Usi e costumi calabresi di Mario Martino
Cultura e Spettacolo Calabria

Usi e costumi calabresi di Mario Martino

domenica 8 maggio, 2011

Le antiche tradizioni degli Albanesi di Calabria manifestano tutta la loro bellezza e la loro subliminalità, soprattutto nei riti, nelle celebrazioni: l'anima gioiosa di questo magnifico popolo riaffiora maggiormemte durante l'occasione festosa nell'esecuzione dei fascinosi "canti" e delle "danze" già descritte da Ateneo, Teocrito, Senofonte, e da Omero nella sua Iliade[MORE] E cogliendo questo spunto quindi, vogliamo trattare, seppur con giustificata carenza di particolari, di come anticamente procedeva la festa matrimoniale, di come essa veniva coreografata e, allo stesso tempo, proporre una qualche disamina sulla condizione della donna albanese nel tempo antico. Le ragazze da marito non avevano la libertà di "contrattare" il matrimonio con i loro pretendenti. Chiuse in casa, intente a filare al telaio o a ricamare i loro preziosissimi vestiti, alle giovani figliole veniva proibito di frequentare qualsiasi compagnia maschile. Addirittura non potevano nemmeno sedersi a tavola insieme con il resto della famiglia, qualora vi fossero commensali "stranieri" o giovani lontani parenti. Nondimeno le donne maritate ma solo quelle di agiate condizioni economiche familòiari) godevano, per modo di dire, di uno status sociale privilegiato rispetto alle povere: quelle ricche infatti, le cosiddette "matrone", si dedicavano nell'agiatezza semplicemete alle faccende domestiche all'accudimento dei figli e del marito, mentre quelle povere non solo dovevano dividere, con il resto dei familiari, tutti i lavori campestri più umili e pesanti, ma, per di più, oltre a dover accudire alla preparazione delle parche cibarie, doveva star seduta ai margini della tavola, al fianco del marito, ma in disparte e sempre pronta a servirlo.
Si immagini quindi qual era la condizione di inferiorità e di umiliazione vissuta dalla donna albanese, durata sino agli inizi del XX Secolo, specialmente dalle ragazze nubili alle quali il marito le veniva "imposto", per tacito accordo, dalle famiglie, le quali stipulavano un vero e proprio "capitolo" (contratto) matrimoniale, coinvolgendo a loro volta l'intera parentela e la comunità del luogo, non in una, ma addirittura in tre suggestive cerimonie di festa: tre fasi, tre rituali d'obbligo, per cui l'evento "matrimonio" si suggellava e si completava nel totale rispetto della tradizione.

Nella prima fase, dopo l'accordo verbale con cui sancivano la cosiddetta "promessa di matrimonio", i parenti dei due "fidanzati", si riunivano a semicerchio formando una catena (vala), tenendosi insieme l'un l'altro per mano o per mezzo di lunghi fazzoletti bianchi, danzando e cantando inni amorosi e allusivi al futuro matrimonio; quindi si recavano in casa del Parroco del posto, dove veniva stipulato per iscritto il capitolo matrimoniale.

A questo cerimoniale seguivano i vicendevoli complimenti tra le due "parti" con scambi di omaggi di fiori, di rosolio e delle più disparate leccornìe. Spesso, in questa occasione, nelle strade del paese si assisteva ad una festosa scarica di colpi di archibugio. La folla di parenti, alla stessa maniera di prima, formando la "vala", faceva così ritorno in casa della futura "sposa", la quale (anche in quella "occasione" - sic!) aveva l'obbligo di farsi trovare intenta in faccende domestiche; doveva mostrarsi schiva e contegnosa, quasi indifferente, e soprattutto astenersi da sguardi di ...desiose o promettenti attenzioni nei confronti del suo "fidanzato".

Chi, in questa occasione, godeva maggiormente degli "onori" di casa, era la suocera della fanciulla, la mamma del suo "promesso". E in questa occasione, la mimica, il silenzio o la scarsa loquacità, l'atteggiamento di mantenuto riserbo e di prudente distacco, erano atti quasi dovuti dalla suocera. Infatti, la temuta e riguardevole "ospite," durante il ricevimento assolveva, nell'interesse del figlio, al ruolo di persona "indagatrice" (nei riguardi della nuora e dell'intera sua famiglia), tant'è che di rado, e soltanto dopo qualche ora di ...esame attitudinale e di analisi comportamentale dell'...aspirante nuora e dei congiunti di questa, la "signora suocera" si degnava di mostrare alla novella "nuora" qualche segno di accondiscendenza, di ccettazione e di gradimento, rivolgendole di tanto in tanto qualche parolina o regalandole qualche sorrisetto, ma sempre previa dimostrazione, ovviamente da parte della fanciulla, di un paziente affetto e di totale sottomissione, anche nei più semplici gesti comportamentali, sia che si trattasse del modo di porgerle un pasticcino o un bicchierino di rosolio, sia che si trattasse del modo di stare seduta o di muoversi, di affaccendarsi, o di conversare sufficientemente (ma solo quando le veniva concesso, dalla stessa "ospite" - magari con un piccolo ma distaccato assenso della mimica facciale o di una rapida occhiata), ma soprattutto quello di mantenere un serio e contegnoso sembiante sereno e arrendevole.

