"Il discorso del re": lunga vita a Colin Firth
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"Il discorso del re": lunga vita a Colin Firth

venerdì 18 febbraio, 2011

Dopo aver sbancato il Festival di Toronto 2010, il londinese Tom Hooper serba attendibili speranze di estendere l’“impero delle statuette” in direzione Los Angeles. Il buon viatico delle 12 nomination agli Oscar per “Il discorso del re” (The King’s Speech) non garantisce alcun trionfo di contro all’agguerrita concorrenza, con “The Social Network” di Fincher a guidare il drappello degli sfidanti. Intanto, però, è sufficiente a profilare l’ufficialità del consenso attorno ad un film che racconta di una famiglia reale, senza la spocchia aristocratica di tanto cinema d’essai; che parla di balbuzie, senza mai tartagliare inceppandosi in ristagni narrativi; che sbandiera una giganteggiante interpretazione di Colin Firth nei panni del re inglese Giorgio VI, ma si avvale anche di una corte di comprimari di assoluto livello. Un’architettura abilissima e di confortevole fruizione, con cui Hooper si lancia definitivamente alla colonizzazione di Hollywood dopo essersi costruito la fama di apprezzato regista televisivo britannico. 

Inghilterra, anni ’30. Giorgio V è un re autorevole. Ed un padre autoritario. Nell’Europa messa sotto scacco dagli aggressivi ricatti di Hitler, la successione al trono inglese non può fidare su premesse rassicuranti. Il primogenito, lo spigliato Principe di Galles, è più attratto dai salotti e dalla relazione con la divorziata americana Wallis Simpson, che dallo scettro e dalle scartoffie ministeriali. Alla morte del padre, la sua parentesi al trono, men che annuale, si chiude con una sofferta e polemica abdicazione. Raccoglie le redini il secondogenito Duca di York, Giorgio VI, ma non tutto fila liscio… almeno, non la sua parlata, tormentata da una balbuzie nervosa. Per parlare alla nazione dovrà sfidare i propri limiti: un percorso sofferto che lo vede affiancato, oltre che dall’intraprendente e devota moglie (Helena Bonham Carter), dal singolare logopedista australiano Lionel Logue (Geoffrey Rush). Invero, un attore fallito dalle tecniche anticonvenzionali.

Nomen omen: “il discorso del re” non è solo il titolo del film, bensì l’ideale didascalia dei minuti finali che condensano, con inglesissimo pathos trattenuto, il groviglio di timori, aspettative e sentimenti mirabilmente tessuto da Hooper, con la meticolosa pazienza del filatore di lana, attorno alla maestà travagliata di Colin Firth. Il raccordo di fili e contesti narrativi si annoda nell’intreccio del percorso personale di “Bertie” – il re: così lo chiamano i familiari… e il logopedista – con quello di un popolo all’alba di una stagione storica di sacrifici ed abnegazione. Il Giorgio VI di Firth è un re “nudo”, nella sua umanità oscillante tra scheletri degli armadi di Buckingam, scatti d’ira, affettuose divagazioni con moglie e figli e complessi d’inferiorità. Ritrovare sé stesso e la propria autostima significa, per il re, riconquistare la fiducia di un Paese che sappia stringersi intorno alla leadership del proprio sovrano.

La finezza di una sceneggiatura così organica (David Seidler) si rivela in una miriade di dettagli: dalla scena con i filmati d’epoca in cui Hitler arringa il popolo, cartina al tornasole di un’epoca in cui la parola fa non meno danni dell’atomica; alla gamma di caratterizzazioni che oscillano tra il decoroso (i gabinetti ministeriali), il compunto (l’Arcivescovo dal sopracciglio perennamente inarcato) e perfino il furbesco serioso (Winston Churchill, ottimo Timothy Spall). La cinepresa fa il resto, con una serie di riprese penetranti, ma con discrezione: dal campo e controcampo tra Bertie e Lionel, teso duetto che diventerà coppia; alle spaesanti inquadrature che decentrano il re, nel disagio di un destino più grande. Firth da Oscar, perché ingessa e slega muscoli e corde vocali con disciplina sovrana e, se possibile, emozionata; Rush (Academy Awards nel ’96 per “Shine”) più di una spalla.

Al festival di Berlino 2011, Colin Firth ha annunciato il sequel, “The Windsor at War”. Si spera che l’alchimia niente affatto balbuziente del primo film si conservi nell’atteso successore.
 

ANTONIO MAIORINO


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