Il Panettone che diventa identità culturale di una intera comunità
Lontano dai riflettori della via moderna, una parte di Molise montano si distingue per laboriosità e voglia di restanza. Ogni azione dell’uomo resiliente ferma il tempo e condiziona positivamente la felicità di vivere un luogo, quello incastonato nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, che ricco di biodiversità non conosce inquinamento né cementificazioni selvagge. La vita scorre lenta, l’incontro travolge le negatività, i lavori diventano passioni e soprattutto profumi.
Qui, tra le vette alte delle montagne, c’è un paese che profuma prima ancora di farsi vedere: Montaquila.
Lo riconosci dall’aria: sa di burro caldo, di lievito vivo, di notte passata sveglia a custodire un impasto come si veglia un sogno. I fornai Ricci — li chiamano così non perché hanno mani indocili e capelli ribelli come il fuoco — sol perché non fanno panettoni: li allevano.
Li ascoltano respirare. Li accarezzano con pazienza antica, mentre fuori l’alba prova a nascere. I loro panettoni crescono lenti, panciuti di luce, con cupole che sembrano colline gentili e un interno che si sfilaccia come una promessa mantenuta. Ogni fetta è una mappa: burro che brilla, uvetta come costellazioni, scorze che scoppiano di sole anche a dicembre.
È un pane di festa, sì, ma anche un atto di resistenza. Contro la fretta. Contro l’uguale. Contro il Natale di cartone. Quando lo porti a tavola per gustarlo, nel porre l’estasi della fetta
si sente un suono piccolo, quasi un sospiro.
È Montaquila che parla. È il forno che ricorda. È il tempo che, per un istante, si lascia mangiare. Soave, perché ti consola. Dirompente, perché dopo non sei più lo stesso. M.Varriano
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