The End? L'inferno fuori, intervista a Daniele Misischia: "uno zombie horror tra suspense e ironia"
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The End? L'inferno fuori, intervista a Daniele Misischia: "uno zombie horror tra suspense e ironia"

mercoledì 29 agosto, 2018

Anche l'Italia fu patria di horror e zombie. The End? L'inferno fuori di Daniele Misischia, prodotto dai Manetti Bros. con Rai Cinema, non è naturalmente un semplice promemoria che rianima un filone, e prima ancora un genere, da anni semi-sepolti per il ristagno di idee e per la limitata audacia delle produzioni. Prima di tutto, il film dell'esordiente regista romano, classe '85, aspira ad essere un condensato di suspense e thrilling, a partire dallo spunto tanto immediato quanto efficace: il protagonista, un businessman incallito ed un po' de-umanizzato interpretato da Alessandro Roja, resta bloccato in ascensore, e nemmeno il tempo di riparare il meccanismo, che all'esterno si scatena l'inferno. Senza poter nè salire nè scendere, in una prigione o in un rifugio, è dall'ascensore che cominciano le montagne russe di adrenalina. Ne abbiamo parlato col regista, estendendo il discorso al panorama italiano ed al cinema tutto.

ANTONIO MAIORINO: un giorno d’agosto controlli i film in sala e scopri che c’è un horror. Italiano. Con zombie. The End? L’inferno fuori fa notizia già per questo. La domanda allora è: dove eravamo rimasti col cinema di genere italiano? In altre interviste parlavo di un blackout durato decenni.

DANIELE MISISCHIA: per più di trent’anni è stato così. Negli ultimi 4 o 5 anni le cose sono cambiate perché abbiamo avuto film come Lo chiamavano Jeeg Robot o Il racconto dei racconti, lontani dal panorama cinematografico italiano dei giorni nostri. Il mio film è un classico horror zombesco che in Italia non si vedeva dai tempi di Dellamorte Dellamore di Michele Soavi, ma forse anche da prima, da film come Zombi 2 di Lucio Fulci, che è ormai di 40 anni fa (1979, n.d.R.).

Tu, regista e cinefilo, pensi a Romero o Fulci, ma come pensi sia accolto dai giovani uno zombie movie nell’era dello zombie-seriale alla The Walking Dead, cioè dello zombie che non deve quasi più far paura, quanto piuttosto creare un contesto di problem-solving, uno sfondo avventuroso?

Indipendentemente dai fan del genere, spero che il film venga accolto positivamente da tutte quelle persone che si sono un po’ stancate del classico cinema italiano fatto di commedie, ormai diventate commediole senza mordente, o film drammatici e d’autore che hanno stufato. Il cinema può essere un prodotto interessante pur rimanendo d’intrattenimento, invece noto che nella maggior parte dei film italiani in uscita non c’è voglia di intrattenere. Spero dunque che venga recepito da chi voglia vedere qualcosa di nuovo nel contesto italiano.

Restringiamo ancora il campo. Un horror italiano, ed in particolare uno zombie movie, dicevamo. Più in particolare: un film di suspense con un’unica location. Vien da chiedere, allora, quali siano stati i tuoi riferimenti al cinema della suspense ed al peculiare filone dei film con location unica.

Sicuramente il maestro numero uno è Hitchcock, che ha tutta una sua messinscena della suspense. È lui che ha fatto scuola. Quanto al discorso delle location, i film che più hanno ispirato The End? L’inferno fuori sono stati the Buried – Sepolto vivo di Rodrigo Cortès e In linea con l’assassino di Joel Schumacher, ma anche Locke (2013, di Steven Knight, n.d.R.), ambientato tutto in macchina col protagonista Tom Hardy che parla al telefono dall’inizio alla fine. Sono modalità che rappresentano una sfida perché bisogna tenere sempre molto alta la tensione per non annoiare. [MORE]

Oltre alle sfide di scrittura, c’è anche una sfida tecnica. C’è chi sostiene che sia facile girare un film così, chi invece ribatte che è difficile perché bisogna cercare di superare l’effetto di monotonia visiva.

