Adolescenza e suicidio...l'intervista a Sofia 15enne
La strada della vita Lazio Roma

Adolescenza e suicidio...l'intervista a Sofia 15enne

lunedì 12 novembre, 2018

“Sofia; Ho 15 anni: Volevo morire!”

Occhi troppo grandi e pelle troppo sottile: gli adolescenti affacciati sul mondo vedono chiaramente, di quest’ultimo, il lato buio e deforme, e percepiscono senza filtri la sua tremenda complessità. C’è qualcosa di eccitante, certo, nell’andare incontro al mostro, per quella spavalda convinzione di poterlo dominare che generalmente i giovani hanno; ma la paura, intanto, non li abbandona mai.

E poi non immaginano – gli occhi sono grandi ma lo sguardo è unidirezionale – che proprio in cima alla salita li aspetta la visione di una vallata di luce; non sanno dei tanti pendii, dei mille sentieri, dei giorni buoni che seguono quelli cattivi; non conoscono il piacere di ribellarsi alla morte attraverso l’arte, o il gusto indescrivibile che si prova nel cambiare idea.

Infine, i regali della contemporaneità. Gli adolescenti di oggi sono la generazione degli smartphone e della tecnologia invadente, connettiva, liberatoria, che annulla meravigliosamente i confini e collega gli individui a livello planetario, ma insieme scioglie la parola e deresponsabilizza al suo utilizzo, isola e inchioda ad uno schermo luminoso.  

Tra il 2010 e il 2017, negli adolescenti fra i 13 e i 18 anni sono aumentati depressione, ansia e isolamento, ed è cresciuta la percentuale dei suicidi. Al di là di ogni demonizzazione, appare piuttosto evidente che gli adolescenti si stanno ‘autodistruggendo’ con i propri smartphone.

L’uso esasperato di questi dispositivi sembra infatti creare un disagio tale da compromettere gravemente la già difficile comunicazione con gli adulti, oltre che, talvolta, con gli stessi coetanei. L’esistenza virtuale in cui il ragazzo è trascinato si rivela una trappola, un’esperienza che promette libertà e soddisfazione ma finisce invece per acutizzare il senso di solitudine e la rabbia nei confronti del mondo che ogni adolescente - particolarmente chi vive una complessa situazione familiare – solitamente si porta dentro.

Si tratta spesso di ragazzi per i quali, in famiglia, vi sono pochi divieti, e a cui e molto, se non tutto, viene spesso concesso. Sono dunque abituati, a differenza delle precedenti generazioni, a non essere mai messi in discussione – cosa che invece avviene inevitabilmente quando la vita si sposta fuori di casa, dove tutti i coetanei sono a loro volta cresciuti sentendosi al centro dell’attenzione – e a considerare gli altri meno importanti di se stessi: il senso di inadeguatezza e il conflitto sono, dunque, scontati.

Appaiono illuminanti a riguardo le parole di Sofia, una ragazza quindicenne che nella sua breve intervista ci spiega quale era il suo stato d’animo quando ha tentato il suicidio.


SOFIA            

La ragazza si presenta così:

«Mi chiamo Sofia; ho quindici anni, e come vedi sono su una sedia a rotelle. La colpa è mia: VOLEVO MORIRE!».

La guardo incredula, cercando di capire: «Sofia, ma che dici? Perché colpa tua? Da cosa deriva tanta sofferenza?» le chiedo turbata.

I suoi occhi si riempiono di lacrime. «Non riesco più a studiare… Non ho amiche: nella classe si sono formati i gruppetti, ma io non ne faccio parte; rimango invariabilmente da sola con la mia carrozzina elettrica… ultimo grido!» mi risponde, con un sorriso amaro.

Alle medie ero sempre al centro dell’attenzione; ero io che organizzavo le uscite per il quartiere e le festicciole fra noi… Mi viene una rabbia nera quando ci penso; adesso, intorno a me, vedo solo sguardi di commiserazione e noto una falsa solidarietà».

«Dimmi, Sofia… perché ora le cose sono cambiate?».