Il secondo cerimoniale, non meno pittoresco del primo, avveniva due settimane dopo il fidanzamento ufficiale, e consisteva nella donazione dell'anello di fidanzamento: ad una certa ora della notte, di solito intorno alle 2 antelucane (...e comunque senza alcun preavviso da parte della famiglia del pretendente) il "fidanzato" e lintera schiera dei parenti si recavano in casa dei genitori della ragazza. E qui (formando sempre la Vala) cantavano e ballavano facendo il giro di tutte le stanze della casa. Anche in questa occasione, la fanciulla (che aveva sempre l'obbligo di recitare la parte di persona noncurante e indifferente) non doveva assolutamente farsi cogliere in... ozio o dormiente: un'eventualità simile sarebbe stata una grande offesa nei riguardi non solo dei parenti, ma soprattutto un segno di irrispettosità nei riguardi del futuro sposo, quasi un disonore. La povera ragazza quindi doveva farsi trovare in cucina... insomma doveva apparire come se colta di soprpresa... sveglia... attiva... e davanti ad una madia, intenta ad impastare farina (ovviamente a braccia nude, per far mostra allo sposo, e al resto della chiassosa brigata, della propria salute fisica e della sua capacità nei lavori pesanti).

A questo punto il "promesso sposo", accompagnato dai canti allusivi dell'allegra compagnia, mimava il corteggiamento rituale danzando e girandole intorno (per lietamente farne le lodi alla bellezza, al garbo e alla forza di come impastava), e lasciava cadere dentro l'impasto di farina, l'anello di fidanzamento.

La fanciulla aveva l'arduo compito di recuperare l'anello, ma non certo con le mani, bensì con la bocca, ovviamente tenendo gli occhi chiusi (la gestualità voleva significare che è il solo marito che procaccia "ricchezza e cibo", beni che devono essere accettati e "...cercati con ...cieca fiducia"). E soltanto dopo aver recuperato l'anello e solo dopo aver ultimato l"impasto", la la ragazza poteva toglierselo di bocca e (finalmente) infilarselo al dito.

Assolto questo compito, dopo essersi ben rassettata e ben vestita, la ragazza, accompagnata dalla propria madre e dalle altre donne di casa, si ripresentava agli ospiti e ai parenti del pretendente, ricevendo gli auguri e i complimenti. Quindi tutti insieme, tra danze e canti, banchettavano con confetture e dolciumi fatti in casa, accompagnati con abbondati mescite di vino e di rosolio, sino alle prime luci dell'alba, sinona quando, il promesso sposo e il suo seguito, andavano via ricomponendo sempre la "vala" e seguitando a girare, cantare, ballare e shiamazzare e sparando colpi di fucile in aria in segno di festa, svegliando così l'intero paese per dar segno, col loro chiasso, della loro gioia.

Il rito dell'anello così osservato, annoverava lo sposo tra gli "adulti" e significativamente sugellava il suo impegno morale per il matrimonio considerato oramai irrifiutabile (da ambo le parti): un semplice ripensamento o un rifiuto di una delle parti, determinava spesso una situazione pericolosissima se non drammatica. Sciogiere un fidanzamento era un'onta che andava lavata col sangue perchè era considerato un tradimento, un disonore indelebile, un torto insanabile.

Nei giorni precedenti il terzo e definitivo rituale del matrimonio, alla sposa non le era (ancora) concesso il permesso di cambiare l'acconciatura dei capelli (che l'avrebbe distinta dalle ragazze nubili), nè tantomeno poteva ancora indossare la "chesa" o la "zoga": chesa e zoga erano segni distintivi di donna maritata, per cui la ragazza (oramai "fidanzata fficialmente") poteva soltanto arricchire, nella foggia e nella qualità dei tessuti, la semplice veste, la "fustaina". Per quanto riguardava l'acconciatura dei capelli, le albanesi maritate, ad imitazione delle greche, portavano due trecce annodate ai lati della testa che poi finivano annodate in un'unica treccia, tutte coperte dalla chesa, segno distintivo della loro condizione sociale, mentre le nubili dovevano annodare i capelli in due trecce fermate con delle fettucce bianche e coprire la testa con un fazzoletto bianco o, eccezionalmente, colorato. L'abito consisteva nella fustaina, una lunga veste di lana rossa stretta ai fianchi e larga all'estremità, sopra la quale veniva indossata - ma solitamente per avvenimenti importanti o per andare a Messa - un'altra veste di seta anch'essa rossa o celeste, detta appunto "zoga".