Bisogna studiare bene la location in cui si lavora, capire quali sono le inquadrature che funzionano di più senza ripeterle mille volte e senza far pensare che il film sia stato fatto solo in quel modo, con l’inquadratura “figa” o puntando la macchina solo sull’attore. In realtà, per evitare la monotonia conta soprattutto il lavoro del montaggio e della fotografia, bisogna saper intervenire in modo completo in postproduzione.

Abbiamo semplificato parlando di un’unica location, ma anche le esterne di Roma e l’effetto time-lapse creano atmosfera. L’aria apocalittica funziona meglio a Roma o il film si poteva girare ovunque?

Penso che The End sia un film che potesse essere situato in qualsiasi città, purché grande, di potere, in cui girino i soldi e ci sia molto respiro con ambientazioni ampie. Il protagonista è il capo di una grande azienda, e queste aziende le trovi solo nelle grandi città. Qualcuno ha criticato la ridondanza delle inquadrature in esterna tra una scena e l’altra senza calcolare che quelle inquadrature dovevano dare respiro ad un film ambientato tra le mura di un ascensore. È dunque un vantaggio poter girare il film in una città come Roma, che ti consente di girare un time-lapse con le statue sullo sfondo e con tutti i monumenti che abbiamo a disposizione.

Il protagonista interpretato da Alessandro Roja, costretto alla staticità, non è un personaggio statico dal punto di vista della scrittura. Come profileresti la sua evoluzione?

Assolutamente, l’importante era farlo cambiare altrimenti il film sarebbe fallito. Un protagonista forte dall’inizio alla fine deve affrontare un processo di trasformazione: se fosse uscito dall’ascensore esattamente come all’inizio, è come se avesse attraversato un film in cui non è successo niente. All’inizio è il classico arrivista che pensa solo ai soldi e a scavalcare il prossimo, a stare al di sopra degli altri. Quando si scontra con la disumanità degli infetti, che rappresenta un po’ la disumanità di tutti noi, si verifica una scarnificazione del suo ego: un personaggio che all’inizio avrebbe delegato tutto a qualcun altro e non si sarebbe sporcato le mani, è costretto a cavarsela da solo ed a capire le giuste dinamiche da avere con il prossimo.

E come pensi cambi l’atteggiamento dello spettatore, invece? Chi guarda è più sadico oppure empatico?

Lo spettatore che all’inizio è portato ad odiare questo personaggio spero che alla fine tifi per lui e per la sua sopravvivenza. Era quello che volevamo. All’inizio ti diverti a vederlo tribolare con gli zombie, poi quando ti rendi conto che tutto il mondo intorno a lui è crollato e le persone a cui voleva bene probabilmente sono morte, provi ad empatizzare con lui.

E qualche sorriso non manca: l’ironia stempera il dramma. Scelta condizionata ancora dallo spunto iniziale, o è la tua concezione di horror in generale?

A meno che un horror non prenda una particolare strada sin dall’inizio, come Rosemary’s Baby o L’esorcista, ecco, a meno di scelte così radicali, nell’horror ci vuole sempre un po’ di ironia, soprattutto in un film di zombie. Un horror così che si prende troppo sul serio rischia di diventare noioso, se non ridicolo. D’altronde la situazione di un tizio che rimane chiuso nell’ascensore durante l’apocalisse, è quasi un’idea fantozziana, da commedia. Quest’ironia è venuta fuori dunque in modo assolutamente naturale.

Gli zombie sono stati anche la risposta ad un problema fondamentale, cioè quello dell’apocalisse fuori dall’ascensore. Ammesso che fossero morti viventi – nel film non sono mai chiamati zombie – potevate attingere ad un vasto campionario, dagli zombie “lenti” a quelli “veloci”. Come avete scelto di truccarli e rappresentarli?

in realtà non sono zombie, anche se io stesso uso il termine per semplificare. Tecnicamente sono persone normali che hanno un virus in corpo: li chiamiamo infetti, più vicini quindi a quelli di 28 giorni dopo di Danny Boyle. Questo giustifica il fatto che corrano e siano feroci. Naturalmente era giusto che Romero, il padre dello zombie movie moderno, li facesse camminare in quel modo imbambolato, perché voleva rappresentare la società di quegli anni. Nella società che conosciamo noi, in cui tutto è frenetico, si deve avere tutto subito e tutti corriamo perché non abbiamo tempo, è giusto che lo zombie corra e sia così feroce e spietato.