Rimane per un attimo in silenzio, fissandomi negli occhi… Credo che stia elaborando la risposta.

«C’è stato un periodo in cui la mamma ha mandato me e le mie sorelle a vivere dalla nonna».

«Perché?».

«Abitavamo fuori città, ed era complicato raggiungere la scuola. O, almeno, questa era la versione dei miei genitori… Ma noi sapevamo che il vero motivo era un altro. I miei si stavano separando e l’atmosfera era incandescente. Mia madre ha preso questa decisione dopo aver consultato uno psicologo. Le continue liti ci stavano distruggendo… I loro scontri erano quasi sempre violenti e, in quelle occasioni, la mia sorella più piccola spesso sveniva, mentre quella più grande aveva attacchi di panico. Io mi nascondevo sotto il letto per intere giornate.

La nonna, forse per provare a farci nuovamente sorridere, regalò a me e a mia sorella maggiore un cellulare. A noi sembrò un miracolo: stavamo tutto il giorno attaccate al telefono, divertendoci a chattare con i nostri compagni».

Si ferma a riflettere un attimo, poi aggiunge: «Gli incontri con lo psicologo che la nonna ci organizzò in quel periodo ci hanno aiutato tanto; negli anni delle medie le cose sono andate abbastanza bene».

«Perché adesso sei sulla carrozzella?».

«Dopo la separazione sono passati diversi mesi prima che la mamma riuscisse a vendere la vecchia casa; poi, con l’aiuto di nonna, ha comprato quella dove abitiamo adesso».

Le ripeto la domanda: «Perché ora sei sulla carrozzella?».

«Dopo la separazione la mamma non era più la stessa. Ha incominciato a picchiarci. Questa cosa mi faceva sentire cattiva, e anche io diventavo violenta e le rispondevo con parolacce e insulti, continuamente. Non accettavo i suoi rimproveri, anche se sapevo che erano giustificati. Me ne stavo quasi l’intera giornata con il cellulare in mano e le cuffiette fisse in testa. L’analista che mi seguiva consigliò a mia madre di sequestrarmi il telefono, ritenendo che fosse la principale causa della mia depressione. Lei tentò di farlo, e si scatenò una lite furibonda che la costrinse a rinunciare».

Rimane a fissarmi con i suoi occhi scuri e, osservando la sua figura adolescenziale, graziosa nella sua innocenza e, contemporaneamente, patetica per la sua condizione, mi dico che, se potesse stare in piedi,  sarebbe una perfetta fotomodella.

Torno immediatamente presente e sollecito una risposta alla mia domanda: «Perché?».

Mi accorgo con stupore che, mentre parla, le sue mani tremano, e gli occhi si stringono fino a diventare due fessure; noto le unghie martoriate, e poi un altro particolare inquietante: con un gesto ricorrente e compulsivo, si porta una mano dietro alla nuca, come a voler alleviare un dolore… E questi tic, che ne scoprono la fragilità infantile, in un attimo modificano ai miei occhi la sua immagine, permettendomi di andare oltre il suo look di giovane avvenente.  

Lei legge nei miei pensieri e, guardandosi le mani, arrossisce vistosamente: «Adesso sto molto meglio» spiega «e queste, e molte altre ancora, sono le conseguenze! Forse i troppi litigi con mia madre mi hanno fatto andare fuori di testa…».

«Perché litigavi con tua madre? Ci sarà pure una ragione di fondo».

«Mia madre è molto possessiva, vuole controllare tutto… anche quanti sospiri faccio».  

Rimane un po’ spiazzata, poi scuote la testa: «Alle medie ero la prima della classe… Adesso ci sono diverse materie in cui ho appena la sufficienza. Prima avevo in corpo una rabbia che mi rovinava l’esistenza. Non sopportavo più le urla e i rimproveri di mia madre e mi mettevo a gridare più forte di lei. Non avevo più voglia di fare niente. Sentivo sempre la sua voce isterica che mi martellava la mente. Ero stressata e mi era impossibile concentrarmi. Arrivavo a scuola già stanca e demotivata. Non vedevo l’ora di mettermi a giocare al cellulare.

