'unico imperativo morale che anima e spiega l'operazione di Vicari, che si pone nell'ambito di una resistenza al rimosso storico, affinché tutto il sangue versato ingiustamente, insieme ai reati consumati a Genova, non vada anch'esso in prescrizione.
Per farlo, si affida all'arma più potente di un cineasta: lo sguardo.
È così che noi tutti, per la prima volta in assoluto, entriamo nel teatro dell'orrore in cui si trasformarono prima la scuola Diaz e poi la caserma di Bolzaneto, quando gli apparati statali di pubblica sicurezza, politici e polizia provocarono lucidamente un allucinante black out democratico.
La macchina da presa di Vicari diventa la mano che ci accompagna negli abissi di un inferno realmente accaduto e fedelmente ricostruito attraverso gli atti processuali e le sentenze della Corte di appello di Genova, non c'è nulla di immaginato e niente che lasci spazio all'immaginazione.
La mostra dell'atrocità è costantemente sotto ai nostri occhi, la violenza, sonora e visiva, non ci dà tregua, ma il sangue incollato alle pareti e ai nostri occhi non è compiacimento splatter, ma sangue che racconta, che si fa storia e memoria.

Il senso del film è tutto qui, un'operazione a cuore aperto nella storia recente più nera che il nostro Paese abbia mai conosciuto. Un'operazione riuscita brillantemente, pur non scomodando Carlo Giuliani, che Vicari comunque cita, né rappresentando i Black Bloc attraverso facili manicheismi.
Le microstorie raccontate in Diaz (il giornalista di destra recatosi a Genova per seguire da vicino gli scontri, il sindacalista della CGIL, il manager che si trova a dormire nella scuola perché non trova un posto migliore, i ragazzi del Media Center, il vicequestore pieno di dubbi) esplodono e si frantumano tutte quella maledetta notte del 21 luglio, finite in pezzi proprio come la bottiglia di vetro che si fa figura retorica ripetuta per dilatare e restringere il tempo personale e collettivo. Un tempo che nella macelleria Diaz si ferma e implora di non essere dimenticato mai più, insieme a tutto quel rosso che ha macchiato definitivamente animi e coscienze. Chi ha visto, difficilmente dimenticherà.

Non si può e non si deve chiedere nient'altro a Diaz.
Il film di Vicari non è una tesi da dimostrare, ma una storia che affida alla potenza visiva dell'immagine cinematografica e all'impatto emotivo che provoca, la voglia di interrogarsi. La visione di tutta quella violenza insensata, folle, irragionevole, spaventosa, insostenibile, è una miccia che infiamma il bisogno di sapere e scavare tra le zone d'ombra di una realtà che non si può accontentare di una sola risposta.
Perché la verità è prima di tutto ricerca affannata, volontà di capire, consapevolezza che la realtà a volte è troppo complessa per essere chiusa in un concetto definitivo, troppo complicata per essere semplicemente detta.
Allora nel film di Vicari dobbiamo riconoscere e apprezzare proprio questo: la carica di comprensione della vita, di zavattiniana memoria, che anima il gesto artistico a partire da una rivoluzione dello sguardo, momento imprescindibile per chiunque si voglia nel mondo vigile e cosciente.
A nulla servono, quindi, liste di nomi e cognomi dei responsabili (la cui assenza nel film è il principale motivo di polemiche) senza questa volontà primordiale.
La verità è sotto gli occhi di chi vuole guardare, cercare, conoscere, capire. Sta a noi decidere di rimanere semplicemente spettatori o testimoni di un sangue che grida ancora giustizia.

Lidia Tagnesi


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Scritto da Lidia Tagnesi

Giornalista di InfoOggi

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