Non a caso Romero sceglie anche una location come quella del supermercato. Ma a proposito di Romero, mi risulta che il finale pensato inizialmente fosse diverso, e fosse “romeriano”…

(POSSIBILE SPOILER) Nella prima stesura il film finiva esattamente come ne La notte dei morti viventi di Romero: il protagonista veniva scambiato per uno zombie e veniva eliminato dai cecchini. Poi parlando con i Manetti Bros e con la produzione Rai, ci siamo resi conto che un finale così sarebbe stato troppo gratuitamente citazionista, ma soprattutto avrebbe rovinato tutto questo arco di trasformazione che ha avuto il personaggio. Avrebbe stonato. Abbiamo allora pensare di trovare piuttosto qualche collegamento con la moglie, in particolare con il litro di latte, senza peraltro che la moglie si sia mai vista: dopo tutto quello che ha vissuto il personaggio, mi sembrava giusto dargli un po’ di speranza.

L’altro giorno mi è arrivato un sms di un amico cinefilo, diceva: “Andiamo a vedere il film dei Manetti Bros?”. Gli ho fatto presente che, a dispetto di alcune riduzioni mediatiche, i Manetti erano alla produzione, mentre la regia era di Daniele Misischia. La curiosità però resta: in che modo ti sei rapportato a due esponenti di punta del cinema di genere italiano contemporaneo?

È filato tutto liscio come l’olio perché loro si erano innamorati della stesura che avevamo inviato. Parlando, poi, abbiamo cambiato pochissime cose che però non hanno affatto intaccato la struttura originaria, a parte il finale, di cui come ti dicevo abbiamo ragionato anche insieme a RaiCinema. I Manetti hanno fatto quello che la maggior parte dei produttori non farebbero mai: hanno aggiunto due o tre giorni in più di riprese per ampliare la sequenza finale di Roma devastata e consentirmi un’apertura finale di gran lunga maggiore. Per il resto, sul set ho avuto la più ampia libertà e praticamente il 95% di carta bianca da parte della produzione: questo perché, mi rendo conto, i Manetti sanno cosa vorrebbe un regista da un produttore, perché sono loro stessi registi da tanti anni.

Anche guardando il tuo cortometraggio Silent Hill: Lostg Innocence del 2011 (visibile qui), variamente premiato in diversi festival, si nota il gusto per certi scenari dark e desolati. È rimasto qualcosa di quel Daniele Misischia?

Assolutamente, soprattutto uno spirito un po’ anarchico nella messa in scena. L’evoluzione più grande è data dal fatto che ho a disposizione una troupe che mi aiuta a mettere in scena le mie idee e le mie visioni. Questo semplifica enormemente le cose rispetto ad un cortometraggio in cui devo curare quasi tutto da solo.

Ci sarà un sequel di The End? O hanno la priorità altri progetti?

Come dico sempre, The End non l’ho pensato per un sequel, ma se da un giorno all’altro i produttori, i Manetti, Carlo Macchitella, RaiCinema dicessero a me ed al co-sceneggiatore Cristiano Ciccotti di scrivere un sequel, vi svelo che abbiamo già un’idea pronta. Ma se non lo dicono loro, non ci muoviamo. Poi stiamo lavorando per un nuovo horror insieme ai Manetti, però non mi sbilancio per scaramanzia: se ne parlerà a fine anno oppure ad inizio 2019.

(Foto: nell'immagine principale, Alessandro Roja in un'immagine promozionale del film, dettaglio; all'interno, in alto Daniele Misischia con Alessandro Roja, in basso fotogramma di The End? L'inferno fuori. Fonte foto: Ufficio Stampa The Rumors)

USCITA: 14 agosto 2018
GENERE: Horror, Thriller
REGIA: Daniele Misischia
CAST: Alessandro Roja, Carolina Crescentini, Claudio Camilli, Euridice Axen, Benedetta Cimatti, Bianca Friscelli, Roberto Scotto Pagliara
PAESE: Italia
DURATA: 98'
DISTRIBUZIONE: 01 Distribution

Antonio Maiorino


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