E veniamo alla festa del matrimonio che si celebrava (ovviamente con rito ortodosso) nella chiesa del paese della sposa, mai in quello dello sposo, se era di altri luoghi.

Di buon mattino, accompagnata da cinque o sei "cantatrici" del paese, si recava in casa della sposa la "maestra di cerimonia" (designata dal vicinato) per invitarla ed esortarla, con lodi e con preghiere, a sottoporsi alla cosiddetta "vestizione".

La sposa doveva (per ruolo impostole dall'usanza) fingere di declinare l'invito, per poi naturalmente cedere, previe ulteriori lusinghe e premure e complimenti esternati con parole e canti gioiosi dalle amiche e dalle cantrici, alle innocenti e vanitose cure del ...maquillage.

Iniziava così "la preparazione": alla sposa, seduta al centro della stanza, le venivano unti i capelli con del vino (probabilmente a simboleggiare il rito dell'Unzione), quindi intrecciati alla maniera già detta ma legati, questa volta, con un nastro rosso che era il primo segno distintintivo di nuovo status coniugale. A questo punto le cantatrici intonavano una canzone atta ad intenerire la sposa, rammentandole l'obbligo di abbandonare la casa paterna, la famiglia e il resto dei parenti, e l'obbligo (nuovo) di seguire il suo sposo e di obbedirgli sino all'ultimo giorno della sua vita.

A questo punto la "maestra di cerimonia", quindi, le adornava, il capo con la "chesa" (di velluto ricamata a fil di seta), e le cantatrici, intonando altri canti allusivi, le ricordavano la totale sottomissione e la fedeltà che ella doveva al marito, sino alla fine dei suoi giorni, e le raccomandavano soprattutto di non togliere mai la chesa, neppure durante le ore del sonno (ma soltanto nei momenti di assoluta e sicurissima intimità), nè mai consentire allo stesso marito di levargliela (assolutamente, neppure per scherzo, neanche durante i convegni del talamo nuziale) a costo anche della vita stessa, poichè sarebbe segno di ripudio da parte dell'uomo e quindi motivo di vergogna e di disonore da parte di lei e dell'intera famiglia.

Infine, sempre aiutata e convinta dalla maestra di cerimonia, la sposa indossava la "zoga", adornata da una ricca "vantiglia" (un grembiule di seta lungo circa un palmo, finemente lavorato con fili d' oro o d'argento) che, dalla cintura, le pendeva sul davanti, e poi le veniva coperto il capo dal velo nuziale, fermato mediante una spilla d'oro con sopra la testa una colomba, simboleggiante castità e bontà. Durante la vestizione del velo (momento gestuale altamente importante e significativo oltrechè intimamente emozionante), le cantrici, intonando canti appropriati, le spiegavano quanto fosse importante e quale significato avesse quel particolare indumento, indice di modestia e di pudore, che la sposa dovrà sempre conservare per non infangare l'onore della propria famiglia e di quella a cui apparterrà-

Ennesima performance, prima dell'uscita di casa per recarsi in chiesa con il suo seguito, era il canto di congedo dalla casa paterna, dala madre, dai fratelli, dalle amiche e dai parenti): le cantatrici le rammentavano il dovere che oramai la "sposa" aveva di abbandonare le frivolezze di fanciulla, per dedicarsi ai più nobili doveri di sposa, di futura madre e di donna responsabile. A questo punto, immancabilmente, la fanciulla, commossa, dirompeva in pianto: e questo era ritenuto un gran bene, in quanto la "sposa" dava dimostrazione di sensibilità e di purezza d'animo; ma se non ciò non si verificava, se la ragazza non piangeva (perchè magari non disposta alla tenerezza o magari chissà per quale altro motivo), allora le cantatrici dovevano assolutamente assolvere all'arduo compito di commuoverla (a tutti i costi), per far si che la fanciulla non fosse tacciata di sfrontatezza davanti alla gente e non divenisse argomento di sospetto, di pettegolezzo o di scandalo.

Terminato il rito nuziale che si celebrava con grande partecipazione di amici e di parenti, gli sposi ricevevano gli auguri e la benedizione del prete e facevano ritorno a casa, sotto gli sguardi ammirati e festosi dei compaesani.

Durante il banchetto di nozze, la sposa (sempre mostrando mestizia e pudore), sedeva, accerchiata dai suoi parenti e con due paggetti a fianco, uno a destra e un alto a sinistra, difronte allo sposo (il quale - in qualità di "...maschietto" - era libero invece di comportarsi a suo piacimento: poteva schiamazzare, tracannare vino, scherzare con gli amici, ballare, ecc.)