Quando qualcuno mi invitava ad una festa, io rifiutavo perché sapevo che se mia madre non ne conosceva i genitori non mi avrebbe permesso di andarci».

Ha gli occhi lucidi. Il suo giovane mondo è sconvolto quotidianamente da un dramma. La sua espressione sconsolata mi fa male.

«Papà ci ha abbandonato quando io avevo dieci anni, dicendo di non sopportare più il caratteraccio di mamma, mentre lei sostiene che sia andato via perché aveva un’amante. Il suo abbandono ha complicato ancor di più la nostra vita… anche se, almeno, non siamo più costrette a subire le loro continue liti, che si concludevano invariabilmente con scontri fisici».

Mentre racconta, allucinata, tutto l’orrore vissuto in quei momenti è ancora presente nei suoi occhi.

«Non ti senti solidale con tua madre, per il calvario che ha vissuto?» le chiedo, ma finge di non aver sentito e prosegue:

«Un mese fa, dopo una lite furibonda con la mamma, mi chiusi in bagno… La vita che mi stavano costringendo a fare mi era insopportabile e, per questo, volevo punire tutti coloro che ne erano responsabili. Cercai qualcosa per farla finita; mi venne sotto gli occhi il rasoio ma lo scartai subito, non sopporto la vista del sangue. La mia attenzione fu attratta da due flaconi di tranquillanti che la mamma tiene nell’armadietto; li svuotai nel cavo della mano, come tante volte ho visto fare nei film… Provavo una strana euforia al pensiero di far soffrire mia madre; era come assaporare l’idea di una rivincita. Pensavo al mio funerale e a quanto avrebbe sofferto; mi dicevo che, in fin dei conti, sarebbe stato quello che si era meritata.  Tutto sommato - pensavo - di me non deve poi importarle tanto… visto che mi attacca per ogni sciocchezza.

Ma, mentre stavo per portare le pasticche alla bocca, altri pensieri si fecero strada in me.

‘La mia amata mamma!’.

Il ricordo del suo caldo abbraccio, dei bellissimi momenti che ci era capitato di trascorrere insieme quando non litigavamo, fermò la mia mano. La visione della grande sofferenza che stavo per infliggerle, del suo viso devastato dalla disperazione nel vedermi morta, del suo dannarsi al pensiero del mio corpo che, chiuso in una bara, e ormai insensibile alla carezza del sole sulla pelle e all’alternanza del giorno e della notte, sarebbe stato mangiato dai vermi, mi serrò il cuore in una morsa, impedendomi di respirare.

D’impulso buttai le pasticche sul pavimento, calpestandole rabbiosamente. Poi rimasi come inebetita, senza sapere cosa fare. Presi il cellulare e feci il numero della nonna: volevo sentire la sua voce…

La mia dolce nonna… L’unica persona che mi ha sempre capita e consigliata, senza offendermi o rimproverarmi.

Mi rispose subito, e la sua voce mi riportò alla realtà.

Ha molto sofferto nella vita, e in quel periodo mi ripeteva spesso che io ero il suo raggio di sole. Quando mi parlò, il suo tono era dolce come sempre, ma le parole erano a tratti rotte da un tremito. Da qualche tempo si è ammalata, e soffre in silenzio.

Pensai che sarebbe rimasta sconvolta dal dolore se io mi fossi suicidata. Capii che avrei fatto tanto male a tutti…».

Cerco di seguire i suoi ragionamenti, ma sono un po’ disorientata… Mi chiedo come una ragazza così giovane possa amare e provare un sentimento di ribellione nello stesso tempo.

«‘Nonna, ti voglio bene!’ le dissi piangendo.

Lei mi ha sempre capita al volo, e soffre per la conflittualità del mio rapporto con la mamma.

Si allarmò subito.

‘Ti voglio bene anch’io, vita mia. Tutti ti vogliamo bene. Ascolta amore mio, adesso calmati, respira forte e dimmi cosa ti succede’.

