"Limitless", il divertimento ha un limite
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"Limitless", il divertimento ha un limite

venerdì 6 maggio, 2011

NAPOLI, 6 MAGGIO - Il nuovo gioco di prestigio di Neil Burger, dopo il fortunato esordio con “The Illusionist”, si chiama “Limitless”, ed il trucco c’è, più di uno: un soggetto non inventato, ma adattato con destra regia dal romanzo “Dark Fields” di Alan Glynn; un Bradley Cooper dalla recitazione “ricca e potente”; una sceneggiatura che per larghi tratti si rivela funzionale alle audaci scelte stilistiche del montaggio e della fotografia. Solo per larghi tratti, però.[MORE]

Eddie (Bradley Cooper) è un giovane scrittore che del bohemien ha solo barba sfatta, capello lungo e trasandatezza. Per il resto, blocco creativo ed una fidanzata che l’ha appena mollato – affettuosamente, s’intende. Un incontro fortuito nella metropoli gli spalanca le porte della percezione: l’ex cognato, anni prima spacciatore – il lupo perde il pelo… – gli regala una pillola bianca che promette mirabilie. E che fa mirabilie: chi l'assume è in grado di utilizzare in pieno le proprie facoltà intellettive, attivando zone del cervello solitamente inerti. Per Eddie il mondo non sarà più come prima: il farmaco, NTZ, lo trasforma in una sorta di genio dopato, che impara lingue in tre giorni, scrive un romanzo in quattro giorni ed in dieci, tramite complessi algoritmi, aumenta il proprio capitale in borsa. Sulla sua strada un pugno di cattivi interessati al bottino delle pillolette; un mellifluo De Niro, magnate della finanza, che oscilla tra promesse e ricatti; e qualche effetto collaterale di troppo…

Assecondare uno spunto facilone è un’arma a doppio taglio, per un regista: in genere ne vien fuori un cult o un disastro. “Limitless” non sarà nessuno dei due, ma siamo pronti a scommettere che resterà nella memoria come un decente film d’azione, magari buono per i palinsesti, tanto è serrato e pubblicità-resistente. Burger cerca di dopare il racconto con una visività adrenalinica che assecondi la percezione del protagonista. La fotografia intrisa del pulviscolo della città si rianima cromaticamente nella luce delle scene in cui Eddie assume NZT, con saturazioni e potenziamenti sgargianti che fanno del film una sorta di “perpetua soggettiva”. L’abusato split-screen che moltiplica l’effigie del protagonista traduce quasi per gemmazione visiva lo shock sinaptico. Prospettive azzardate ed angolazioni ardite sono esibite con “sprezzatura” di stile che pare voglia scivolare su circuiti neuronali senza attrito. Gli spazi dilatati percorsi da carrellate sfreccianti trasformano la visione in un’esperienza allucinogena. Epidermica, sì, ma non stucchevole. Il paragone che riesce più facile è con Danny Boyle, e basti vedere il primo quarto d’ora del recente “127 ore” per avvertire una certa affinità ghiandolare.

A fagiuolo, più che ad effetto: perché “Limitless” resta un film estremamente dinamico anche se, a ben vedere, non risulta significativamente movimentato rispetto ai canoni dell’action movie, assecondato com’è, in molti punti, dalla voce narrante fuori campo più che da frenetiche scene d’azione. Eppure la calibratura funziona: diverse impennate ora hitchcockiane (l’incantevole Abbie Cornish inseguita nel parco da un losco sfregiato), ora cronenberghiane (la resa dei conti con un malavitoso dell’Est nel superattico blindato, a mo’ della sauna de “La promessa dell’assassino”), ma soprattutto un dinamismo perdurante, vuoi per la sceneggiatura filante, vuoi per le spericolatezze delle inquadrature e del montaggio.

Cooper giganteggia sempre quando gli si affida uno script solido (vedi “Una notte da leoni”, e tra poche settimane assisteremo al sequel), assumendo in “Limitless” quasi l’aria di Ralph Fiennes in “Strange days” in versione “benedetta”. Verrebbe da sparare a zero su De Niro, auto-caricatura ben remunerata: ma se quella è diventata la sua maschera, tanto vale sfruttarla senza troppe pretese. Peccato per Abbie Cornish, la promettente attrice australiana che compare poco e poco strategicamente.

La bontà del prodotto ha però un limite: la sceneggiatura è a doppio taglio, buona ma non fa miracoli. Ed allora il finale arrabattato si perdona meno facilmente di alcuni risvolti dell’intreccio la cui approssimazione era tutto sommato riuscita trascurabile nel calderone del moto perpetuo. Anche il tentativo, un po’ maldestro, del doppio epilogo è risolto in maniera insoddisfacente, più per parole che per azioni. Non diventerà un cult, dunque, ma si lascerà guardare piacevolmente, in attesa di altri “illusionismi” di Burger alla regia.

ANTONIO MAIORINO
 


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