Tra le innumerevoli "portate" a base di carni, di sfornati conditi con vino casereccio, di caggiagioni e d'ogni altro ben di Dio, veniva servita, di norma, la "torta nuziale", un'enorme torta di focaccia laboriosamente preparata e abbellita con disegni di vario genere (generalmente guerrieri e altre figure), che gli sposi dovevano spartire ai convitati spezzandola con le mani e senza l'ausilio di coltelli. Di tanto in tanto, il festoso banchetto veniva piacevolmente interrotto dall'esibizione dei "cantori di cerimonia" (un uomo e una onna) che, alternandosi, si cimentavano in canti d'amore o in ballate popolari(spesso si trattava di "ballate"sull'eroe albanese Scanderbeg nella lotta contro i turchi).

Gli sposi aprivano così le danze che duravano diverse ore, tra abbondanti mescite di rosolio, di vino e altre libagioni, e accompagnati dall'eccellente pasticceria casereccia. Lo sposo, durante il ballo, comandava la brigata maschile, mentre la sposa, nella parte opposta della sala, comandava quella femminile.

La "danza pirrica", infine, era la danza che tutti i convitati eseguivano alla fine della festa, facendo il giro di tutto il paese, cantando e schiamazzando e partecipando a chiunque la loro gioia, entrando nelle case di quelli che non avevano presenziato al matrimonio: quest'ultimi avevano, in questo caso, l'obbligo di complimentarsi con i cantori e con i festanti e di offrire del vino o del rosolio in segno beneagurale.

La festa terminava alle prime luci dell'alba, spesso con canzoni e stornelli (allusivi alle gioie del talamo nuziale) sotto le finestre della casa degli sposi.

Obbligo morale era, per gli sposi, di dar prova, a parenti, amici e vicinato, della "regolarità del loro matrimonio: una "...prova," visibile e intangibile, di illibatezza (da parte della sposa) e di virilità (da parte dello sposo). La "prova" consisteva nello stendere al balcone il lenzuolo (di primo letto) macchiato di sangue vergineo per dimostrare alla gente che tutto era andato per il meglio... che tuto era a posto, tutto era regolare... che, insomma, ogni compito era stato assolto.

Per tutta la prima settimana successiva al matrimonio, alla sposa (la quale doveva, sempre per ruolo, mostrarsi "...vergognosa" per la purezza perduta) le era praticamente vietato persino di uscire di casa; non poteva neppure affacciarsi dalla finestra o ... e nè tantomeno ccudire alle faccende domestiche, in quanto doveva tenersi a disposizione del marito... o meglio del suo nuovo "padrone". Le era appena consentito di ricevere la visita dei soli parenti, durante la quale questi si "prenotavano" la visita di contraccambio: visita che, immancabilmente, gli sposi dovevano effettuare nella settimana seguente per ricevere in dono una ...gallina ovaiola che, per consuetudine, si soleva fare come dono propiziatorio di fertilità alla coppia.

Allo scadere del settimo giorno dal rito nuziale, o comunque, di solito la prima domenica mattina successiva, finalmente la sposa poteva uscire di casa per andare a Messa, sotto la vista ammirata e compiacente dell'intero vicinato. Indossare, anche in quella occasione il velo da sposa, era d'obbligo. Ma con questa eccezione: che fosse di completa copertura dei capelli e legato con più giri attorno al collo e pendente dietro le spalle a mo' di "...gavezza", a dimostrazione che la sposa, essendo "...caduta" in "...manum viri", mostrava a tutti (con espressione serena e con sorrisi) di essere felicemente "sottomessa" al marito; e i due pendenti del velo dietro le spalle a mo' di gavezza, simboleggiavano due redini, ossia la sua disponibilità della donna a farsi "guidare" dal marito e a sottomettrsi a lui,come una "cavalla" si sottomette e obbedisce al suo padrone.

Nella settimana seguente, dopo aver fatto il giro in casa dei parenti per aver ricevuto in dono la gallina, la sposa non poteva assolutamente esimersi di far "visita" agli altri amici (suoi e del marito), i quali, questa volta, le regalavano (immancabilmente) un paio di scarpe come oggetto propiziatorio di "cammino felice".

Terminate queste prassi più o meno liete e festose, il tutto rientrava nella normalità, nella quotidianità. Ammirata, corteggiata, lodata e festeggiata nel solo spazio di un momento (più o meno felice), la donna albanese ritornava così nella (secolare) condizione di subalternità all'uomo: sacrificata e mortificata nel tutto, socialmente indifesa sia nella vita che nel suo ruolo di moglie e di madre, ma soprattutto mortificata in quanto "donna", ossia per l'imperdonabile colpa di essere, in tutto e per tutto... superiore al "maschio". Soprattutto nel saper amare.

MARIO MARTINO


 


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