‘Sono disperata, nonna! Non voglio più vivere!’ le dissi, senza riflettere sulle parole. Il gemito che ne seguì mi fece capire che, con quella frase, le avevo fatto del male.

‘Non puoi parlare cosi: qualsiasi cosa ti sia successa, insieme possiamo affrontarla… Tu sei una ragazza giudiziosa e non puoi reagire in questo modo. Sofia, non pensi a me? Io ho bisogno di te, lo sai che sto male, vieni a farmi un po’ di compagnia… Ti prego, corri qui!’.

La sua voce tremava, e il mio cuore era stretto in una morsa… Nonna non meritava che le infliggessi altri tormenti; l’ansia che percepii nelle sue parole mi fece capire che l’idea di perdermi l’avrebbe uccisa. La tranquillizzai.

‘Va bene nonna, non preoccuparti, fra poco sarò da te.

Riattaccai, col cuore che mi scoppiava di pianto. Mi sentii un’egoista e una vigliacca: non avrei dovuto angosciare così la nonna.

Ero confusa; non riuscivo a focalizzare la mia volontà. Non avevo ancora del tutto abbandonato l’idea del suicidio: la mia condizione esistenziale era rimasta la stessa. Cominciai a sbattere la testa contro il muro e a dare pugni sul bordo della vasca da bagno».

Le guance le si coprono di lacrime. Le prendo una mano, stringendogliela forte.

«Forse volevi attirare l’attenzione degli altri per far capire quanto male ti stavano facendo?».

«Nemmeno io sapevo esattamente cosa avrei voluto… Ora, a mente più lucida, mi rendo conto che, se si era creata quella situazione, la colpa dev’essere stata anche mia e della mia rabbia. Alla fine, comunque, mi sono ritrovata con le mani gonfie e un fortissimo mal di testa».

«Non pensi che tua madre si preoccupi per le proprie figlie? Forse quella che voi percepite come aggressività è solo paura di non essere una buona madre. Quando una mamma teme di non essere all’altezza del suo compito può trasformarsi in una persona tormentata dalle incertezze, e quindi irascibile.

È possibile che tua madre sia, in realtà, una brava persona che ha sofferto tanto, e che si comporti in questo modo perché è stata, a sua volta, vittima di una violenza ingiustificata. Considera che vi è rimasta sempre vicino, cercando di darvi una buona educazione e un avvenire migliore del suo. Nella sua petulanza quasi maniacale, cerca di suggerirvi sempre il meglio. Avrebbe potuto abbandonarvi e rifarsi un’altra vita… ma non lo ha fatto. Non credi che meriti, per questo, un po’ di rispetto? Prova a guardare le cose dal suo punto di vista: devi capire che anche lei ha un limite e che, con tutto quello che ha passato, lo ha largamente superato.

Le madri dei ragazzi in età adolescenziale spesso si trovano nel periodo della menopausa, che già di per sé induce una donna alla depressione. Aggiungi il lavoro, la casa, i figli in età ribelle, il marito che l’abbandona per un’altra più giovane, una vita stressante, e puoi facilmente comprendere che questo cocktail micidiale ha reso tua madre astiosa e insofferente.

A quanto ho capito tuo padre vi ha abbandonato, lasciando tutto il peso della vostra educazione sulle spalle di mamma. Senza rendersi conto della fragilità della poveretta. Vuoi dirmi perché è stata colpa tua se ti trovi su una sedia a rotelle?».

“Ok. È un ricordo molto doloroso per me. Quel giorno dopo la telefonata alla nonna scesi in strada per andare a trovarla: avevo voglia di abbracciarla. Avevo le cuffiette e la canzone che stavo ascoltando - My Friends di Maximilian Hecker – è molto triste, un vero incitamento al suicidio! Ripeteva: A nessuno importa di me. Ero totalmente coinvolta. Chiusi gli occhi e incominciai ad attraversare la strada sperando che qualche macchina mi venisse addosso per provare la sensazione dolce e rilassante del nulla. Infatti sentii qualcosa ma non fu né rilassante né piacevole. Mi ritrovai all’inferno, un inferno di sofferenza e di urla, sentivo ancora la musica in lontananza mentre il dolore mi offuscava il cervello. Ricordo che l’ultimo pensiero angoscioso è stato ‘Mamma, dove sei? Aiutami…’.

Ho ricordi confusi di voci sommesse. Accanto a me, mentre ero in coma, percepivo la presenza di mamma, il suo pianto silenzioso e disperato.

Avrei voluto parlare, dire che ero ancora viva, ma non riuscivo a fare nessun movimento.

Pregavo Dio che mi facesse vivere, avevo tanta voglia di sentire il calore del sole e il rumore del mare. ‘Sono ancora viva’, ripetevo a me stessa, e questa consolante consapevolezza mi aiutava a combattere, a resistere.

‘Tutto questo passerà - mi ripetevo - e tornerò nel mio mondo che amo tanto. VOGLIO VIVERE!’ Pensavo: ‘Dio perdonami, sono stata una stupida!’».

Il ricordo di quei momenti la fa soffrire. Si asciuga le lacrime e continua:

«Capisci adesso perché mi sento in colpa? Nonostante tutto, sono felice e ringrazio la vita che mi ha dato un’altra possibilità! Il prezzo che devo pagare per la mia stupidità è altissimo, ma vivo il mio stato come una giusta punizione. Adesso voglio assaporare ogni momento della mia vita, combattere le avversità e stare accanto alle persone che mi amano».

Cerco di smorzare la tensione con una domanda provocatoria: «Non hai un ragazzo, uno che ti piace?».

«No. Nella mia scuola i maschi sono tutti antipatici, non se ne salva nessuno».

Mi scappa un sorriso. Ride anche lei… La vedo più serena.

«Pensi ancora di farla finita?» le dico approfittando del momento favorevole, guardandola con aria di disapprovazione.

«Mentre ti raccontavo di me ho capito che sono una povera deficiente, mi vengono i brividi pensando a quello che stavo per fare! Hai ragione tu, la mamma ci ama: è per questo che ci rimprovera».

Mi sembra abbastanza convinta di quello che dice.

«Quando torni a casa abbraccia tua madre; sta prendendosi cura di tre figlie… è un grande sforzo, credimi!».


Raccolgo le mie cose che sono sparse sulla panchina e mi accingo a salutarla. Lei mi butta le braccia al collo e mi stampa un lungo bacio sulla guancia.

«Grazie Antonia, sei una persona ok».

Quel gesto mi emoziona. Ricambio il suo abbraccio.

«Tieni, questi sono i miei recapiti, telefonami o scrivimi quando vuoi».

Poi, seguendo il mio rituale giornalistico, aggiungo: «Cosa consiglieresti ai tuoi coetanei che sono in contrasto con i genitori?».

Riflette seria per un po’, poi sorride maliziosa:

«Quello che, ora, ripeto ogni momento a me stessa: la vita è un dono e bisogna viverla fino in fondo… Anche su una sedia a rotelle si può essere felici. Le cose belle che la vita ci regala come il sole, il mare, i fiori, l’amore dei nostri cari, nessuno può togliercele, se non noi stessi: non comportiamoci da egoisti, e pensiamo all’impegno fisico e morale che i nostri genitori sostengono, sforzandosi di assicurare a noi una vita migliore…».


Il suicidio è la seconda causa di morte tra i ragazzi sotto i 20 anni. Se ne parla poco, ma in Italia sono 4000 i decessi legati a questo gesto estremo, il 12% dei quali tra giovani e giovanissimi, ossia quasi 500 ogni anno. In occasione della Giornata Mondiale per la prevenzione dei suicidi del 10 settembre, gli esperti del Bambino Gesù invitano i genitori a monitorare i segnali di disagio dei figli, primi fra tutti i cambiamenti repentini dell’umore, del comportamento, della socialità.  La stampa, 9 settembre 2016.


Dati allarmanti, che purtroppo non indurranno i ragazzi a riflettere: gli adolescenti non riflettono sui dati e sulle motivazioni. Possiamo solo sperare che provino a farlo i loro genitori.


Antonia Caprella


Autore
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